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Luciana Castellina
Come la liberazione divenne riconquista |
Per sgomberare il campo da possibili equivoci voglio ricordare che io, assieme ad altri, dal PCI fui, nel '69, radiata anche perché ritenevo che il sistema sovietico fosse ormai irriformabile e non più difendibile. Molti di coloro che nei paesi dell'est si battevano per libertà e democrazia sono stati del resto interlocutori diretti (e a lungo esclusivi) della rivista cui demmo vita, il manifesto.
Vent'anni dopo, nell''89, era ancora più chiaro che, se il comunismo poteva avere ancora un futuro (come noi pensavamo), non era certo in continuità con l'esperienza sovietica. Una rottura era dunque indispensabile, ma non una qualsiasi. In merito più che mai necessaria appariva una riflessione critica di tutte le forze che a quella storia si erano ispirate se volevano avere ancora un ruolo. Che invece non ci fu.
Se insisto nel dire - e oggi, ad altri vent'anni di distanza è ancora più evidente - che in quell'autunno dell''89, vi fu certo liberazione da regimi diventati oppressivi, ma non una risolutiva liberazione, è perché il crollo del Muro si verificò in un preciso contesto: non per la vittoria di forze animatrici di un positivo cambiamento, ma come riconquista da parte di un occidente che proprio in quegli anni, con Reagan, Thatcher e Kohl, aveva avviato una drammatica svolta reazionaria.
Quanto seguì non fu infatti certo glorioso. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante e pervasivo, il capitalismo più selvaggio e ogni forma di aggregazione nella società civile, espressione di qualche valore collettivo, venne cancellata, lasciando sul terreno solo ripiegamento individuale, egoismi, prepotenza, quando non peggio. Non solo ad est della ormai ex cortina di ferro, del resto, ma anche dal nostro lato. Perché anche qui da noi, la morte del socialismo sovietico è stata vissuta come rinuncia ad ogni ipotesi di cambiamento. Persino un liberal-democratico come Bobbio, che certo comunista non era, ebbe - lucidamente - a preoccuparsene.
Non era scontato che andasse così. La storia non si fa con i se, né può essere accusato il destino «cinico e baro». Se è andata così non è per caso, ma è per precise responsabilità di cui tutti, chi più chi meno, portiamo il peso. Voglio solo dire che c'erano altri scenari possibili e che a quel risultato si è invece arrivati perché si era nel frattempo consumata una storica sconfitta della sinistra a livello mondiale, e il 1989 è una data che ci ricorda anche questo. Se il PCI avesse operato la rottura che poi operò nel 1981 con il sistema sovietico quando noi lo avevamo chiesto, in quegli anni '60 in cui i rapporti di forza stavano cambiando a favore delle forze di rinnovamento in tutti i continenti, sarebbe stata ancora possibile una uscita «da sinistra» dall'esperienza sovietica, non la capitolazione al vecchio che invece c'è stata.
È un discorso che non vale solo per i comunisti, del resto. Per il modo come il Muro è caduto era chiaro che un impatto ci sarebbe stato alla lunga anche sull'altra corrente del movimento operaio, la socialdemocrazia. La cui crisi, sempre più accentuata, è oggi palese testimonianza. Perché è la legittimità stessa di ogni idea di sinistra che è stata messa in discussione. Non solo: anche se i partiti socialdemocratici erano stati sempre molto ostili al blocco sovietico bisogna ben dire che le loro conquiste sociali sono state strappate in Europa anche grazie al fatto che la borghesia era stata costretta a dei compromessi perché c'era una società che, con tutti i suoi difetti, aveva però spazzato via il feudalesimo e la reazione. Senza il vento dell'est quelle conquiste sarebbero state impensabili. È tutta la sinistra, insomma, che da quel tipo di crollo dell'Urss ha sofferto.
Certo, il Muro avrebbe potuto cadere in modi molto più drammatici: incenerito dai missili che proprio in quegli anni '80 erano stati installati in tutta Europa, in attuazione della sconsiderata strategia reaganiana cui, con miopia, aveva risposto la corrispettiva installazione di SS20 da parte di Breznev. Se questo scenario devastante non si inverò fu molto - vorrei ricordarlo - per via del movimento pacifista, la più grande mobilitazione giovanile europea dopo il '68, che contenne le spinte belliciste e contribuì a far avanzare un negoziato di disarmo che creò lo spazio in cui Gorbaciov - vero artefice della caduta del Muro - poté inizialmente muoversi.
Non abbastanza, tuttavia, perché il nuovo leader sovietico, che aveva capito che occorreva cambiare e in fretta, e in questo senso si era mosso con imprevedibile coraggio, non trovò interlocutori ad occidente disposti a costruire quella «casa comune europea» che egli aveva in mente e che avrebbe dovuto essere cosa diversa dalla semplice annessione all'Ue dei più obbedienti paesi dell'est. Qualche passo in questo senso lo accennò nel gennaio del '90 Jaques Delors, allora presidente della Commissione Ue, ma nessuno lo seguì. E così l''89 segna la data anche di un'altra sconfitta: quella dell'ambizione europea ad assumere un ruolo, che proprio le aperture di Gorbaciov consentivano, nel ridisegnare i rapporti internazionali. E così l'equilibrio bipolare non sfociò in un equilibrio multipolare, diventò semplicemente monopolare.
Se nel nostro pezzo d'Europa ci fosse stata una sinistra più forte e lungimirante, avrebbe potuto cogliere l'occasione dello scioglimento dei due blocchi politico-militari per dare nuova forza al soggetto Europa, così riequilibrando i rapporti di forza nel mondo. E invece la sua debolezza finì solo per avallare una resa incondizionata al blocco atlantico, lasciando tutti alla mercè del dominio incontrastato degli Stati uniti. La guerra contro l'Iraq, la catastrofe palestinese, e infine l'Afganistan sono lì a provarlo. Quanto alle vecchie «democrazie popolari», sono tornate allo status vassallo di protettorato a dipendenza del capitalismo occidentale, riservato tra le due guerre all'Europa centrale e balcanica.
L'esempio forse più illuminante di come malamente hanno proceduto le cose è quello dell'unificazione della Germania, che pure era stata sogno legittimo del popolo tedesco. A 20 anni da quell'evento, una inchiesta pubblicata sul settimanale Spiegel ci dice che il 57% dei cittadini della ex Repubblica Democratica Tedesca hanno nostalgia di quel regime. Che francamente non era davvero bello. Vuol dire dunque che l'integrazione è stata solo conquista, e che l'ovest è arrivato come un rullo compressore, cancellando ogni cosa, anche i diritti sociali che lì erano stati sanciti e oggi vengono rimpianti.
Se insisto ancor oggi a sottolineare le occasioni mancate dell''89, e i guasti che il non averle colte ha provocato, è perché nell'agiografica euforia con cui viene ora celebrato il ventennale della caduta del Muro anche da una bella fetta della stessa sinistra, c'è qualcosa di anche più pericoloso: lo spensierato seppellimento di tutto il XX secolo, come se si fosse trattato solo di un cumulo di orrori, da dimenticare. Senza alcun rispetto storico per quanto di eroico e coraggioso, e non solo di tragico, c'è stato nei grandi tentativi, pur sconfitti, del Novecento. Non solo: una riduzione gretta del concetto di libertà e democrazia, arretrato persino rispetto alla Rivoluzione Francese, che assieme alla parola liberté aveva pur collocato le altre due significative espressioni egalité e fraternité, ormai considerate puerili e controproducenti obiettivi. Il mercato, infatti, non le può sopportare.
Io non credo che andremo da nessuna parte se, invece, su quel secolo non torneremo a riflettere, perché si tratta di una storia piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie. Buttare tutto nel cestino significa incenerire anche ogni velleità di cambiamento, di futuro.
In quelle settimane di precipitosa accelerazione della storia che culminò con la fiumana umana che attraversava festosa la porta di Brandenburgo, a Berlino c'ero anch'io. Certo partecipe di quella gioia, come si è contenti ogni volta che un ostacolo al cambiamento viene abbattuto. Ma la libertà vera, quella per cui i tanti che credono che un «altro mondo» sia possibile si battono, quella non ha trionfato. Per questo l''89 non è una festa, è un passaggio contraddittorio e difficile. Un'occasione per riflettere.
da Nuvole.it
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Buchi nella cortina di ferro |
Il 2 maggio 1989 l'Ungheria cominciò a smantellare la rete al confine con l'Austria. Sebbene quella frontiera restasse sorvegliata, la foto con i militari ungheresi armati di cesoie innescò un esodo di cittadini della DDR-Repubblica democratica tedesca attraverso l'Ungheria e la Cecoslovacchia, passando spesso per le ambasciate di Bonn in questi due paesi e in Polonia, e che portò infine all'apertura del confine occidentale della RDT e del muro di Berlino il 9 novembre.
Luglio
Cittadini della Repubblica democratica cominciano a rifugiarsi nelle ambasciate della Repubblica federale tedesca a Budapest e Praga e nella rappresentanza permanente della RFT a Berlino est.
Agosto
L'8 agosto viene chiusa al pubblico la rappresentanza di Bonn a Berlino est, dove più di 100 persone chiedono di lasciare la RDT. Il 13 chiude i battenti l'ambasciata di Budapest, con 181 rifugiati. Il 19 gruppi dell'opposizione ungherese organizzano un «picnic europeo» al confine con l'Austria. Le guardie di frontiera chiudono un occhio e più di 600 tedeschi dell'est passano a ovest. Il 24 i rifugiati all'ambasciata tedesca di Budapest possono partire in aereo per l'Austria, con documenti della croce rossa internazionale.
Settembre
L'8 settembre 117 rifugiati lasciano la rappresentanza di Bonn a Berlino est - che resterà poi chiusa fino a novembre "per lavori di manutenzione" - senza un'esplicita assicurazione sull'espatrio ma con la promessa di assistenza legale da parte dell'avvocato Vogel, fiduciario del governo della RDT per questioni umanitarie.
L'11 l'Ungheria apre definitivamente il confine con l'Austria, dopo aver dichiarato decaduto l'accordo con la RDT che impegnava reciprocamente i due paesi a non far proseguire per i paesi occidentali i loro cittadini sprovvisti di permessi. Nel giro di tre giorni 15.000 cittadini della RDT smontano le tende nei campeggi ungheresi e raggiungono la RFT attraverso l'Austria. Nel giardini dell'ambasciata di Bonn a Praga si sono ammassati in condizioni indescrivibili 4500 rifugiati della RDT. Il 30 settembre il ministro degli esteri Genscher dà loro l'annuncio che il governo di Berlino est acconsente a farli espatriare, con treni che passeranno dalla RDT.
Ottobre
L'ambasciata di Praga si riempie di nuovo. Il 4 ottobre un secondo contingente di 7600 persone può lasciarla, con treni speciali. Alla stazione di Dresda la polizia carica una folla di 3000 persone che cerca di salire sui convogli.
Anche a Varsavia l'ambasciata di Bonn è presa d'assalto. Il 5 ottobre la RDT acconsente a far partire in treno per Hannover 633 suoi cittadini. Tra il 17 e il 20 ottobre l'esodo da Varsavia continua con voli speciali che portano a Düsseldorf 1500 persone.
Intanto a Praga si ricomincia da capo. Il 3 novembre la RDT deve nuovamente autorizzare la partenza di 4500 persone con treni che stavolta andranno direttamente in Baviera. A questo punto la Cecoslovacchia considera "aperta" questa sua frontiera e nei due giorni successivi lascia passare altri 18.700 cittadini della RDT con la sola carta d'identità.
Il muro di Berlino, ormai aggirabile via Budapest e Praga, non serve più a niente.
da il manifesto, 8.11.2009
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Giulietto Chiesa
Chi ha costruito il Muro di Berlino? |
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