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Lo stalinismo |
Politica
e storia in genere non vanno molto d'accordo: la prima,
anche nelle sue forme più oneste e brillanti, ha
necessariamente obiettivi a medio termine e modi un po'
sbrigativi, la seconda è fatica, memoria piena di
contraddizioni, ricerca di segni e di sedimenti nascosti.
Sul
giudizio in merito al comunismo, tuttavia, si è formata
una strana alleanza fra le due, e con una trasversalità
tanto inquietante quanto suggestiva: un cumulo di errori/orrori,
un edificio mostruoso che è imploso da solo, barbarie
da dimenticare, et cetera.
E pazienza per i milioni di donne e di uomini che in esso
hanno creduto, pensando di trovarvi un po' di speranze.
Si va dalla radicalità pre-illuministica ("niente
di buono poteva venire da un materialista come Marx e dai
suoi nipotini") all'oscena paciosità
veltroniana ("non mi sarei mai iscritto al partito
di Togliatti"), passando per l'ipocrisia dei nostalgici
("sì, vabbè, però l'URSS non
era mica tutta da buttare") o il candore ignorante
e schizofrenico ("c'era una volta un uomo buonissimo
che si chiamava Lenin, venne poi un uomo cattivo che si
chiamava Stalin").
In ogni caso ciò che va perso è l'insieme
- complesso e di non facile decifrazione - degli elementi
che hanno brutalmente stravolto la più grande utopia
immaginata.
Tanti
libri, occorrerebbero, e parole libere dal pre-giudizio,
e molto tempo, ma qui non è possibile. Cercheremo,
allora, di rammentare con serenità quanto diceva
Zenone nell'Opera al nero, e di ragionare con
passione, cercando di capire che lo stalinismo è stato il peggior danno per il socialismo.
Chi non vuole accontentarsi delle formulette, di destra
e, ahinoi, di sinistra, potrà forse trarre spunto
da queste pagine per riflettere, e scavare, un po' come
vecchie talpe...
Il
tentativo di analisi di un fenomeno che nasce dal kàos di
una rivoluzione e soprattutto la domanda su come l'inganno abbia
potuto travolgere intere generazioni e distruggere (?)
l'idea stessa del comunismo. Ma, naturalmente, la risposta non
può essere solo storiografica o politica: homo
homini lupus è una vecchia storia.
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Ha governato col pugno di ferro.
Ha messo fine ai sogni di molti in ogni paese.
Aveva l'occasione di creare una nuova partenza per la razza umana,
e invece l'ha riportata indietro,
nello stesso orribile posto
Pete Seeger, Big Joe Blues
Arrivederci, bandiera rossa
Arrivederci, bandiera rossa - sei scivolata giù dal Cremlino
non come ti innalzasti, agile, lacera, fiera,
sotto le nostre bestemmie sul Reichstag fumante,
sebbene anche allora intorno alla tua asta, si consumasse una truffa.
Arrivederci bandiera rossa… Eri metà sorella, metà nemica.
In trincea eri speranza unanime d’Europa,
ma tu cingevi il Gulag con un rosso schermo
e tanti infelici in tuta da carcerati.
Arrivederci, bandiera rossa... Riposa, distenditi.
E noi ricorderemo quelli che dalle tombe più non si leveranno.
Gl’ingannati che hai condotto al massacro, alla strage,
ricorderanno anche te - ingannata tu stessa.
Grondavi di sangue e noi col sangue ti togliamo.
Ecco perché adesso non ci sono più lacrime da asciugare:
così brutalmente sferzasti, con le nappe scarlatte, le pupille.
Arrivederci, bandiera rossa… Il primo passo verso la libertà
lo compimmo d’impulso con la nostra bandiera
su noi stessi, nella lotta inaspriti.
Che non si calpesti di nuovo «l’occhialuto» Zivago.
Arrivederci, bandiera rossa… Da te disserra il pugno,
che ti serra di nuovo, ancora minacciando fratricidio,
quando all’asta si afferra la marmaglia
o la gente affamata, confusa dalla retorica.
Sei rimasta una striscia nel russo tricolore.
Nelle mani dell’azzurrità e del biancore
forse il colore rosso dal sangue sarà liberato.
Arrivederci, bandiera rossa… guarda, nostro tricolore,
che i bari di bandiere non barino con te!
Possibile anche per te lo stesso giudizio:
pallottole proprie ed altri ne hanno la seta divorato?
Arrivederci, bandiera rossa… Sin dalla nostra infanzia
noi giocavamo ai «rossi» e i «bianchi» li pestavamo forte.
Noi, nati nel paese che più non c’è,
ma in quell’Atlantide noi eravamo, noi amavamo.
Giace la nostra bandiera al gran bazar d’Ismajlovo.
La smerciano per dollari, alla meglio.
Non ho preso il Palazzo d’inverno. Non ho assaltato il Reichstag.
Non sono un kommunjak. Ma guardo la bandiera rossa e piango.
Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, 23 giugno 1992
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