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Luciano Canfora
1956 L'anno spartiacque |
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Giuseppe Chiarante
Il '56 di un irregolare |
1. Ho vissuto quel momento cruciale nella storia
del PCI e dell'intero movimento comunista che fu il 1956 - un
anno di svolta per tutta la storia del Novecento - con una collocazione
politica e forse anche per questo con reazioni emotive e con
un punto di vista critico sensibilmente diversi da quelli espressi
nei loro interventi su questa rivista (anch'essi, del resto,
non poco diversificati) da Pietro Ingrao e Rossana Rossanda.
Nel 1956 - infatti - io non ero ancora iscritto al PCI, anche
se ormai mi ci sentivo molto vicino; venivo da una formazione
e da un'esperienza politica e culturale in campo cattolico e
solo nel 1958 avrei preso la tessera di comunista. A causa di
questa diversa collocazione è comprensibile che vi fosse
in me, di fronte al XX sCongresso del Partito comunista dell'Unione
Sovietica e alle forti reazioni da esso suscitate fra i comunisti
italiani, un certo maggiore distacco: anche se naturalmente partecipai
con interesse e passione al dibattito che quel congresso aprì in
tutta la sinistra.
Ma il punto sostanziale è un altro: è che diverse
(in qualche caso anche rispetto ai giudizi richiamati da Ingrao
e da Rossanda) furono le analisi e le valutazioni che io diedi
di molti dei fatti di quell'anno e diverse furono le indicazioni
politiche che ne derivai. Mi sembra perciò che possa essere
di qualche interesse - nel quadro di quel maggiore impegno di
ricerca e di dibattito sulla storia del movimento comunista che
era nei propositi iniziali di questa rivista, ma che ritengo
sia da sviluppare con più determinazione - riprendere
quelle analisi e valutazioni e soprattutto gli argomenti (a
mio avviso ancor oggi sostanzialmente validi) su cui esse erano
fondate. Vi sono infatti molti aspetti di quell'intricato nodo
che fu il '56 che è necessario - a me pare - cercare di
esaminare in modo più approfondito.

2. Ho già detto, ma è opportuno precisarlo meglio,
che le rivelazioni del XX Congresso e del secondo rapporto Krusëv
(il cosidetto 'rapporto segreto') furono da me accolte con grandissimo
interesse, ma in modo molto meno traumatico di quel che inevitabilmente
accadeva per chi veniva da una consolidata milizia comunista.
Per me, più giovane e con una diversa formazione culturale,
cresciuto in un differente ambiente politico, il modo di considerare
l'Urss e i suoi problemi era stato - sin dagli inizi del mio
impegno pubblico, alla fine degli anni quaranta - certamente
assai meno coinvolgente e più problematico: non era mai
diventato, in sostanza, un elemento costitutivo della mia scelta
politica. Anche per me, senza dubbio, l'Unione Sovietica era
il grande paese della prima rivoluzione anticapitalistica e della
lotta vittoriosa contro il fascismo e il nazismo. Al tempo stesso,
però, mi colpivano negativamente i problemi e gli interrogativi
connessi al modo di esercizio del potere di Stalin e del gruppo
dirigente stalinista.
Non va infatti dimenticato che - a parte i testi della propaganda
anticomunista, dai quali cercavo di non farmi condizionare perché già era
in me molto netto l'orientamento a sinistra - circolavano largamente
in Italia nell'immediato dopoguerra anche le opere di Trockije di altri autori della corrente trockista (alcune tradotte nella
nostra lingua sin dagli anni del fascismo) e proprio questi libri
furono tra le mie prime letture sulla rivoluzione del '17, sui
suoi sviluppi, sulla degenerazione autoritaria della società sovietica
sino al terrore dei secondi anni trenta. Ricordo, in particolare,
la grande emozione che mi provocò, appena fu pubblicato
da Mondadori, il romanzo Buio a mezzogiorno di Arthur
Koestler: una ricostruzione romanzata (ma neppure troppo) della
tragica vicenda di uno dei maggiori dirigenti bolscevichi che
furono vittime dei grandi processi del '36-'37.
Anche per questo se a vent'anni, nel '49-'50, la mia scelta politica
si orientò verso la sinistra democristiana che faceva
riferimento a Dossetti (il gruppo di «Cronache
Sociali» e
l'ala sinistra del Movimento giovanile) ciò non fu solo
per il condizionamento di un'educazione familiare cattolica e
di un ambiente politico democristiano e cattolicissimo quale
quello di Bergamo, dove allora vivevo; ma fu anche per le profonde
incertezze, per i dubbi, per le riserve suscitate in me dalla
riflessione su quegli aspetti della società sovietica.
E quando invece, durante la prima metà degli anni '50,
attraverso una crescente partecipazione alla battaglia politica
nella Dc e fuori dalla Dc, venni maturando un distacco sempre
più profondo dalla linea conservatrice del gruppo dirigente
democristiano e un interesse crescente per le posizioni del PCI,
in questa evoluzione dovetti fare i conti, dentro di me, con
una valutazione della realtà dell'Unione Sovietica che
non ignorava gli aspetti drammatici e negativi di quell'esperienza.
Il mio progressivo accostamento al Partito comunista fu perciò una
scelta culturalmente 'laica': che si fondava, prima di tutto,
su una valutazione del ruolo fondamentale che il PCI svolgeva
nella lotta per difendere e ampliare la democrazia italiana -
contro minacce autoritarie e pericoli regressivi - e per il rinnovamento
sociale, civile, culturale del paese; e si basava inoltre sulla
valutazione che, nonostante gli errori e gli orrori dell'autoritarismo
e delle repressioni, l'Urss non solo aveva contribuito a sconfiggere
nazismo e fascismo, ma continuava a svolgere sul piano mondiale,
di fronte alla superpotenza americana, una funzione di equilibrio
che rappresentava un punto di riferimento essenziale per la lotta
di liberazione dei popoli coloniali e per tutti i movimenti popolari
anticapitalistici e antimperialisti.
Per questo, quando giunsero le notizie sulle denunce del XX Congresso
e soprattutto sulle rivelazioni del 'rapporto segreto' certamente
fui colpito dall'importanza politica degli avvenimenti: ma fui
assai meno sorpreso di quanto dimostrassero non solo la base
ma anche tanta parte della dirigenza del PCI. Mi colpì sfavorevolmente,
soprattutto, lo stupore e l'indignazione di molti intellettuali.
Erano persone colte, che non solo - come giustamente ricorda
anche Rossanda - avevano avuto la possibilità di leggere
i libri che io avevo letto, ma che in molti casi avevano visitato
sia i paesi cosidetti socialisti sia quelli occidentali e avevano
probabilmente anche avuto accesso a informazioni riservate di
cui io non disponevo. Come era dunque possibile che non avessero
mai avuto nemmeno un dubbio sui famosi processi del '36 e '37,
e che non avessero mai messo in conto, nella loro scelta di comunisti,
che l'Urss era stata ed era 'anche questo'? Ricordo, in particolare
che assistetti allibito a un'assemblea al cinema Verbano di Roma
(probabilmente in preparazione dell'VIII Congresso del PCI) nella
quale si susseguirono veri e propri comizi contro i 'crimini
del tiranno' da parte di dirigenti del settore culturale che
fino a pochi mesi prima non avevano lesinato le parole per elogiare
il 'genio' di Stalin. Naturalmente oggi mi rendo conto, a distanza
di 45 anni, che le ragioni di questi comportamenti erano più complesse
di quel che allora a me poteva sembrare: facevano parte di quel
dramma della reticenza, o della 'doppia verità', che ha
pesato negativamente anche su un grande partito, autonomo e fortemente
democratico, quale indubbiamente fu il PCI.
Ma al di là della maggiore o minore sorpresa di fronte
a certi toni del dibattito apertosi nel PCI, ciò che mi
colpì più negativamente fu che nell'impostazione
del XX Congresso le spiegazioni date da Krusëv circa gli errori
di Stalin ('il culto della personalità') erano indicative
di un'estrema povertà di cultura politica e rivelavano
in modo molto preoccupante - come i fatti avrebbero presto confermato
- l'assenza di un progetto di riforma della società e
dello Stato che potesse davvero aprire nuove prospettive all'Urss
e alle società dell'Est. Come si poteva dunque immaginare
- come molti in Italia e in Occidente sembravano invece attendersi
- che nell'Urss si sviluppasse, su quella linea, una 'riforma
democratica'? Furono giudizi che esposi anche sulla stampa: e
fu in rapporto a queste prese di posizioni, assai differenti
dagli schemi di analisi più diffusi, che, benché fossi
ancora giovanissimo, mi fu chiesto da Alberto Carocci di rispondere,
su «Nuovi Argomenti»,
alle Nove domande sullo stalinismo che diedero occasione
alla famosa intervista di Togliatti.
Credo che in quel mio intervento, per reazione a tante prese
di posizione dominate dall'emotività, esagerai in una
valutazione dell'esperienza staliniana in chiave di realismo
politico. Ma la conclusione era che una fase si era chiusa, che
l'Urss sia pure a carissimo prezzo aveva svolto la sua funzione
storica, e che il compito di aprire nuove strade tornava ormai
al movimento operaio occidentale.
3. Ma per spiegare più compiutamente il giudizio che mi
parve allora di dover formulare sulla svolta di Krusëv e sul
XX Congresso, è necessario compiere un passo indietro.
Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Stalin, avvenuta
nel marzo 1953, ero stato fortemente interessato dai segnali
di revisione della politica staliniana che venivano dal nuovo
gruppo dirigente sovietico e in particolare dal governo capeggiato
da Malenkov. Quei segnali erano indirizzati in un senso che mi
sembrava univoco: allentamento della stretta repressiva e abbandono
dei metodi del terrore (già nel corso del 1953 furono
decine e forse centinaia di migliaia, in base alle più recenti
ricerche, i prigionieri politici che riottennero la libertà);
nuovi indirizzi
di politica economica diretti all'obiettivo, dallo stesso Malenkov
definito 'indispensabile', di assicurare maggiori investimenti
nell'industria leggera per aumentare la produzione di beni di
consumo; interventi per migliorare le condizioni di vita dei
contadini allegerendo il peso fiscale e aumentando il prezzo
di acquisto dei prodotti agricoli.
Contemporaneamente Malenkov dava avvio a una politica di apertura
e di distensione nei rapporti Est-Ovest: in un rapporto al Soviet
Supremo dell'agosto 1953 aveva lanciato la formula della possibilità di
una 'coesistenza pacifica' con i paesi dell'Occidente capitalistico
e in un discorso del 13 marzo 1954 aveva enunciato una tesi del
tutto nuova per i dirigenti sovietici, ossia che «una nuova
guerra mondiale», combattuta con i «nuovi strumenti
bellici» dell'età atomica, avrebbe provocato «la
fine della civiltà nel mondo». Era la tesi
che quasi simultaneamente veniva lanciata anche in Italia da
Togliatti, nel discorso del 12 aprile 1954 al Comitato centrale
del PCI, successivamente pubblicato sotto il titolo Per
un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana.
La svolta di Malenkov non aveva inoltre mancato di riflettersi
sulla situazione interna dei paesi dell'Europa dell'Est: che
si erano anch'essi avviati, in maniera più o meno marcata
a seconda degli equilibri politici, su una linea riformatrice.
Di particolare rilievo erano state le ripercussioni in Ungheria,
dove era stato accantonato l'uomo - cioè Rakosi - che
aveva imposto al paese una linea dispotica e repressiva; ed era
salito al governo, già nell'estate del 1953, il maggior
esponente dell'ala liberal, che era Imre Nagy.
Quest'insieme di fatti sembrava indicare, e fu questa la linea
interpretativa che a me allora parve e pare ancora la più convincente,
che il gruppo di Malenkov si proponesse - senza però porre
in modo esplicito e tanto meno in termini di denuncia ideologica
la questione dello stalinismo - di avviare nei fatti un'apertura
e una revisione che fossero diretti, nell'Urss e negli altri
paesi dell'Est, ad attenuare tensioni e contraddizioni e a recuperare
fiducia e consenso: in particolare rendendo meno rigido il regime
politico interno (il cosidetto 'disgelo') e promuovendo uno sviluppo
economico che comportasse, per la popolazione, costi più 'tollerabili'. È ovvio
che a tale svolta corrispondesse, in politica estera, uno sforzo
per superare le asprezze della 'guerra fredda': ciò avrebbe
reso possibile - mi pareva - una ripresa anche del confronto
e del dialogo tra le forze democratiche che avevano collaborato
nella guerra antifascista e che la rottura del '47 aveva spinto
su fronti contrapposti. Al riguardo mi aveva particolarmente
colpito la prontezza con cui Togliatti aveva
preso occasione dall'apertura di Malenkov per lanciare l'appello
- già ricordato - a «un'intesa tra comunisti e cattolici» sul
tema della pace e contro lo sterminio atomico.
A distanza di anni è certamente difficile dire (la ricerca
storica sui contrasti al Cremlino dopo la morte di Stalin ha
dato qualche conferma, ma non ha ancora fatto piena chiarezza)
quanto fosse fondata quell'interpretazione della linea di Malenkov.
Ancor più arduo è ipotizzare a quali sviluppi essa
avrebbe potuto condurre. È probabile che senza una rottura
più netta con l'età dello stalinismo fosse illusorio
sperare di mobilitare nuove energie e di rinnovare incisivamente
l'economia e la gestione del potere. Ciò che è certo è,
però, che l'attacco di Krusëv a Malenkov si fondò su
motivazioni e soprattutto su uno schieramento di forze che determinarono
l'interruzione - in campi decisivi - di quell'esperimento cautamente
riformatore; e anche di qui derivò il carattere contraddittorio
della svolta del XX Congresso e soprattutto delle sue conseguenze.
Quando infatti Malenkov, l'8 febbraio del 1955, fu costretto
a dimettersi da presidente del Consiglio, fu chiaro agli osservatori
più attenti (e ricordo che anch'io ne fui fortemente colpito)
che l'attacco di Krusëv, allora segretario del partito, era
stato condotto su più fronti e con argomenti e
appoggi molto diversificati. Se è vero, infatti, che egli
cercò di addebitare a Malenkov passate e presenti responsabilità per
le cattive condizioni dell'agricoltura sovietica (eterno punto
dolente della polemica politica in Urss) e se è vero che
riuscì a metterlo seriamente in difficoltà facendo
emergere una sua più o meno diretta connivenza nella cosidetta
'vicenda di Leningrado' (cioè nella stretta repressiva
che poco prima della morte di Stalin aveva colpito il partito
di quella città), è anche vero, però, che
solo attraverso un'alleanza con forze decisive del vecchio blocco
di potere Krusëv riuscì a raccogliere la maggioranza
per scalzare il suo avversario dalla presidenza del Consiglio.
L'attacco a Malenkov fu infatti condotto proprio mettendo un
discussione, in molti casi, le principali novità della
sua svolta politica: criticando per esempio lo spostamento di
risorse a favore dell'industria leggera e della produzione di
beni di consumo, considerato come una 'deviazione di destra',
che poneva in discussione il tradizionale dogma della priorità dell'industria
pesante e che soprattutto metteva in pericolo la sicurezza militare
del paese; respingendo la sua tesi circa il carattere catastrofico
di un conflitto nucleare, che fu quasi irrisa sul «Kommunist» del
marzo 1955 (cioè subito dopo la sua caduta) come uno «spauracchio
imperialista» diretto a nascondere che in realtà una
guerra avrebbe segnato la fine non della civiltà ma del
'sistema capitalistico putrescente'; infine addebitando più o
meno esplicitamente alla sua politica l'indebolimento del controllo
dell'Urss sui paesi satelliti.
A dare la vittoria a Krusëv fu, dunque, uno schieramento molto
eterogeneo, tutt'altro che compattamente innovativo. Certo ne
facevano parte settori politici e intellettuali che chiedevano
una scelta più risoluta e soprattutto più esplicita
nel senso della destalinizzazione. Ma su alcuni temi, come quello
della guerra atomica, contro Malenkov si era schierato anche
Molotov. E soprattutto nella nuova maggioranza aveva un peso
decisivo il blocco militare-industriale: non a caso la caduta
di Malenkov fu accompagnata dall'ascesa a ministro della Difesa
del generale Zukov, che in quel momento era l'esponente di punta
delle forze armate.
Ma il carattere contradditorio dell'attacco di Krusëv fu reso
particolarmente evidente dalle ripercussioni sull'Europa orientale.
Il caso più significativo fu quello dell'Ungheria. Qui,
come ho già ricordato, la 'piccola svolta' di Malenkov
aveva portato all'ascesa al potere di Imre Nagy; ma la vittoria
di Krusëv ebbe come immediata conseguenza il ritorno di Rakosi
che pose fine alla linea di distensione politica e di riforme
economiche avviata da Nagy e riportò in auge i vecchi
metodi autoritari e repressivi. Ma proprio perché in Ungheria
la svolta riformatrice era andata più avanti e aveva acceso
più speranze, qui il brusco ritorno al passato provocò un
trauma catastrofico. Si crearono così le condizioni per
il movimento antisovietico dell'estate-autunno 1956. Un movimento
che troppo tardi si cercò di contenere richiamando al
potere Nagy e che alla fine Mosca schiacciò, quando ormai
la situazione era irrecuperabile, con l'intervento armato e con
una repressione sanguinosa. Non è un caso che - come recentemente
ha rivelato la pubblicazione dei verbali del Presidium del PCUS
- fu proprio Krusëv, spalleggiato da Zukov e da quasi tutti
gli altri membri del massimo organo del partito, a proporre di
far intervenire a Budapest l'esercito russo per 'soffocare la
rivolta': mentre Malenkov, benché politicamente ormai
sconfitto, fu tra i pochi (l'oppositore più esplicito
fu Mikoyan) che sollevò riserve e perplessità.
4. Forse proprio perché avevo dedicato molta attenzione
alle novità seguite alla morte di Stalin e alle diverse
posizioni che si delineavano nella lotta di potere in corso a
Mosca, nella 'svolta' del XX Congresso e soprattutto nel 'rapporto
segreto' vidi non già la reale apertura di una prospettiva
di democratizzazione e di riforma, ma piuttosto la decisione
di usare un problema drammaticamente reale (la reazione alle
durezze e alle tragedie dello stalinismo, ai suoi metodi di gestione
del potere, ai tanti sacrifici imposti al paese) per sconfiggere
gli avversari interni e soprattutto per rimettere in moto la
società sovietica attraverso un appello alla mobilitazione
rivolto direttamente alla base del partito in nome della lotta
contro le degenerazioni del 'culto della personalità'.
Ma era un appello che non si fondava su un progetto che fosse
realmente in grado di andare oltre l'attivismo volontaristico
e di delineare un'effettiva trasformazione, in senso più dinamico
e democratico, del sistema politico e delle strutture produttive.
Mi parve chiaro, in sostanza, che era illusorio pensare che su
questa linea fosse possibile imprimere alla realtà sovietica
un nuovo slancio propulsivo, tale da rompere i vincoli di una
società autoritaria, burocratica e centralizzata: c'era
anzi il rischio - come in effetti fu - di alimentare una speranza
cui sarebbe seguita una pericolosa delusione. Certo, fermenti
innovatori anche di rilievo non mancarono di manifestarsi in
Urss dopo la svolta del '56: e non solo ad opera di gruppi di
intellettuali, di scienziati, di economisti, ma anche per iniziativa
del partito e del governo, per esempio con la proposta di riforma
della scuola su base 'politecnica', col tentativo di dare un'autonoma
rappresentanza politica ai contadini, coll'apertura in politica
estera ai paesi non allineati dello schieramento di Bandung.
L'Urss era ancora, pur fra mille contraddizioni, un paese vivo;
e non quella società congelata che sarebbe diventata dopo
l'avvento di Breznev. Ma non a caso quei fermenti innovatori
si andarono rapidamente spegnendo. In realtà sin dal XX
Congresso la povertà culturale e politica della proposta
di Krusëv stava a significare che l'Unione Sovietica era difficilmente
riformabile. Era un paese che aveva dato quel che era possibile,
con l'industrializzazione a tappe forzate e con la vittoria sul
nazismo: ma il costo umano e sociale era stato altissimo, aveva
svuotato e soffocato capacità ed energie, e il compito
dell'innovazione storica doveva passare ad altri, soprattutto
alla sinistra occidentale. Il problema del socialismo tornava
cioè ad avere il suo punto focale - come già l'analisi
di Marx aveva sottolineato - nei «punti più alti
del sistema».
Per questo, di fronte al dibattito che sul XX Congresso e sulle
sue conseguenze si accese nel PCI e nella sinistra italiana,
mi sembrò certamente del tutto sbagliata la reazione conservatrice
di chi respingeva la necessità di una svolta; ed anche
la linea che criticava, come troppo concessiva, la politica della
'coesistenza pacifica'. Ma mi parve illusoria, su un altro piano,
anche la posizione - assai diffusa - che praticamente si risolveva
nel sollecitare dall'Urss un maggior coraggio riformatore: o
nel senso, praticamente impensabile, di un accostamento a soluzioni
tradizionalmente socialdemocratiche o, all'opposto, nella direzione
di un 'di più di socialismo', inteso come realizzazione
di una società profondamente innovativa, realmente imperniata
su principi di libertà e di eguaglianza. Nell'uno e nell'altro
caso si chiedeva alla società sovietica uno sforzo di
rinnovamento che essa non aveva più la capacità di
esprimere: e che in ogni caso era impossibile sulla linea di
Krusëv e dei burocrati e tecnocrati che attorno a lui si raccoglievano.
Davvero vi era motivo di pensare che forse sarebbe stata più ragionevole
- almeno così pareva a chi non nutriva illusioni sull'Urss
e su una sua possibile palingenesi - la linea di prudente e moderato
riformismo su cui si era incamminato Malenkov.
5. Per questo complesso di motivi parve a me che la posizione
più rispondente ai reali problemi che si ponevano nel
'56 ai comunisti in Italia e in Occidente fosse (a parte l'incredibile
silenzio di qualche mese sul 'rapporto segreto' che pure gli
era stato dato in lettura la sera stessa della seduta del Congresso
del PCUS a porte chiuse) quella assunta, indubbiamente con troppe
reticenze e esitazioni, proprio da Togliatti,
a partire dall'intervista a «Nuovi
Argomenti».
Quella di Togliatti era infatti una posizione
che, certo, sosteneva la necessità di un'analisi critica
che andasse ben più a fondo delle superficiali considerazioni
sul 'culto della personalità' (o anche delle deprecazioni
dei crimini di un solo uomo) per cercare invece di cogliere le
radici degli errori all'interno delle linee di sviluppo della
società sovietica e del suo sistema di potere. Ma, pur
sottolineando il dovere dei dirigenti sovietici di impegnarsi
per primi in questa analisi, le conclusioni politiche riguardavano
soprattutto il ruolo del PCI e del comunismo occidentale. Era
questo il senso della proposta non soltanto della 'via italiana',
ma - ancor più - del 'policentrismo'. Una proposta che
- come sottolinea nel suo intervento Ingrao - fu la più avanzata
formulata in quei mesi; e che si rivolgeva in particolare agli
altri partiti dell'Europa occidentale, per sollecitare da tutti
una politica più autonoma, fondata sui valori e sulla
pratica della democrazia e adeguata ai problemi e alle condizioni
di società complesse quali erano quelle dell'Occidente
più sviluppato.
In tal modo, al di là dei limiti della sua cultura storicistica
(e della tendenza giustificazionista che in essa era implicita)
Togliatti giungeva
a porre, in quel momento, problemi anche teorici di revisione
sostanziale del cuore stesso della dottrina leninista: in particolare
della tesi secondo la quale l'apparato dello Stato borghese «deve
essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito
dall'apparato dello Stato proletario, diretto dalla classe operaia».
Si trattava della tesi, già presente nell'ortodossia della
Seconda Internazionale, che stava alla base della teoria della
'dittatura del proletariato' e del verticismo autoritario che
aveva aperto la strada alle degenerazioni dello stalinismo. Il
segretario del PCI rimetteva esplicitamente in discussione tale
dottrina quando, nel rapporto del 24 giugno '56 al Comitato centrale,
non solo notava che «questa non era
la posizione originaria di Marx e di Engels: fu la posizione
cui essi giunsero dopo l'esperienza della Comune di Parigi»; ma circa la validità di
principio di quella tesi aggiungeva: «quando
noi affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo
non solo sul terreno democratico, ma utilizzando le forme parlamentari, è evidente
che correggiamo qualche cosa in questa posizione??». Non
si trattava, in realtà, di una modesta correzione: bensì della
ricerca di un superamento delle forme di lotta e di governo adottate
in Urss da Lenin e poi da Stalin per riproporre il tema gramsciano
dell'egemonia e di un diverso rapporto tra società e Stato.
È noto però che la proposta del 'policentrismo» fu
quasi subito stroncata non solo dalla polemica esplicita sia
dell'altro principale partito comunista dell'Occidente (il PCF,
allora fedelissimo a Mosca) sia dell'ancor più importante
partito cinese, che prese allora una posizione conservatrice,
diversa ed opposta a quella che avrebbe assunto al momento della
Rivoluzione culturale maoista; ma, soprattutto, dall'ostilità dei
dirigenti del PCUS. Lo stesso Krusëv intervenne con una
lettera del 30 giugno '56 a Togliatti per respingere
le analisi circa le 'degenerazioni' della società sovietica
contenute nell'intervista a «Nuovi
Argomenti»;
e rilanciò successivamente la tesi del 'primato' del
modello sovietico, affermando in più di un discorso
che 'le particolarità nazionali?.. non infirmano in nulla
le leggi fondamentali della rivoluzione socialista' e che anzi «ponendo
l'accento su queste vie particolari si reca il maggior pregiudizio
alla causa dell'edificazione del socialismo».
Erano affermazioni che mettevano in evidenza come mancasse, nella
piattaforma del XX Congresso, una potenzialità effettivamente
innovatrice nella considerazione della nuova realtà mondiale
e in particolare delle effettive condizioni in cui poteva svilupparsi
l'iniziativa dei partiti comunisti e delle altre forze di sinistra
nei diversi paesi. Alle posizioni sovietiche si allinearono subito,
nel '56, pressochè tutti i partiti comunisti dell'Occidente
e Togliatti si vide di fatto costretto a ripiegare
dalla tesi del 'policentrismo' a quella della 'via italiana',
certamente più difendibile, ma anche più modesta
e limitata.

Con questo ripiegamento, e con l'accettazione della linea sovietica
sull'Ungheria, le speranze aperte in Italia dal grande dibattito
del '56 si spegnevano (mi sembra questo il succo degli interventi
di Ingrao e di Rossanda) in una sorta di rassegnazione che significava
rinuncia a riaprire un confronto e una ricerca di fondo sulle
ragioni per cui il movimento comunista, proprio quando era giunto
a governare un terzo del mondo, si andava insabbiando in una
crisi destinata a restare senza uscite. E infatti proprio gli
anni immediatamente successivi al '56 tornarono ad essere - fino
al '63 o '64 - anni di silenzio, o quasi, sui problemi che pure
andavano determinando una stagnazione via via più pericolosa
così nell'Urss come nelle altre società dell'Est. È vero
che proprio quello fu il periodo (e ciò poteva trarre
in inganno) in cui l'Urss pareva celebrare, con il primato nelle
imprese spaziali e con il dispiegamento della sua potenza militare,
il massimo dei suoi successi. E tuttavia a un'attenzione più vigile
non poteva sfuggire (giacché i sintomi non mancavano:
basta pensare alla tragedia del dissodamento delle terre vergini,
o al bluff di Krusëv circa il prossimo superamento degli
Stati Uniti nella produzione pro capite di carne e di burro o
all'ulteriore avvitamento burocratico segnato dalla sostituzione
di Krusëv
con Breznev) che in realtà la decadenza era cominciata. 6. Sono dunque d'accordo con Ingrao e con Rossanda (al di là della
diversità di valutazione sul XX Congresso, che mi portarono
a una differente ricostruzione di quella vicenda) sul fatto che
per il PCI abbia rappresentato una grave occasione perduta la
rinuncia a un più radicale approfondimento, teorico e
politico, dei problemi che emergevano dalle vicende del '56.
Un approfondimento che in ogni caso non avrebbe potuto significare
- anche su questo sono d'accordo - una repentina e traumatica
rottura, che la guerra fredda rendeva impossibile; ma che avrebbe
dovuto svilupparsi in un complessivo ripensamento critico dell'idea
di società socialista e della strada e dei metodi con
cui operare per realizzarla.
Dove invece mi sembra che sia Ingrao sia Rossanda siano ingenerosi
innanzitutto verso se stessi, è nella radicale sottovalutazione
della portata del processo di rinnovamento - di cui pure furono
tra i protagonisti - che si sviluppò nel PCI a partire
dal 1956 nel quadro della strategia, ancorché limitata,
della 'via italiana al socialismo'. Gli anni che seguirono quella
data furono infatti tutt'altro che infecondi per i comunisti
italiani (al contrario di quel che si può dire per il
PCF, che iniziò da allora la sua decadenza). Furono invece,
in Italia, gli anni in cui il PCI ricostruì e ampliò la
sua presenza nella classe operaia e fra i ceti medi, a partire
da un'analisi innovatrice sulle trasformazioni in atto nella
struttura produttiva e sociale; fu alla testa della lotta contro
i tentativi di svolta a destra, sino allo scontro vittorioso
del 1960 con il governo Tambroni; diede nuovo slancio e nuovo
respiro alle amministrazioni locali dirette dalle sinistre; si
impegnò a fondo sui temi di riforma della società e
dell'economia, sulla base della proposta delle 'riforme di struttura'
e attraverso il confronto critico con il nuovo esperimento politico
che si annunciava all'insegna del centro-sinistra.
Senza questo processo di rinnovamento (che significò anche
recupero e valorizzazione di ciò che di autonomo e di
originale stava alle radici del comunismo italiano, a partire
da Gramsci e dalla sua ricerca) non si potrebbe in effetti capire
come mai la fine degli anni cinquanta, gli anni sessanta, i primi
anni settanta furono per il PCI un periodo di ininterrotta ascesa
e di crescente incidenza sulla realtà italiana. Va anche
aggiunto che il rinnovamento non avrebbe assunto questo respiro
e questo carattere se nella fase di avvio e di impostazione non
vi fosse stata - accanto alla leadership di Togliatti,
che fu garanzia di autonomia e autorevolezza - anche la presenza
di un'intelligente sinistra comunista, di cui proprio Ingrao
e Rossanda furono tra i principali esponenti. Senza questo contrappeso
infatti, rispetto alla posizione della destra comunista, (che
si impegnò seriamente nel rinnovamento del partito proprio
sull'onda del XX Congresso, ma connettendolo fin d'allora a una
cultura e a una linea socialdemocratica) la 'via italiana' si
sarebbe probabilmente risolta in una subalternità al centro-sinistra
dei primi anni sessanta, senza dar vita a quell'originale esperienza
di sinistra che ha caratterizzato la storia politica e sociale
italiana in quei decenni.
Certo, è indubbio che sulla possibile fecondità di
questa esperienza hanno continuato a pesare due limiti di fondo.
Il primo è il freno costituito (ritorna a questo proposito
la questione del '56, e su questo punto Ingrao e Rossanda hanno
certamente ragione) dal mancato approfondimento della critica
alle società socialiste realizzate sul modello sovietico
e, di conseguenza, dalla permanenza di un cordone ombelicale
mai del tutto tagliato, neppure con lo strappo di Berlinguer.
Il secondo limite - non meno importante - sta nel sostanziale
isolamento dell'esperienza dei comunisti italiani: isolamento
mai completamente superato, neppure quando si cercò di
rilanciare, con l'eurocomunismo, una parola d'ordine anche più forte
ed esplicita di quella del policentrismo. La conseguenza è evidente:
se si era rivelata impossibile (teoricamente e praticamente)
la costruzione del 'socialismo in un solo paese' in una realtà delle
dimensioni dell'Unione Sovietica, come era possibile pensare
che si potesse rinnovare il fondamento e la strategia del movimento
comunista restando chiusi nell'ambito di un piccolo paese come
l'Italia? Anche per questo la crisalide che era presente negli
aspetti di originalità e di autonomia della politica dei
comunisti italiani non riuscì mai a trasformarsi in farfalla
e a spiccare il volo: e finì perciò coll'essere
travolta dalla crisi più generale del movimento comunista.
Ma non per questo va dimenticata (e va anzi analizzata a fondo)
l'esperienza realizzata in Italia dal PCI: che non solo è stata
parte fondamentale - senza la quale tutto sarebbe incomprensibile
- della vicenda della democrazia italiana nel secondo Novecento,
ma rappresenta un capitolo particolarmente significativo della
storia della sinistra europea.
grazie a: la Rivista del Manifesto, marzo 2001
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Alexander Höbel
Il PCI e il 1956 |
1. Il cinquantesimo anniversario del 1956 - anno cruciale per la vicenda del comunismo storico novecentesco, con il XX Congresso del PCUS, lo scioglimento del Cominform, le rivolte di Poznan e Budapest e l’intervento sovietico in Ungheria - ha inevitabilmente riaperto il dibattito su quegli eventi. O meglio, di due tipi di dibattito. Quello ideologico (nel senso marxiano di produttore di falsa coscienza), condotto in primo luogo dai mass-media, egemonizzato dai critici acerrimi e dai demonizzatori del comunismo, i quali si fanno forza anche delle autocritiche di importanti esponenti dell’allora PCI; e quello più propriamente storico-politico, frutto del lavoro di vari ricercatori a livello internazionale, oltre che della passione critica di studiosi militanti e di alcuni dei protagonisti di allora.
Soffermiamoci brevemente sul primo versante, molto forte soprattutto sulla vicenda ungherese. È un tipo di discussione fatta perlopiù di anatemi, giudizi morali e a volte moralistici, che non si cura molto dei fatti in quanto tali né tanto meno del loro contesto, né riporta nulla della nuova documentazione emersa nei più accreditati studi sulla guerra fredda. Parliamo, ad esempio, dei verbali del Presidium del PCUS dei giorni che precedono il secondo intervento sovietica, che dimostrano il peso dell’attacco anglo-francese a Suez nel determinare il mutamento di linea del gruppo dirigente del PCUS, facendolo optare per il ritorno dell’Armata Rossa in Ungheria.
Naturalmente la stampa ricorda solo en passant che negli stessi giorni Israele, Gran Bretagna e Francia attaccavano l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez. Un articolo di “Repubblica” pare ridurre quell’aggressione quasi a un fatto di costume, di cui segnalare aspetti “singolari” come il piano di battaglia disegnato su un pacchetto di sigarette, sottolineando altresì che l’Egitto era per Israele un “avversario tenace e bellicoso”, decisamente pericoloso. Toni ben diversi, dunque, rispetto a quelli usati per i fatti ungheresi. Cosicché, mentre si sollecitano e si raccolgono le autocritiche degli ex-dirigenti comunisti, è piuttosto improbabile che si chieda a qualcuno dei leader politici occidentali di allora di “autocriticarsi” per Suez. Eppure non pochi uomini politici e intellettuali occidentali appoggiarono l’attacco, compresi molti democratici e progressisti (presidente del Consiglio francese era il socialista Guy Mollet). Il governo italiano, che aveva giudicato la nazionalizzazione del Canale un atto ‘illecito’ e ‘chiaramente ostile nei confronti di tutto il mondo occidentale’, non approvò la guerra, ma il ministro Martino alla Camera espresse comprensione verso Israele, che aveva dovuto reprimere ‘le forze più bellicose e intransigenti dei paesi vicini’, aggiungendo di non aver ‘potuto approvare le ultime decisioni anglo-francesi’ non in base a un giudizio di merito, ma per non ‘menomare l’autorità delle Nazioni Unite’.
E qui veniamo a quella che si potrebbe definire la “asimmetria delle critiche e delle autocritiche”, che rimanda a un’asimmetria complessiva nell’informazione e nell’analisi che i mass-media impongono rispetto alla guerra fredda, e in generale al Novecento e al tremendo scontro di classe su scala mondiale che lo ha caratterizzato: i “buoni” sono collocati da una parte, i violenti e gli antidemocratici dall’altra. Dimenticando che, proprio in nome dell’anticomunismo e della “difesa della democrazia” e della “libertà” (o, come si dice più sinceramente, “del nostro stile di vita”), si sono giustificate decine di golpe e dittature militari promossi o sostenuti dagli USA, e si sono perpetrati una quantità di crimini orrendi, che vanno da guerre spaventose come quella del Vietnam fino alla strategia della tensione che ha insanguinato il nostro paese, passando per il milione di comunisti uccisi in Indonesia dopo il colpo di Stato del 1965: un vero e proprio genocidio. Di quest’ultimo è da poco ricorso l’anniversario: qualcuno se n’è ricordato?
Nessuno chiede conto di tutto ciò ai politici che sostenevano lo schieramento atlantico. E qui c’è l’asimmetria, abilmente costruita e consolidata dai mass-media e da un revisionismo storico che mette sullo stesso piano le foibe e la Shoah. Asimmetria per cui i comunisti si autocriticano da 50 anni, gli ex-comunisti da almeno 15, ma non si cessa di chiedere loro pentimenti e abiure, ma nessuno ha mai chiesto, ad esempio, a un ex dirigente della DC, di autocriticarsi per la guerra del Vietnam, in cui gli USA massacrarono la popolazione per circa dieci anni con bombe e napalm, mentre Moro, che era un cattolico democratico, esprimeva “comprensione” per l’alleato statunitense, nel quadro degli equilibri della guerra fredda, e tutti i partiti filo-occidentali - pur con significativi distinguo - furono sulla stessa linea. Il silenzio su questi eventi rende dubbia - oltre che unilaterale e incompleta - l’abbondanza di commenti, servizi giornalistici, inchieste, sui fatti ungheresi e le relative “responsabilità del PCI”.
2. Di questo tipo di dibattito, che rimanda alla battaglia per l’uso pubblico della storia, non si può non tenere conto, e occorre un rinnovato impegno su questo terreno. C’è, però, anche un secondo tipo di confronto, non pregiudiziale e non strumentale, che tenta di entrare maggiormente nel merito delle questioni. Esso riguarda tutti i nodi del 1956, dal significato storico del XX Congresso alle nuove contraddizioni (economiche, ideologiche ecc.) che esso apre, dalla natura della rivolta ungherese all’intervento militare sovietico. A tale proposito, la questione posta da Rossana Rossanda non può essere elusa:
Non è vano - scrive Rossanda - chiedersi che cosa sarebbe avvenuto ‘se’ nel 1956 il rapporto segreto di Kruscev fosse stato recepito come un goffo ma serio segnale, ‘se’ il PCUS e gli altri partiti lo avessero elaborato invece che sfuggito, ‘se’ pochi mesi dopo avessero inteso la rivolta di Poznan, e poi quella di Budapest, e infine ‘se’ […] la seconda non fosse stata repressa dall’intervento militare sovietico.
La possibilità, cioè, di andare verso un socialismo che desse più spazio alla partecipazione attiva delle masse e più ascolto ai loro bisogni - pur nella complessità della pianificazione e in una situazione di difficoltà economica oggettiva - non va sottovalutata. E tuttavia, oltre alla questione della realizzabilità di tale prospettiva nel contesto dato, non si può negare che, soprattutto nel caso ungherese, accanto alle forze riformatrici, fossero “scese in campo” anche forze apertamente anti-sistema: il simbolo della rivolta - la bandiera con lo stemma della Repubblica tagliato - e gli obiettivi del ritiro di ogni presenza militare sovietica sul territorio nazionale e della fuoriuscita dal Patto di Varsavia, paiono confermarlo. E in questo quadro va considerato che, negli equilibri ferrei della guerra fredda, a nessuna forza “anti-sistema” era consentito di accedere al potere, nell’uno come nell’altro campo: non al PCI in Italia, perfino dopo la sua accettazione della NATO; e tanto meno ai rivoltosi ungheresi, che volevano la neutralità del Paese (decretata da Nagy il 1° novembre), il che significava un vero e proprio terremoto negli equilibri tra i due campi. È stato scritto a tale riguardo:
Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo in Italia se il PCI, anziché attenersi alla logica di Jalta avesse trasformato lo sciopero di protesta seguito all’attentato di Togliatti in un movimento insurrezionale e in una rivoluzione socialista. C’è qualcuno, sano di mente, convinto che gli americani avrebbero osservato impassibili un simile evento senza usare i loro cingolati?
Quanto al PCI, la Rossanda afferma che esso nel 1956 avrebbe potuto “mettersi ragionatamente contro il gruppo dirigente dell’URSS e dare una sponda a quanto di popolare e fin socialista c’era nel dissenso”. Dal canto suo, Mario Pirani contesta il “ritardo” del PCI nel compiere lo “strappo” dall’Unione Sovietica - e nello specifico la mancata condanna dell’intervento in Ungheria - come cause del mancato accesso delle sinistre al governo del Paese, Ha scritto invece lo storico Martinelli:
‘Ritardo’ […] è evidentemente un termine non scientifico, assai poco idoneo a dar conto […] di fenomeni e processi reali: i quali, com’è noto, non sono meramente e unicamente riconducibili a scelte politiche soggettive. ‘Ritardo’ rispetto a che cosa? La storia del PCI non è […] la storia di scelte da valutare – in rapporto a uno svolgimento finalistico e lineare – giuste o sbagliate, ma un complicato percorso in cui giocano un peso essenziale eventi, realtà, fattori interni e internazionali talvolta imprevedibili, tali da limitare di molto la libertà di scelta […] dei dirigenti.
Sullo stesso inserto del Manifesto in cui è comparso l’articolo della Rossanda, Valentino Parlato ha sostenuto una posizione opposta:
Nel 1956 quella del PCI e di tutti noi che restammo nel PCI fu una scelta obbligata e giusta, anche nel medio periodo. […] c’era la guerra fredda e […] il mondo era diviso in due secondo l’accordo di Yalta. […] dopo il primo intervento i sovietici si ritirarono e […] il secondo brutale intervento ci fu quando Nagy […] annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia […]. Non mi convince neppure la tesi dell’‘occasione perduta’ da parte del PCI. A mio parere il PCI […] si sarebbe spaccato. […] Invece, forse proprio per quell’‘occasione perduta’, già le elezioni del 1958 segnarono un consolidamento del PCI. Il quale […] con il suo VIII Congresso segna la fine dello stato guida e del partito guida e avvia […] la via italiana al socialismo.
C’è poi un altro punto, che si dimentica sempre. Il movimento comunista è per sua natura internazionalista. Anche al di là della guerra fredda, è del tutto ovvio che il PCI avesse un legame organico col paese in cui era in corso il più importante tentativo di costruire una società socialista, e cercasse di mantenerlo in tutti i modi, sia pure in chiave critica e cercando di avviare in Occidente un processo che sarebbe stato necessariamente diverso. Secondo lo storico D. Blackmer, nel 1956 “l’alternativa di separare il PCI dal movimento internazionale non esisteva come possibilità pratica”; il PCI “non poteva fare un simile passo senza virtualmente autodistruggersi”.
È evidente, dunque, che su queste questioni esistono, a sinistra e tra gli studiosi, posizioni diverse, e che pertanto il dibattito resta aperto. Anche all’interno dell’Archivio storico del movimento operaio - la struttura di cui questa collana editoriale è emanazione - i giudizi sul 1956 e il ruolo del PCI sono diversi, e la pubblicazione di questo volume ha stimolato una discussione non formale né sterile, ma anzi ricca di stimoli e sollecitazioni, che ha migliorato il presente lavoro. Tra l’altro, è parso chiaro che la rivolta ungherese è stata un evento complesso, per cui appaiono fuorvianti sia la definizione di “controrivoluzione”, emersa nei primi giudizi dati dal PCI, sia quella di “rivoluzione”, oggi ampiamente in auge. Si è trattato piuttosto di un fenomeno articolato ed eterogeneo, in cui erano presenti diverse componenti: quella studentesca e intellettuale, di orientamento prevalentemente nazionalista; quella operaia, di impostazione consiliare (e dunque socialista, sindacalista-rivoluzionaria o addirittura comunista di sinistra); e infine quella costituita dai residui dei vecchi ceti dominanti, con l’appoggio della Chiesa, apertamente reazionaria. L’antisovietismo, tuttavia, e/o l’ambizione di liberarsi della tutela dell’URSS, appare l’elemento comune che poi ha determinato l’intervento.
Nel suo emendamento a una bozza di comunicato comune col PCF, Togliatti parla di “movimento popolare” e dell’intervento sovietico come di una “dura necessità”, incontrando l’opposizione dei francesi, che parlano di “controrivoluzione” e intervento come “dovere di classe”. Il comunicato comune non si farà, e anche da questa contrapposizione esce confermata una posizione del PCI più dialettica rispetto a quella di altre forze comuniste, anche rispetto ai “fatti d’Ungheria”.
Negli scritti di Togliatti sull’argomento - accanto a un netto schieramento “di campo” e alla convinzione che la rivolta, se non fermata, avrebbe avuto effetti disastrosi per la revanche delle forze reazionarie e l’indebolimento del “campo socialista” - troviamo elementi di critica forte al gruppo dirigente ungherese; troviamo cioè la consapevolezza che se la situazione era giunta a tale grado di tensione, significava che qualcosa si era rotto nel rapporto tra partito e masse, e che ben prima che si arrivasse a tanto occorreva correggere, rettificare, migliorare. E dunque bene faceva il PCI a porre al centro della “via italiana” il rapporto dialettico democrazia-socialismo, rilanciata proprio nel 1956 assieme al “policentrismo” del movimento comunista internazionale. Tutto ciò costituisce il retroterra comune a tutto il gruppo dirigente. D’altra parte, sui fatti d’Ungheria si apre un dibattito ricco e aspro, con prese di posizione di aperto dissenso come quella di Di Vittorio o di molti intellettuali, di cui pure nel presente volume si dà conto. Certo, tali posizioni rimangono minoritarie e vengono emarginate, ma pure hanno avuto il loro peso politico nella vicenda del PCI e della sinistra nel suo complesso.
3. Nel 1956, peraltro, non c’è solo l’Ungheria. Il XX Congresso provoca nel gruppo dirigente del PCI una riflessione sulla figura di Stalin e sulla storia dell’Unione Sovietica, che è tuttora di grande interesse. In particolare la porta avanti Togliatti, e nei suoi scritti di quel periodo che qui riproponiamo - l’intervista a “Nuovi Argomenti” in primis - si ritrovano elementi di analisi su ciò che non ha funzionato nell’esperienza sovietica, sul come, quando e perché hanno cominciato a prodursi quelli che definisce “fenomeni di burocratizzazione, di violazione della legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti punti dell’organismo sociale”, attirandosi la critica di Chruščëv; elementi di analisi che consentono di affrontare il tema nel merito, al di là degli attacchi pregiudiziali o complessivi e delle difese acritiche. Si può certo osservare che tale elaborazione non ha ricevuto poi uno sviluppo sistematico a livello di partito: e questo rimane un limite; e tuttavia in occasione del XXII Congresso del PCUS (1961) e poi col Memoriale di Jalta Togliatti tornerà su questi temi, e più in generale tutta la sua elaborazione degli ultimi anni è centrata sul problema della “rivoluzione in Occidente” e sul nesso fra trasformazioni socialiste, programmazione e sviluppo democratico.
Quanto allo “stalinismo”, Togliatti rifiuta questa categoria. All’VIII Congresso del PCI - dopo aver ricordato lo sforzo immane successivo alla Rivoluzione d’Ottobre per porre le basi della società socialista, e il fatto che questa “ha dimostrato la capacità di scoprire […] i propri difetti, di criticarli con coraggio e di accingersi a correggerli” - afferma:
Per questo noi non accettiamo l’uso del termine di ‘stalinismo’ e dei suoi derivati, perché porta alla conclusione, che è falsa, di un sistema in sé sbagliato, anziché spingere alla ricerca dei mali inseritisi, per cause determinate, in un quadro di positiva costruzione economica e politica, di giusta attività nel campo dei rapporti internazionali e di conseguenti, decisive vittorie. Errano coloro che ritengono che quei mali fossero inevitabili. Ancora più gravemente coloro che su di essi cercano di fondare una vana critica distruttiva.
Del tutto diversa la posizione del leader socialista Nenni, che parla di difetti del sistema e non nel sistema, ma anche dei firmatari della lettera dei 101 o di dirigenti del PCI come Giolitti; non a caso alcuni di loro confluiranno nel PSI. Anche per la sinistra italiana nel suo complesso, dunque, il 1956 costituisce un tornante di eccezionale importanza. Riguardo al PCI, il suo VIII Congresso, alla fine dell’anno, ribadisce con Togliatti che “non vi è né Stato guida, né partito guida”, e sancisce la sistemazione e il rilancio della “via italiana al socialismo”, che costituisce comunque un passaggio essenziale della sua storia, già in nuce nella svolta del 1944 e da cui sono derivati molti degli sviluppi successivi.
Con questo volume cerchiamo dunque di documentare come il PCI si è rapportato al “terribile 1956”, e di restituire spunti ed elementi di analisi che possono essere interessanti e util ancora oggi. Tornare da un lato ai fatti di quell’anno, e dall’altro ai documenti, all’elaborazione dei protagonisti di allora, può servire inoltre ad avvicinarsi a una comprensione maggiore di quelle vicende e a una loro visione più storica e meno “ideologica”. È questo l’intento a cui è ispirato il presente lavoro.
Accanto alla documentazione, è inevitabile che emerga un livello di giudizio, parziale e temporaneo. Occorrerà quindi proseguire la ricerca e la discussione, col conforto - è auspicabile - anche di nuovi materiali documentari provenienti da archivi poco esplorati o fino a poco fa non accessibili.
M. Kramer, The “Malin Notes” on the Crises in Hungary and Poland, 1956, “Cold War International History Project Bullettin”, 1996-97, nn. 8-9.
A. Stabile, Suez, la guerra di Dayan su un pacchetto di sigarette, “la Repubblica”, 9 ottobre 2006.
Cfr. G. Calchi Novati, Mediterraneo e questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo I, Torino, Einaudi, 1995, pp. 222-227. La redazione de “Il Mondo”, di area radical-democratica, si spaccò. Il “Corriere della Sera”, per bocca dell’editorialista Augusto Guerriero, si rammaricò che l’azione bellica non fosse giunta fino alla ‘liquidazione’ e alla resa di Nasser. Lo stesso Mollet esprimerà un parere analogo (D. Sassoon, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 260).
Cfr. W. Blum, Con la scusa della libertà, Milano, Marco Troppa Editore, 2002; Id., Il libro nero degli Stati Uniti, Roma, Fazi Editore, 2003. Quanto all’Europa occidentale, si veda D. Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e terrorismo in Europa occidentale, prefazione di G. De Lutiis, Roma, Fazi Editore, 2005.
Allo stesso modo, sono sospette le aspre condanne di tali fatti da parte di chi, oggi, rimane indifferente dinanzi alle aggressioni all’Iraq o al Libano, ai civili uccisi ogni giorno in Afghanistan o in Iraq, alle “esecuzioni mirate” e ai raid contro i palestinesi, ad aberrazioni come Guantanamo o Abu-Ghraib, o magari le giustifica in nome della “lotta al terrorismo”.
R. Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, “il manifesto”, 22 ottobre 2006
Paradossalmente, sarà proprio nel blocco sovietico che infine forze anti-sistema come Solidarnosc in Polonia potranno accedere al potere, col benestare dei gruppi dirigenti polacco e sovietico.
S. Ricaldone, Budapest 1956: l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare. Pentimenti e ipocrisie di postcomunisti cinquanta anni dopo, in www.resistenze.org.
Rossanda, Un “Se” che è utile porsi, cit.
Si veda ad es. M. Pirani, L’occasione persa dal PCI, “la Repubblica”, 3 ottobre 2006.
R. Martinelli, Introduzione a Quel terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI, a cura di M.L. Righi, Roma, Editori Riuniti, 1996, p. XLVIII.
V. Parlato, Troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo, “il manifesto”, 22 ottobre 2006.
D.L.M. Blackmer, Continuità e mutamento nel comunismo italiano del dopoguerra, in Il comunismo italiano in Italia e in Francia, a cura di D.L.M. Blackmer e S.G. Tarrow, Milano, Etas libri, 1976, p. 98.
Un ritratto collettivo dei rivoltosi è in G. Dalos, Ungheria, 1956, Prefazione di G. Crainz, Roma, Donzelli, 2006, pp. 67-81. Dalos riporta anche le cifre delle vittime degli scontri armati dal 23 ottobre alla fine dell’anno: 2652 morti, di cui 669 soldati sovietici (ivi, p. 152).
P. Togliatti, Rapporto e conclusioni all’VIII Congresso nazionale del PCI (Roma, 8-14 dicembre 1956), in Id., Opere scelte, cit., p. 797. Anche nel 1964, all’apice della sua riflessione critica, Togliatti ribadisce che in una certa fase della vita dell’URSS si era prodotta “non soltanto una deformazione - una degenerazione, abbiamo detto noi - del potere, ma l’assenza di una qualsiasi forma di potere e di controllo democratico”. E tuttavia dalle denunce dei guasti prodotti occorre risalire agli “errori politici” che ne furono alla base e alle “cause di questi errori”, per capire meglio e “non consentire ai nostri avversari di buttare nell’informe calderone del cosiddetto ‘stalinismo’ tutti i momenti positivi della storia del primo Stato proletario” (P. Togliatti, Per l’unità del movimento operaio e comunista internazionale, rapporto alla sessione di CC e CCC del PCI del 21-23 aprile 1964, in Il Partito comunista italiano e il movimento operaio internazionale 1956-1968, a cura di R. Bonchio, P. Bufalini, L. Gruppi, A. Natta, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 214).
grazie a www.resistenze.org

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Togliatti: intervista a Nuovi argomenti (1956) |
Che cosa significa, secondo voi, la condanna del culto della personalità in URSS? Quali ne sono i motivi interni, esterni, politici, sociali, economici, psicologici, storici?
La condanna del culto della personalità pronunciata dai comunisti dell’Unione Sovietica e le critiche all’opera di Stalin significano esattamente, secondo me, quello che dai dirigenti comunisti sovietici è stato detto e viene ripetuto: né più né meno di questo. In guardia, dunque, contro due direzioni sbagliate.Il primo, il più grossolano e persino ridicolo, è di ritenere - o fingere di ritenere - che formulando quella condanna e queste critiche i comunisti sovietici siano passati alle posizioni, se non dell’anticomunismo, per lo meno di chi non ha mai né approvato né capito la loro azione. Voglio dire ch’essi abbiano buttato a mare, o si accingano a buttare a mare, tutte le loro posizioni di principio e pratiche, tutto il loro passato, tutto ciò che hanno affermato, sostenuto, difeso, attuato in tanti decenni del loro lavoro. Comprendo benissimo che questa sia la interpretazione che del XX Congresso dànno gli alfieri dell’anticomunismo, ma non c’è motivo, per cui dobbiamo dar loro retta oggi, più di quanto non l’abbiamo data ieri. E del resto essi scoprono il loro giuoco, forzandolo sino alla esasperazione, come sempre, e mettendo così in mostra la mala fede.
Non escludo, però, e lo voglio dire apertamente, che vi sia anche chi in perfetta buona fede scivoli su quella posizione e incominci a domandare se, date quelle critiche a Stalin, e dato che fu Stalin il principale esponente della politica comunista per un intero periodo, non sia oggi da mettere in dubbio la giustezza di tutti i principali momenti di quella politica, a partire, poniamo, dalla opposizione decisa ai piani dell’imperialismo in questo dopoguerra, risalendo su su, attraverso Yalta e Teheran, al patto di non aggressione con la Germania del 1939, alla guerra di Spagna, ecc., ecc. E, in altro campo, alle direttive per la costruzione economica socialista e alla lotta contro chi la ostacolava e, infine, una volta preso l’avvio - perché no? - sino agli atti decisivi della rivoluzione d’Ottobre, che furono la presa del potere da parte dei soviet degli operai, contadini e soldati, lo scioglimento dell’Assemblea costituente e la creazione di una nuova struttura politica della società. A coloro che in buona fede accennassero a intender le cose in questo modo, dovremmo dire che sbagliano. Naturalmente, su tutti gli atti attraverso i quali i comunisti sovietici sono giunti alla conquista del potere e alla creazione dell’attuale loro ordinamento sociale è sempre possibile si discuta e per molto tempo si discuterà, senza dubbio, allo scopo di precisarne il carattere, il contenuto e le conseguenze, allo scopo di valutarli storicamente nel modo più esatto.
I compagni sovietici stanno oggi liberando la loro storiografia da errori ed esagerazioni che vi si erano introdotti per esaltare oltre il merito la figura di Stalin e questo consentirà un giudizio storico sempre più esatto. Non è escluso, anzi è facilmente prevedibile che vengano corretti molti giudizi, che vengano precisate le critiche a determinate debolezze, errori, aspetti negativi dell’azione svolta in momenti determinati. Sarebbe però un grave errore ritenere che questa particolare revisione, la quale tende a collocare tutti gli uomini e tutti gli avvenimenti nella loro giusta luce, comporti, da parte dei comunisti sovietici, una radicale ripulsa o una critica radicale, distruttiva, dell’azione loro, così come si è sviluppata per oramai più che mezzo secolo. Quest’azione rimane, nella linea del suo sviluppo attraverso le successive tappe che tutti conoscono, il primo grande modello storico di conseguente attività rivoluzionaria per l’avvento della classe operaia alla direzione della società e per la costruzione di una società socialista. (…) Bisogna dunque abituarsi a pensare che le critiche a Stalin e al culto della sua persona significano, per i compagni sovietici, esattamente ciò che essi sinora hanno detto.

E che cosa, precisamente?
Che in conseguenza degli errori di Stalin e del culto della sua persona si erano accumulati elementi negativi, si erano create situazioni sfavorevoli e anche nettamente cattive in differenti settori della vita e della società sovietica, in differenti parti dell’attività del partito e dello Stato. Non è però semplice ridurre tutti questi momenti negativi sotto un solo concetto generale, perché anche in questo caso si corre il rischio della eccessiva, arbitraria e falsa generalizzazione, cioè il rischio di giudicare cattiva, da respingersi, da criticarsi, tutta la realtà economica, sociale e culturale sovietica, il che è un ritmo alle consuete idiozie reazionarie. (…)
La legittimità del potere è il grande problema del diritto pubblico; e il pensiero politico moderno tende a indicare la fonte della legittimità nella volontà popolare. Le democrazie parlamentari di tipo occidentale ritengono che la volontà popolare abbia bisogno, per esprimersi, della pluralità dei partiti. Ritenete che il potere in regime di partito unico con elezioni senza scelta fra governo e opposizione sia legittimo?
Partiamo pure, se si vuole, dall’esame della legittimità del potere e della sua fonte, ma cerchiamo di liberarci dal formalismo ipocrita col quale trattano questa questione gli apologeti della «civiltà occidentale». Abbiamo letto Stato e rivoluzione, né abbiamo dimenticato la sostanza di quell’insegnamento, per fortuna nostra! Non è la critica degli errori di Stalin che ce la farà dimenticare. Nella realtà delle cosiddette civiltà occidentali la fonte della legittimità del potere non è affatto la volontà popolare. La volontà popolare è, nel migliore dei casi, uno dei fattori che contribuiscono, esprimendosi periodicamente con le elezioni, a determinare una parte degli indirizzi governativi. Nelle elezioni, però (e valga pure l’esempio dell’Italia, tipico, per alcuni aspetti), entra in azione un molteplice sistema di pressioni, intimidazioni, esortazioni, falsificazioni, artifici legali e illegali, per cui l’espressione della volontà popolare viene ad essere assai gravemente limitata e falsificata. E il sistema opera nelle mani e a favore non solo di chi sta in quel momento al governo, quanto di chi detiene nella società il potere reale, che è dato dalla ricchezza, dalla proprietà dei mezzi di produzione e di scambio, e da ciò che ne deriva, incominciando dall’effettiva direzione della vita politica, sino alla immancabile protezione delle autorità religiose e di tutti gli altri gangli di potere che esistono in una società capitalistica. Noi sosteniamo che oggi, dati gli sviluppi e la forza attuale del movimento democratico e socialista, si possono operare strappi assai larghi in questo sistema che impedisce la libera espressione della volontà popolare, e si può quindi aprire un varco sempre più ampio alla manifestazione di questa volontà.
Per questo ci muoviamo sul terreno democratico e senza uscire da questo terreno riteniamo possibili sempre nuovi sviluppi. Ciò non vuol dire, però, che non vediamo le cose come sono e che del modo come si svolge la vita democratica del mondo occidentale (guai, poi, a spingersi un po’ troppo in là, in questo mondo, sino a trovarvi la Spagna, o la Turchia, o il Sud America, o il Portogallo, o il sistema elettorale discriminato degli Stati Uniti d’America, ecc. ecc.) noi ci dobbiamo fare un feticcio, il modello universale e assoluto della democrazia! Anzi, noi continuiamo a pensare che la democrazia di tipo occidentale è una democrazia limitata, imperfetta, per molte cose falsa, che richiede di essere sviluppata e perfezionata attraverso una serie di riforme economiche e politiche.

Anche se, dunque, giungeremo alla conclusione che il XX Congresso apre un nuovo processo di sviluppo democratico nell’Unione Sovietica, siamo ben lontani dal pensare e riteniamo sia errato pensare che questo sviluppo possa o debba compiersi con un ritorno a istituti di tipo «occidentale». La legittimità del potere, nell’Unione Sovietica, ha la sua fonte prima nella rivoluzione. Questa ha dato il potere alla classe operaia, che era minoranza ma è riuscita, risolvendo i grandi problemi nazionali e sociali che si ponevano, a raccogliere via via attorno a sé tutte le masse popolari, trasformare la struttura economica del paese, creare, far funzionare e progredire una società nuova, costruita secondo i princípi socialisti. Dimenticare la rivoluzione, non tener conto della nuova struttura sociale, dimenticare, cioè, tutto ciò che è proprio dell’Unione Sovietica e poi fare un confronto puramente esteriore con i modi della vita politica nei paesi capitalistici è un trucco e niente più. Ma questo primo richiamo alla realtà non basta. La società sovietica ha avuto, sin dall’inizio, una sua struttura politica democratica, fondata, precisamente, sull’esistenza e sul funzionamento dei «soviet» (consigli di operai, contadini, lavoratori, soldati).
Il sistema dei soviet è, come tale, molto più democratico e progredito di qualsiasi sistema democratico tradizionale, e questo per due motivi. Il primo è che fa penetrare la vita democratica in tutte le parti costitutive della società, partendo dalle unità lavorative di base per risalire, grado a grado, sino alle grandi assemblee cittadine, regionali e nazionali; il secondo è che avvicina le elementari cellule della vita democratica alle unità produttive e quindi supera quell’aspetto negativo delle tradizionali organizzazioni democratiche che consiste nella separazione tra il mondo della produzione e quello della politica e quindi nel carattere esteriore, formale, della libertà.
È possibile che nel funzionamento del sistema sovietico vi sia stato un arresto, un inciampo, da cui sia derivata una limitazione della democrazia sovietica?
Non solo è possibile, ma al XX Congresso la cosa è stata riconosciuta apertamente. La vita democratica sovietica è stata limitata, in parte soffocata, dal sopravvento di metodi di direzione burocratica, autoritaria e dalle violazioni della legalità del regime. In linea di teoria, questa è una cosa possibile, perché un regime socialista non è garantito di per sé da errori e pericoli. Chi lo ritenesse cadrebbe in un infantilismo ingenuo.
La società socialista è una società non soltanto composta di uomini, ma una società in sviluppo, nella quale continuano a esistere contrasti oggettivi e soggettivi, ed è soggetta alle vicende della storia. In linea di fatto, si tratterà di vedere come e perché una limitazione della vita democratica sovietica abbia potuto compiersi, ma, qualunque sia la risposta che si giunga a dare a questa questione, è per noi fuori dubbio che non si potrà mai concludere alla necessità di un ritorno alle forme di organizzazione delle società capitalistiche. (…)
Vi sono stati lunghi periodi di tempo in cui la classe operaia, che aveva preso il potere con la rivoluzione, e il partito che la dirigeva, si trovarono di fronte a situazioni così gravi, a difficoltà e a tali e tanti nemici esterni ed interni, da sconfiggersi ad ogni costo, che l’unità della direzione politica e dell’azione dovette essere mantenuta e fu mantenuta con mezzi eccezionali. Guai se non si fosse fatto così!
Il grave errore commesso da Stalin fu di aver illecitamente esteso questo sistema (peggiorandolo, anzi, perché il rispetto della legalità rivoluzionaria era sempre stato richiesto, nei primi tempi, da Lenin, anche se allora i limiti di questa legalità erano forzatamente assai ristretti) alle situazioni successive, quando non era più necessario e diventava quindi soltanto la base di un potere personale. E l’errore dei suoi collaboratori fu di non essersene accorti a tempo, di averlo lasciato fare sino al punto in cui la correzione non era più possibile senza danno per tutti.
Ritenete che la dittatura personale di Stalin si sia verificata contro e fuori delle tradizioni storiche e politiche russe o sia invece uno sviluppo di tali tradizioni? La dittatura personale di Stalin si giovò, per affermarsi, e per mantenersi, di un insieme di misure coercitive che in Occidente, a partire dalla rivoluzione francese, viene chiamato «terrore». Ritenete che questo «terrore» fosse una necessità?
A queste due domande risponderò assieme perché, a parte la loro formulazione concreta, che limiterebbe la ricerca a temi di ordine particolare, essi consentono, se si supera questa limitazione, di affrontare la questione che logicamente si presenta a questo punto, e cioè come, nella società sovietica, gli errori denunciati dal XX Congresso abbiano potuto essere compiuti e quindi abbia potuto crearsi, e durare un assai lungo periodo di tempo, una situazione in cui la vita democratica e la legalità socialista subivano continue, gravi ed estese violazioni.
A questa si innesta, com’è ben comprensibile, la questione tanto della corresponsabilità, per questi errori, di tutto il gruppo dirigente politico, compresi i compagni che oggi hanno avuto l’iniziativa sia della denuncia che della correzione del male che prima era stato fatto, quanto delle conseguenze di questo male.

A proposito di questa corresponsabilità, due spiegazioni sono state avanzate. Una è la più evidente ed è stata affacciata da noi stessi, nelle discussioni che hanno avuto luogo nel nostro partito. È stata formulata anche dal compagno Courtade, in una serie di articoli sulla Humanité, ed ora, se si deve credere a ciò cheriferiscono i giornalisti, pure dal compagno Krusciov, rispondendo a una domanda rivoltagli in un ricevimento. L’allontanamento di Stalin dal potere, quando apparve la gravità degli errori ch’egli stava compiendo, era «giuridicamente possibile», ma impossibile in pratica, perché se la questione fosse stata posta ne sarebbe risultato un conflitto, e questo conflitto avrebbe probabilmente compromesso le sorti della rivoluzione e dello Stato, contro il quale erano puntate le armi da tutte le parti del mondo. Basta aver avuto un contatto anche superficiale con l’opinione pubblica sovietica negli anni in cui Stalin era alla testa del paese e aver seguito la situazione internazionale di quegli anni per essere in grado di riconoscere che la costatazione è verissima. Oggi, per esempio, i dirigenti sovietici denunciano precisi errori e un momento di scoraggiamento di Stalin all’inizio della guerra. Ma in quel giorno chi, nell’URSS, avrebbe compreso e accettato, non dico un allontanamento di Stalin, ma anche solo una limitazione del suo potere? Sarebbe stato un crollo, se si fosse vista o intuita una cosa simile. E lo stesso in altri momenti. La constatazione fatta da Krusciov, dunque, spiega, sì, lo stato di necessità in cui si trovavano coloro che avrebbero voluto correggere la situazione che si era creata, ma è, nello stesso tempo, una constatazione che complica il quadro, e in sostanza lo aggrava.
Si è costretti ad ammettere che gli errori che Stalin commetteva, o erano ignorati dalla grande massa dei quadri dirigenti del paese e quindi dal popolo, e questo non pare verosimile; oppure non erano considerati errori da questa massa di quadri e quindi dall’opinione pubblica, da essi orientata e diretta. Come si vede, io escludo la spiegazione dell’impossibilità di un cambiamento causata solo dalla presenza di un apparato militare, poliziesco, terroristico che controllasse la situazione con i suoi mezzi. Questo stesso apparato era composto e diretto da uomini, che in un momento grave come quello dell’attacco di Hitler, per esempio, sarebbero stati dominati anch’essi da reazioni elementari, se si fosse aperta una crisi profonda. Molto più giusto mi pare riconoscere che, nonostante gli errori che commetteva, Stalin aveva il consenso di una grandissima parte del paese e prima di tutto dei suoi quadri dirigenti e anche delle masse. Era questa la conseguenza del fatto che Stalin non commise solo degli errori, ma fece anche molte cose buone, «fece moltissimo per l’URSS», «era il più convinto dei marxisti e saldo nella sua fiducia nel popolo».
Ha riconosciuto questo lo stesso compagno Krusciov, nelle dichiarazioni riferite sopra, correggendo così lo strano ma comprensibile sbaglio, che venne fatto, secondo me, al XX Congresso, di tacere questi meriti di Stalin. Ma questo non spiega tutto, e non spiega tutto appunto per la gravità degli errori che oggi vengono denunciati. La spiegazione non si può trovare se non in una attenta indagine del modo come al sistema caratterizzato dagli errori di Stalin si giunse. Solo così si potrà comprendere come questi errori non fossero soltanto qualcosa di personale, ma investissero in modo profondo la realtà della vita sovietica. Un’altra spiegazione del perché non si poté giungere prima alle necessarie correzioni è stata data, se non erro, dallo stesso Krusciov, affermando che se queste correzioni non poterono farsi è perché la posizione dei dirigenti del partito e dello Stato verso gli errori di Stalin non fu eguale in tutti i periodi.
Vi furono dunque dei momenti in cui attorno a Stalin vi fu un’ampia solidarietà degli altri, e questa solidarietà era l’espressione, precisamente, di quel consenso di cui sopra parlavamo. E qui bisogna riconoscere, apertamente e senza esitazione, che, mentre il XX Congresso ha dato un contributo enorme all’impostazione e soluzione di molti seri e nuovi problemi del movimento democratico e socialista, mentre segna una tappa importantissima nello sviluppo della società sovietica, non può invece venire considerata soddisfacente la posizione che è stata presa al congresso e che oggi viene ampiamente sviluppata nella stampa sovietica per quanto riguarda gli errori di Stalin e le cause e condizioni che li resero possibili.
La causa di tutto starebbe nel «culto della personalità», e nel culto di una persona che aveva determinati e gravi difetti, mancava di modestia, tendeva al potere personale e alle volte sbagliava per incompetenza, non era leale nelle realzioni con gli altri dirigenti, aveva una smania di grandezza e un eccessivo amore di se stesso, era sospettoso sino all’estremo, e alla fine, attraverso l’esercizio del potere personale, giunse a distaccarsi dal popolo, a trascurare il suo lavoro e a soggiacere persino a una forma evidente di mania di persecuzione. I dirigenti sovietici attuali hanno conosciuto Stalin assai più di noi (di alcuni contatti avuti con lui avrò forse modo di parlare in altra occasione), e noi quindi dobbiamo loro credere quando a questo modo oggi ce lo descrivono. Possiamo soltanto pensare, tra di noi, che, poiché era così, a parte l’impossibilità di fare un cambio a tempo, di cui già si è parlato, avrebbero per lo meno potuto essere più prudenti in quella esaltazione pubblica e solenne delle qualità di quest’uomo, cui ci avevano abituato.
È vero che oggi si criticano, ed è il loro grande merito, ma in questa critica un poco del loro prestigio va senza dubbio perduto. Ma a parte questo, sino a che ci si limita, in sostanza, a denunciare, come causa di tutto, i difetti personali di Stalin, si rimane nell’ambito del «culto della personalità». Prima, tutto il bene era dovuto alle sovrumane qualità positive di un uomo; ora, tutto il male viene attribuito agli altrettanto eccezionali e persino sbalorditivi suoi difetti. Tanto in un caso quanto nell’altro siamo fuori del criterio di giudizio che è proprio del marxismo. Sfuggono i problemi veri, che sono del modo e del perché la società sovietica poté giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata, e persino di degenerazione. Lo studio dovrà essere fatto seguendo le diverse tappe di sviluppo di questa società, e sono prima di tutti i compagni sovietici che debbono farlo, perché conoscono le cose meglio di noi, che possiamo sbagliare per parziale o errata conoscenza dei fatti. A noi torna a mente, anzitutto, che Lenin, negli ultimi suoi discorsi e scritti, aveva posto l’accento sul pericolo di burocratizzazione che minacciava la nuova società.
Ci sembra fuori dubbio che gli errori di Stalin furono legati a un eccessivo aumento del peso degli apparati burocratici nella vita economica e politica sovietica, e forse prima di tutto nella vita del partito. E qui è assai difficile dire quale fosse la cuasa, quale la conseguenza. L’una cosa venne ad essere, a poco a poco, l’espressione dell’altra.
Questo peso eccessivo della burocrazia è anche da riferirsi a una tradizione, proveniente dalle forme di organizzazione politica e dal costume della vecchia Russia?
Forse non lo si può escludere e credo vi siano accenni di Lenin in questo senso; si tenga però presente che dopo la rivoluzione il personale dirigente cambiò totalmente o quasi, e a noi, poi, non interessa tanto valutare il residuo del vecchio, quanto il fatto che un nuovo tipo di direzione burocratica sia venuto insorgendo dal seno della nuova classe dirigente, nel momento in cui essa assolveva compiti del tutto nuovi. I primi anni dopo la rivoluzione, poi, furono anni aspri, terribili, di sovrumane difficoltà oggettive, di intervento straniero, di guerra e di guerra civile. Furono allora assolutamente necessari, tanto un massimo di centralizzazione del potere, quanto l’adozione di misure repressive radicali per schiacciarela controrivoluzione. Era inevitabile, in questo periodo, che avvenisse come in guerra: se un compito non viene eseguito, il responsabile è sottoposto a uno sbrigativo giudizio!
Lo stesso Lenin, come risulta da una lettera da lui indirizzata a Dzerginski e ora resa pubblica, prevedeva si dovesse fare una svolta quando la controrivoluzione e l’intervento straniero fossero stati del tutto sconfitti, il che avvenne qualche anno prima della sua morte. Si dovrà vedere se questa svolta venne compiuta o se, quasi per forza di inerzia, non si consolidò una parte di ciò che avrebbe dovuto venire modificato o abbandonato. In questo momento, poi, si scatenò la lotta dei gruppi che contestavano la possibilità di una edificazione economica socialista e questo non poté non avere una estesa influenza su tutta la vita sovietica.Anche questa lotta ebbe il carattere di un vero combattimento, dal cui esito dipendevano le sorti del potere, e che si doveva quindi vincere ad ogni costo.
È in questo periodo che Stalin ebbe una parte positiva, e attorno a lui si unirono le forze sane del partito. Ora si potrà osservare che si unirono attorno a lui in modo tale, e guidate da lui accettarono tali modificazioni nel funzionamento del partito e dei suoi organi dirigenti, tale nuova funzione degli apparati diretti dall’alto, per cui o non poterono più opporsi quando incominciarono a venire alla luce le cose cattive, oppurenon compresero nemmeno bene, all’inizio, che si trattasse di cose cattive. Forse non si sbaglia affermando che è dal partito che ebbero inizio le dannose limitazioni del regime democratico e il sopravvento graduale di forme di organizzazione burocratica. Ma più importante mi pare debba essere l’esame attento di ciò che avvenne in seguito, quando fu realizzato il primo piano quinquennale e fu attuata la collettivizzazione dell’agricoltura.
Qui si toccano infatti vere questioni di principio. I successi ottenuti furono qualcosa di molto grande, di grandioso, anzi. Fu creata una grande industria socialista, e fu creata senza aiuti o crediti dall’estero, attraverso un impegno e uno sviluppo delle forze interne della nuova società. Fu trasformata, anche se in modo meno sicuro, attraverso notevoli difficoltà, fretta eccessiva ed errori, la struttura sociale delle campagne. I risultati ottenuti erano qualcosa che mai al mondo era stata veduta, che fuori dell’Unione Sovietica pochi avevano creduto possibile. Furono una conferma clamorosa della vittoria rivoluzionaria dell’ottobre, e della giusta linea politica sostenuta contro oppositori e nemici d’ogni sorta. Furono però anche l’inizio di alcuni orientamenti sbagliati, e che dovevano avere, in seguito, gravi conseguenze cattive. nell’esaltazione dei successi ottenuti prevalse, soprattutto nella propaganda corrente, ma anche nelle impostazioni generali, una tendenza alla esagerazione, a considerare oramai risolti tutti i problemi, superate le contraddizioni oggettive, le difficoltà, i contrasti che pure sono sempre inerenti alla costruzione di una società socialista. Queste contraddizioni oggettive, queste difficoltà, questi contrasti, sono spesso, nel corso della costruzione di una società socialista, molto gravi, e non possono venire superati se non vengono riconsociuti in modo aperto, chiamando le stesse masse operaie e lavoratrici ad affrontarli e risolverli con il loro lavoro, con la loro opera creativa.
Ne derivarono due principali conseguenze, credo. La prima fu un isterilimento dell’attività delle masse, nei luoghi e negli organismi (di partito, sindacali, di fabbrica, sovietici) dove le reali e nuove difficoltà della situazione avrebbero dovuto venire affrontate, e dove invece incominciarono a prevalere scritti e discorsi pieni di dichiarazioni pompose, di frasi fatte, ecc.; ma in realtà freddi e inefficaci, perché privi di contatto con la vita. Il vero dibattito creativo a poco a poco venne scomparendo, e quindi la stessa attività delle masse a ridursi, muovendosi più per direttiva dall’alto che per stimolo proprio.
Ma la seconda conseguenza fu più grave ancora ed è che quando la realtà riprendeva i suoi diritti, e le difficoltà venivano fuori, come conseguenza degli squilibri e dei contrasti che tuttora erano nelle cose, si manifestò e a poco a poco finì per prevalere su tutto la tendenza a considerare che sempre e in ogni caso il male, l’arresto nell’applicazione del piano, la difficoltà negli approvvigionamenti, nell’afflusso delle materie prime, nello sviluppo delle diverse parti dell’industria o dell’agricoltura, ecc. ecc., fossero dovuti al sabotaggio, all’opera del nemico di classe, di gruppi controrivoluzionari operanti clandestinamente, e così via. Non è che queste cose non ci fossero. Ci furono anche queste cose.
L’Unione Sovietica era circondata da nemici spietati, pronti a ricorrere a tutti i mezzi per recarle danno e frenarne l’ascesa; ma quell’errato indirizzo nei giudizi sulla situazione oggettiva fece perdere il senso del limite, fece smarrire la nozione della frontiera che separa il buono dal cattivo, l’amico dal nemico, la incapacità o la debolezza dalla ostilità consapevole e dal tradimento, il contrasto e le difficoltàche sgorgano dalle cose, dall’atto ostile di chi congiura per rovinarti. Bisogna però cercare in profondo per comprendere come queste posizioni potessero venire accettate e diventare popolari, e una delle direzioni della ricerca dovrà essere quella da noi indicata, se si vuole capire tutto.
Stalin fu ad un tempo espressione e autore di una situazione, e lo fu tanto perché dimostratosi il più esperto organizzatore e dirigente di un apparato di tipo burocratico nel momento in cui questo prese il sopravvento sulle forme di vita democratica, quanto per aver dato una giustificazione dottrinale di quello che in realtà era un indirizzo errato e sul quale poi si resse, fino ad assumere forme degenerative, il suo potere personale. Tutto questo spiega quel consenso che vi fu attorno a lui, che durò sino alla sua scomparsa e forse tuttora conserva qualche efficacia. Non si dimentichi, poi, che anche quando si stabilì questo suo potere, i successi della società sovietica non mancarono. Vi furono nel campo economico, in quello politico, in quello culturale, in quello militare, in quello dei rapporti internazionali. Nessuno potrà negare che l’Unione Sovietica del 1953 era incomparabilmente più forte, più sviluppata in tutte le direzioni, più solida all’interno e più autorevole di fronte all’estero di quanto non fosse, per esempio, all’epoca del primo piano quinquennale. Come mai tanti errori non impedirono tanti successi? Anche qui, sono i dirigenti sovietici che debbono dare la risposta, comprendendo che questo è oggi uno dei problemi che assillano i militanti sinceri del movimento operaio internazionale.
Fino a che punto, da quale momento ed entro quali limiti gli errori di Stalin compromisero la linea politica del partito, crearono difficoltà sussidiarie e quale peso ebbero queste difficoltà, e come si riuscì, nonostante quegli errori, a progredire?
Sulla base di ciò che conosciamo, noi possiamo fare solo alcune affermazioni generali, disposti a rivederle se necessario. Ci sembra debba essere riconosciuto che la linea seguita nella costruzione socialista continuò a essere giusta, anche se gli errori che vengono denunciati sono tali che non possono non avere seriamente limitato i successi nella sua applicazione. Questo è però uno dei punti su cui saranno necessarie le maggiori spiegazioni, perché la restrizione e in qualche caso persino la scomparsa della vita democratica è cosa essenziale per la validità di una politica.
Ci sembra, ad ogni modo, incontrovertibile che la burocratizzazione del partito, degli organi dello Stato, dei sindacati, e soprattutto degli organi periferici, che sono i più importanti, deve avere frenato, limitato, compresso, il pensiero creativo del partito, l’attività delle masse, il funzionamento democratico dello Stato e lo slancio costruttivo di tutta la società, con evidenti danni reali. D’altra parte, gli stessi successi ottenuti, e in pace e in guerra e dopo la guerra, sono la prova di una impressionante capacità di lavoro, di entusiasmo e di sacrificio delle masse popolari in qualsiasi situazione, di una loro adesione continua agli scopi che la politica del partito poneva a tutto il paese, e che attraverso l’opera loro vennero realizzati.
È difficile dire, per esempio, quale altro popolo sarebbe stato capace di resistere, riprendersi e poi vincere con Hitler nei sobborghi di Mosca e poi sul Volga, e con le strettezze terribili del periodo di guerra.
Si deve dunque concludere che la sostanza del regime socialista non andò perduta, perché non andò perduta nessuna delle precedenti conquiste, né, soprattutto, l’adesione al regime delle masse di operai, contadini, intellettuali che formano la società sovietica. Questa stessa adesione sta a provare che, nonostante tutto, questa società manteneva il suo fondamentale carattere democratico.
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Massimo Caprara *
Il PCI e il 1956 |
«Svelto. È urgente. Ti vuole Togliatti». Il deputato comunista che era sceso di corsa dagli uffici del Gruppo parlamentare comunista alla Camera, a Montecitorio, mi raggiunse nel Transatlantico ormai deserto la sera del 2 novembre 1956, quando sull'Italia passava il rumoroso ponte aereo di sostegno allo sbarco inglese all'istmo di Suez.
«Convoca il direttivo del Gruppo. Giuliano Paletta (1915-1988) - piú giovane dei fratello Giancarlo (1911-1990) - è incaricato di parlare domani in Aula per noi» mi avvertì Togliatti al telefono. Poi, dopo una pausa, senz'attendere risposta, precisò: «Sono entrati a Budapest». «Accidenti», mi scappò detto. «Ma sono i nostri» replicò il capo del Partito. «Li comanda il generale d'armata Lascenko», tagliò corto Togliatti e troncò bruscamente la telefonata.
La sua precisazione corresse la mia errata sensazione che a invadere l'Ungheria fossero le truppe della Nato, irrompendo da quei confini austriaci che l'Unità in quei giorni assicurava ultrapieni d'armi a disposizione del Cardinale Josef Mindszenty, Primate d'Ungheria, arrestato dal regime comunista e poi rifugiatosi nell'ambasciata degli Stati Uniti. Era l'inizio dell'indimenticabile 1956.
«Viva l'Armata Rossa», concluse nel suo intervento Giuliano Pajetta urlando contro il liberale Gaetano Martino, il Ministro degli Esteri del governo di Antonio Segni. «Noi non possiamo ignorare la funzione dell'esercito sovietico liberatore» disse Pajetta in modo provocatorio, accendendo le proteste di democristiani, liberali e della destra della Camera italiana. Scoppiò un tumulto.
Dei fatti, Togliatti già sapeva. Un messaggio personale gli era stato già fatto recapitare dall'Ambasciata sovietica di via Gaeta, a Roma, con la firma del membro del Politburo Dimitri Trofimovic Svepilov e, inoltre, tra il 22 e il 24 ottobre egli aveva effettuato un viaggio lampo in macchina sino a Pola per incontrarvi i dirigenti del partito jugoslavo, Tito e Miciunovich, latori di una comunicazione riservata dell'Armata Rossa e del Comando delle truppe del Patto di Varsavia.
A Budapest, il popolo organizza violente manifestazioni contro il comunismo e il governo autoritario. Imre Nagy, capo legittimo del governo ungherese, viene accusato dai russi d'aver perduto il controllo della situazione e legalizzato l'insurrezione dando pubblica fiducia ai suoi capi e in particolare al cosiddetto teppista, Pal Maleter, il capo della rivolta.
La sera dei 6 novembre avvicinai Togliatti alla Camera. Di malavoglia egli mi disse, irritato: «È tutta colpa di quegli agitatori qualunquisti del Circolo Petöfi di Pest e dell'influenza esercitata dal filosofo Georgy Lukacs, comunista per modo di dire», sibilò con astio. «Lo rimanderemo a scrivere i suoi libri a Vienna, come ha fatto per tanto tempo» aggiunse. Ci incamminiamo lentamente verso la buvette di Montecitorio. «Per Nagy tira ormai un'aria funesta». Togliatti parlò con sicurezza distaccata.
Da Budapest, il corrispondente dell'Unità, Orfeo Vangelisti, trasmetteva in quei giorni che «gruppi di facinorosi, seguendo evidentemente un piano accuratamente studiato, hanno attaccato la sede della radio e del Parlamento. Gruppi di provocatori in camion hanno lanciato slogan antisovietici apertamente incitando a un'azione controrivoluzionaria. In piazza Stalin, i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua di Stalin». Il grande moto ungherese veniva così ridotto e manipolato dall'organo di stampa del PCI.
Dopo un grande comizio di Imre Nagy, questi veniva arrestato dalle truppe russe e rumene a Budapest e sostituito da Janos Kadar a capo del Governo. In una affollatissima conferenza stampa, nel pianterreno dell'edificio extraterritoriale dell'Ambasciata americana, il Card. Mindszenty aveva detto a proposito dell'intervento delle truppe del Patto di Varsavia: «Lo condanno in maniera incondizionata» e aggiunto: «Anche se Kadar faceva parte del governo Nagy, io considero governo legale solo il governo Nagy. Kadar è stato insediato dagli stranieri».
A Roma usciva sull'Unità un articolo di fondo intitolato « Da una parte della barricata a difesa dei socialismo» sul quale si scriveva: «I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi se stessa, com'è suo diritto sacrosanto. Guai se così non fosse». Da Mosca arriva una dichiarazione attribuita a Krusciov che inveisce contro i disordini: «A komunistse tam rezhut» («In Ungheria scannano i comunisti»).
Il PCI è in subbuglio. Nella Direzione, Amendola definisce l'intervento «un dovere di classe». Un'assemblea di studenti iscritti alla Federazione giovanile comunista di Roma vota all'unanimità un documento di sostegno «al processo di democratizzazione e a quei movimenti che si stanno manifestando in questo senso in Ungheria e che dovranno portare a un socialismo costruito nella democrazia e nella libertà». L'Unità lo respinge, l'Avanti! lo pubblica.
A Milano, un folto e combattivo gruppo di intellettuali, comunisti e non, approva un documento critico analogo. Rossana Rossanda e Giangiacomo Feltrinelli hanno l'incarico di andare all'Unità e di chiederne la pubblicazione. Davide Laiolo, il direttore dell'edizione di Milano, li affronta aspramente e li aggredisce urlando. Rifiuta la mozione e dichiara che finché rimarrà lui, «una spazzatura simile non comparirà mai sulle colonne del giornale».
Ma la novità più esplosiva verrà dalla sede della CGIL, la Confederazione del lavoro con milioni di iscritti, con sede in corso d'Italia a Roma. «L'intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell'autonomia degli Stati socialisti», si legge nel testo votato all'unanimità. Prima firma: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale. È un comunista di antica data.
Io arrivo proprio mentre Di Vittorio scende dalla macchina sotto il portone delle Botteghe Oscure. Fa appena in tempo a dirmi che è stato convocato d'urgenza dalla Direzione. Entro con lui nel locale della segreteria, l'ufficio di Togliatti, che subito gli dice: «Il documento della CGIL va ritirato. Devi essere tu a correggere la posizione. Lo farai nel prossimo comizio». Poi aggiunge seccamente: «A Livorno, domenica ventura». «Ma è un comizio sindacale unitario non del partito» dice Di Vittorio.
«Meglio», replica il segretario comunista. Uscendo, Di Vittorio è fiaccato, stravolto. Ha gli occhi rossi. «Che avrei potuto fare? Mi hanno, tutta la direzione, messo clamorosamente di fronte all'alternativa: o il comizio o fuori dal partito. Che farei io, Di Vittorio, senza il partito? Forse non sono già più Peppino Di Vittorio». La domenica successiva andò a Livorno, parlò e rinnegò se stesso.
Imre Nagy, attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958.
Nonostante simili gravissimi eventi, io allora non uscii dal partito. Uscii invece nel 1968, dopo l'invasione russa di Praga, quando fui radiato dal PCI. Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia.
* M. Caprara è stato dal 1944 per circa vent'anni, segretario di Palmiro Togliatti e come tale ha vissuto dall'interno gli avvenimenti fondamentali della storia del PCI, avendo anche l'occasione di incontro e di contatti con i leader del Comintern: da Stalin a Tito, Chruscev, Breznev, Linpiao, Che Guevara.
È stato sindaco di Portici negli anni '50 e successivamente consigliere comunale di Napoli sino al 1997.
Deputato alla Camera per vent'anni, dal 1953 segretario del gruppo comunista, membro del Ccomitato Centrale, responsabile regionale per la Campania, venne radiato dal Partito Comunista nel 1969 insieme al gruppo del Manifesto, dei quali è stato uno dei fondatori.
Da allora Caprara, pur praticando l'impegno politico, non ha più preso tessere di partito, preferendo il riesame della sua esperienza di militante e la testimonianza critica e sofferta della vicenda del PCI e di quelli stranieri. Giornalista professionista, primo redattore capo di Rinascita, diretta da Togliatti, è stato in molti paesi, dalla Cina al Cile, come inviato de Il Mondo, l'Espresso, Tempo Illustrato. Negli anni '80 è stato direttore responsabile del quotidiano Il Diario con edizioni a Napoli e Caserta. Ha diretto successivamente il mensile l'Illustrazione Italiana sino al 1997 ed è stato collaboratore fisso de Il Giornale.
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grazie a: Il Timone, Anno VII - Gennaio 2006 |