BREVE
STORIA D'ITALIA
STRATEGIA
DELLA TENSIONE E ANNI DI PIOMBO
1943: viene istituito il Noto Servizio, o Anello, un servizio parallelo al SIM, Servizio Informazioni Militare (creato nel 1925), con finalità strettamente anticomuniste; col tempo diverrà anello di congiunzione di molteplici interessi politici, militari, economici. Solo nel 1998 se ne scoprirà l'esistenza
1948: gli Stati Uniti creano in diversi paesi europei l'organizzazione Stay Behind, una struttura paramilitare clandestina col compito di contrastare un'eventuale invasione da parte dell'Unione Sovietica: in Italia prenderà il nome di Gladio
1948: viene istituito l'Ufficio Affari Riservati, a tutti gli effetti una vera e propria polizia politica
1956: Pino Rauti, uscito dal MSI, fonda il Centro Studi Ordine Nuovo, che subirà varie trasformazioni e che sarà il centro (più o meno infiltrato) del terrorismo neofascista
1964: il Presidente della Repubblica, Mario Segni, ed il Comandante dei Carabinieri, il gen. De Lorenzo, prospettano un colpo di stato per impedire qualsiasi svolta a sinistra: lo svelerà l'Espresso nel 1967
1965: a Roma l'estrema destra europea organizza il Convegno sulla guerra rivoluzionaria, per definire le molteplici azioni volte a impedire ai comunisti di andare al governo. Vi partecipano alti ufficiali delle forze armate, giornalisti, dirigenti dei gruppi neofascisti, esponenti della massoneria. Si delinea la strategia della tensione: destabilizzare il paese con attentati e provocazioni, per creare un clima di paura rispetto al quale si renda necessaria una svolta autoritaria
1966: coinvolto nelle trame segrete e responsabile delle illegali schedature politiche, viene sciolto il SIFAR, Servizio Informazioni Forze Armate; lo sostituisce il SID, Servizio Informazioni Difesa, il cui capo verrà arrestato nel 1974 per cospirazione...
12 dicembre 1969: servizi segreti e fascisti continuano a tramare: con la strage di piazza Fontana (17 morti) inizia la stagione delle bombe: 28.05.1974, Brescia (8 morti). 04.08.1974, treno Italicus (12 morti). 02.08.1980 Bologna (85 morti). 27.06.1980 Ustica (81 morti, missile francese?). 23.12.1984 Rapido 904 (16 morti)
1970: Licio Gelli diviene il capo della loggia massonica segreta Propaganda 2: un'organizzazione potentissima di cui faranno parte tutti i più alti gradi delle Forze armate e dei servizi, politici, giornalisti, uomini d'affari, legati dal comune proposito di impedire lo spostamento a sinistra dell'Italia: la strategia della tensione
1970: si forma il primo nucleo delle Brigate Rosse
1970: tentativo di colpo di stato organizzato da J.V. Borghese
1973: iniziano le indagini sull'organizzazione eversiva Rosa dei venti
1974: viene soppresso l'Ufficio Affari Riservati
1977: il SID viene sciolto e sostituito da due strutture distinte: SISMI (spionaggio) e SISDE (controspionaggio)
1977: nascono i Nuclei Armati Rivoluzionari, NAR, la più attiva delle formazioni terroristiche di estrema destra, con stretti legami con la criminalità organizzata
1978: rapimento e uccisione di Aldo Moro
1981: si scopre l'elenco dei 963 iscritti alla P2 (119 alti ufficiali, 59 parlamentari, 22 dirigenti di polizia, 128 dirigenti d'azienda, 8 direttori di giornali, ...)
1982: viene ucciso il banchiere Roberto Calvi, piduista, e, insieme a Sindona e a mons. Marcinkus, esperto di finanza altamente creativa
1984: si scopre l'esistenza di Super-SISMI, agli ordini del capo del servizio, struttura coinvolta nei depistaggi sulle stragi e in molto altro
1986: muore avvelenato Michele Sindona
1998: si scopre l'esistenza del Noto Servizio |
Le
vicende del ‘68-’69 avevano rimesso in moto una situazione
politica che negli anni precedenti aveva teso a stagnare, ma il
segnale rappresentato da quegli “operai e studenti uniti
nella lotta” (come diceva lo slogan forse più
gridato nei cortei di allora) fu recepito con angoscia, si potrebbe
dire, da chi non intendeva permettere in alcun modo che la situazione
italiana si modificasse.
In realtà non vi erano avvisaglie di manovre autoritarie
analoghe a quelle del ‘64, e proprio per questo all’inizio
non fu colta in tutta la sua gravità la sequenza di avvenimenti
che più tardi venne definita strategia della tensione.
“L’Italia è l’unico paese del mondo
sviluppato che ha conosciuto nel breve volgere di due decenni
tutte le forme di eversione e di terrorismo che i trattati di
sociologia annoverano. Tutto è apparentemente cominciato”
(G. Cipriani-G. De Lutiis-A. Giannulli, Servizi segreti,
suppl. a Avvenimenti,
n. 21, 1993, p. 1) il 12 dicembre 1969, a Milano,
quando la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in
piazza Fontana, venne distrutta da una bomba ad alto potenziale:
i morti furono diciassette e i feriti più di ottanta.
Dopo poche ore il Ministero degli Interni diramò un comunicato
in cui si affermava che l’attentato era opera degli anarchici,
e in un memorabile servizio del Telegiornale il cronista Bruno Vespa, con insuperabile professionalità,
poté annunciare che senza dubbio il responsabile era l’anarchico
Pietro Valpreda: il mostro era stato sbattuto
in prima pagina, giudicato e condannato; un altro anarchico, Giuseppe
Pinelli, arrestato e interrogato in Questura,
morì la notte del 15 dicembre, precipitando dalla finestra
dell’ufficio del commissario Calabresi. Lotta
Continua lanciò contro di lui una violentissima campagna
di stampa, accusandolo apertamente di essere il responsabile di
quella morte. Nel 1972 Calabresi sarà ucciso da un commando
terrorista e in seguito Adriano Sofri, all'epoca leader del gruppo,
sarà condannato all'ergastolo perché ritenuto il
mandante dell'omicidio. La versione ufficiale fu che Pinelli,
vistosi scoperto, si fosse suicidato, e infatti il questore di
Milano annunciò che l’alibi di Pinelli era crollato
e che l’anarchico era gravemente implicato nell’attentato.
Ma nel 1975 un tribunale accerterà che Pinelli era del
tutto estraneo alla strage, e allora ritornano alla mente le parole
di una canzone di protesta di allora: “A Milano quella
sera era caldo, ma che caldo che caldo faceva, brigadiere apri
un po’ la finestra, una spinta e Pinelli va giù”.
Valpreda restò in carcere per tre anni, subì vari
processi, ma solo nel 1985 sarà scagionato in via definitiva.
Sulla vicenda restano ancora tanti lati oscuri, tuttavia la magistratura,
pur non avendo individuato esecutori e mandanti, ha accertato
che dietro la strage di piazza Fontana vi era un gruppo fascista
appoggiato dai servizi segreti. Una strage
di stato: l’inizio di un lungo periodo in cui
forze potenti e variamente collegate fra loro (apparati governativi,
servizi segreti italiani e americani, organizzazioni fasciste,
logge massoniche.
Recentemente Licio Gelli è stato assolto, comunque vale la pena di rammentare che
egli divenne Maestro Venerabile della Loggia segreta P2 già nel 1968. ) operarono per creare un clima di tensione
e di violenza che potesse giustificare una reazione autoritaria.
A questo proposito si è spesso parlato di servizi “deviati”,
ma forse il termine non è corretto, nel senso che numerose
inchieste giudiziarie hanno ormai appurato che più di una
volta i servizi segreti hanno operato in prima persona (tradendo
la Patria, come direbbe Scalfaro) per impedire indagini, proteggere
ricercati, depistare magistrati, finanziare organizzazioni illegali.
Qui se ne darà solo qualche saltuario accenno e non si
tenterà nemmeno sommariamente di ricostruire queste trame
(nere): il loro intreccio è così complesso e delicato
che richiederebbe un libro apposito, che fortunatamente c’è
già, ad opera del professor De Lutiis, e che è più
inquietante di qualsiasi thriller di fantasia.
Ma ecco il truce bilancio di quegli anni di stragi: 12.12.69:
piazza Fontana (16 morti); 22.7.70: treno Reggio
C.- Roma (6 morti); 20.10.72: treno sindacale: attentato
fallito; 3.5.72: Peteano (3 carabinieri morti);
28.05 74: Brescia (8 morti); 4.10.74: treno Italicus (12 morti); 2.10.80:
stazione di Bologna
(85 morti); 27.6.80: Ustica (81 morti: qui la ricostruzione di Lucarelli e Paolini)); 23.12.84:
treno Firenze-Bologna (15 morti). A questi 226
morti va aggiunto un numero imprecisato ma cospicuo di “suicidi”
e “incidenti”.
Nello stesso arco di tempo, a partire
dalla stessa notte del 12 dicembre ‘69, innumerevoli furono
gli attentati in varie città d’Italia, che, pur non
provocando vittime, crearono una situazione di panico permanente.
Circa un anno dopo piazza Fontana, nella notte fra il 7 e l’8
dicembre (ma del fatto si avrà notizia solo qualche mese
più tardi) un reparto di uomini armati occupa per alcune
ore il Ministero degli Interni: li guida Junio Valerio Borghese,
già comandante della famigerata Decima Mas durante la repubblica
di Salò. Il tentativo di golpe è destinato al fallimento,
perché non dispone né di forze sufficienti né
di una preparazione adeguata, però si svolge a pochi giorni
di distanza dalla nomina a capo del SID (il Servizio
Informazioni Difesa fu costituito nel 1965 in sostituzione del
SIFAR, compromesso nelle schedature illegali
e nelle trame del gen. De Lorenzo; cambiò il nome ma non
la sostanza, tanto che il SID venne sciolto nel 1977 e al suo
posto vennero creati due servizi distinti, uno di carattere militare, SISMI, e uno relativo alla sicurezza interna,
SISDE) di quel generale Vito Miceli,
che sarà poi arrestato tre anni dopo per cospirazione politica.
Difficile interpretare in modo chiaro questa, come dire?, contiguità,
ma tutta la recente storia italiana è costellata di coincidenze
simili.
Questa
torbida serie di eventi non riuscì a bloccare il rinnovato
sviluppo dell’azione sindacale: dopo anni di divisioni,
l’unità fra i lavoratori, faticosamente ricostruita
nelle lotte, trovò uno sbocco politico in un accordo fra
le Confederazioni, che nel luglio del ‘72 costituirono la Federazione Unitaria
CGIL-CISL-UIL; avrebbe dovuto essere la prima tappa
verso la creazione di un unico sindacato (come avevano fatto i
metalmeccanici con la FLM),
ma varie divergenze frenarono il processo, fino a che la radicale
diversità di opinioni sulla scala
mobile (1984) provocò la rottura della Federazione,
sia a livello confederale che di categoria, e addirittura un sensibile
arretramento nei rapporti.
In seria difficoltà erano invece le forze politiche di
opposizione, timorose sugli sviluppi che le manovre reazionarie
potevano avere e incerte rispetto alla concreta possibilità
di costruire uno sbocco positivo; e mentre si attestavano su un
“dignitoso immobilismo” la DC impostava con prudente
determinazione una svolta moderata, prima portando alla Presidenza
della Repubblica, coi voti determinanti del MSI, Giovanni Leone e poi ritornando a una formula governativa di centrodestra che
sembrava appartenere al passato: nel giugno del ‘72 Giulio
Andreotti formò un gabinetto con i liberali e i socialdemocratici,
ma la debolezza della coalizione, unitamente al consueto attendismo,
non erano certo adeguati a fronteggiare la gravissima congiuntura
economica. La svalutazione del dollaro in seguito alla rottura
degli accordi di Bretton
Woods (in questa cittadina statunitense nel 1944
si tenne una fondamentale conferenza fra tutti i paesi del mondo
occidentale, durante la quale venne creato il Fondo
Monetario Internazionale e soprattutto vennero stabiliti
i complessi principi che avrebbero regolato i rapporti fra le
diverse monete: il dollaro, con la sua convertibilità in
oro, divenne la moneta di riferimento. Nel 1971, per far fronte
a una grave crisi della propria bilancia commerciale, gli USA
misero fine a questo regime internazionale) e il considerevole
aumento (oltre il 70%) del prezzo del petrolio deciso dall’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), cioè
dai paesi produttori, provocò anche in Italia pesanti contraccolpi:
il maggior costo delle materie prime si tradusse in aumento dei
prezzi dei prodotti, e di conseguenza in una contrazione degli
acquisti, e quindi, ancora, in una diminuzione della produzione
industriale. Questa spirale perversa, la cosiddetta recessione,
causò la chiusura di diverse industrie, ovvero spinse molte
imprese a licenziare e a produrre tramite il lavoro a domicilio,
oppure con subappalti ad aziende che utilizzavano manodopera sottopagata
o che addirittura legalmente non esistevano e quindi lavoravano
in “nero”, vale a dire senza una contabilità
regolare.
In questo quadro di particolare difficoltà il futuro presentava
indubbiamente numerose incognite, e il perdurare di una contrapposizione
frontale fra progressisti e moderati poteva avere esiti imprevedibili,
se non addirittura tragici. Com’era accaduto, nel settembre
1973, in Cile, dove il governo di sinistra guidato da Salvador Allende,
impotente di fronte a una gravissima crisi economica, era stato
rovesciato da un sanguinoso golpe militare. La situazione italiana,
assai diversa, non era certo così preoccupante, ma alcuni
punti di somiglianza vi erano, e proprio partendo da questa considerazione Enrico Berlinguer,
eletto l’anno prima Segretario del PCI, formulò la
proposta del compromesso storico: le tre grandi componenti della
democrazia italiana, i comunisti, i socialisti, i cattolici, dovevano
mettere in secondo piano le loro divergenze, perché “la
gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti
di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente
alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento
sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente
e maturo che si giunga a quello che può essere definito
il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze
che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo
italiano” (Enrico Berlinguer, Riflessioni
sull’Italia dopo i fatti del Cile)
Si trattò indubbiamente di un’originale intuizione,
che tuttavia sopravvalutava la disponibilità della DC a
rinunciare alla propria centralità, al ruolo di arbitro
indiscusso del destino politico, e soprattutto al controllo pressoché
esclusivo della macchina statale; d’altra parte il PSI temeva
che in questo accordo avrebbero poi finito per prevalere le due
forze maggiori, relegando i socialisti in una posizione subalterna
se non del tutto insignificante. La DC trovò un’ottima
opportunità per evitare un confronto di merito sui temi
proposti da Berlinguer nella campagna antidivorzista: ad appena
quattro anni dall’approvazione della legge (primo firmatario
il socialista Loris Fortuna), gli ambienti clericali
più retrivi avevano raccolto centinaia di migliaia di firme
con cui promuovere il referendum abrogativo e Fanfani si impegnò
in questa battaglia come fosse una crociata d’altri tempi,
impugnando la bandiera della famiglia contro la sinistra che praticamente
voleva distruggere anche quest’ultimo baluardo di civiltà...
Ecco però che la società italiana diede un segno
tangibile di quanto avessero influito le novità culturali
e di costume emerse col ‘68: il 12 maggio 1974 il 59,1% degli italiani rispose no all’abrogazione del divorzio.
Un risultato che sicuramente favorì molto l’approvazione
da parte del Parlamento, un anno dopo, del nuovo diritto
di famiglia, che eliminava norme antiquate e introduceva
finalmente la parità dei coniugi.
Ma la vita politica era già immersa in quel fenomeno che
per anni sconvolse l’esistenza di tutti gli italiani, il terrorismo.
Agli inizi del 1972 un dirigente della Siemens fu protagonista
di un episodio inquietante: alcuni uomini lo incatenarono al cancello
dell’azienda e gli appesero al collo un cartello in cui
veniva qualificato come “dirigente fascista processato
dalle Brigate Rosse”. E in quel periodo in varie fabbriche
di Milano e di Torino cominciarono a circolare volantini in cui
si annunciava che “i proletari hanno preso le armi”
e che “per i padroni è l’inizio della fine”:
tutti portavano la medesima firma, Brigate
Rosse.
Furono in molti a pensare che si trattasse di provocazioni, di
una variante della strategia della tensione per mezzo della quale
avvalorare la tesi degli “opposti estremismi”,
cioè dell’esistenza in Italia di formazioni terroristiche
di estrema destra e di estrema sinistra che, partendo da opposte
posizioni ideologiche, convergevano di fatto nell’obiettivo
di destabilizzare la democrazia. Sull’Unità
e sul Manifesto si attaccarono con estrema durezza le
“sedicenti” B.R., ma che si trattasse veramente
di schegge impazzite della sinistra fu ben presto chiaro a tutti.
Un segnale esplicito in questo senso fu la morte di Giangiacomo Feltrinelli, saltato in aria (1972) mentre cercava
di far esplodere un traliccio dell’alta tensione: l’editore
milanese era da tempo convinto che in Italia ci sarebbe stato
un colpo di stato reazionario e che quindi occorresse prepararsi
adeguatamente per fronteggiare questa evenienza anche sul piano
strettamente militare; si diede quindi a organizzare un nucleo
clandestino, il Gap (Gruppo di azione proletaria: riprendeva
la sigla, che però stava a significare Gruppi di azione
patriottica, delle formazioni partigiane che durante la Resistenza
operavano nei centri urbani). La morte di Feltrinelli suscitò
viva impressione in tutti gli ambienti di sinistra, dove l’editore
era molto stimato, e anche un forte disagio; non per il gruppo
di Potere Operaio, che sul suo giornale rese omaggio al “combattente
rivoluzionario caduto nella lotta”: un’aperta
approvazione della scelta, come qualcuno scrisse, di sostituire
alle “armi della critica” (un’espressione
di Marx) “la critica delle armi”, tant’è
che Potere Operaio si scioglierà l’anno dopo e diversi
suoi aderenti aderiranno in vario modo alla lotta armata. Lotta
Continua, viceversa, s’impegnò apertamente in direzione
contraria, ma le sue posizioni di critica equidistante, riassumibile
nel noto slogan “Né con lo Stato né con
le B.R.”, non furono l’argine contro l’opzione
terroristica che i suoi dirigenti speravano, e al momento dello
scioglimento del gruppo, formalizzato nel ‘76, l’ala
più dura diede vita ai Nuclei Armati Proletari e poi confluì
nelle B.R.
Dopo una serie di azioni puramente dimostrative le B.R. passarono
a un nuovo livello di scontro. All’inizio del ‘74
a Genova fu sequestrato il giudice Mario Sossi e liberato dopo più di un mese: il clamore suscitato fu
il primo grande successo delle B.R. che riuscirono ad imporsi all’attenzione
di tutto il paese, divenendo per un lungo periodo protagonisti
di primo piano della scena politica. Su questo aspetto decisivo
della strategia brigatista sono di enorme interesse non solo le
testimonianze nei processi ma soprattutto i resoconti raccolti
da Sergio Zavoli nella sua serie televisiva La notte della
Repubblica. Alla fase dei colpi sparati per intimidire o
ferire (tra gli altri fu gambizzato il giornalista Indro Montanelli)
seguì quella dell’“attacco al cuore
dello stato”: vennero presi di mira membri
delle forze di polizia, magistrati, giornalisti, uomini politici,
e un’impressionante sequenza di morti segnò quegli
anni: 8 nel 1977, 29 nel ‘78, 22 nel ‘79, 30 nell’80.
Il via era stato dato con l’uccisione a Genova del magistrato
Francesco Coco e dei suoi due agenti di scorta, proprio pochi
giorni prima delle elezioni politiche del giugno ‘76 in
cui si prospettava l’ipotesi del “sorpasso”
del PCI nei confronti della DC.
Malgrado l’insuccesso della sua proposta di compromesso
storico, Berlinguer aveva proseguito con determinazione nella
messa a fuoco di una strategia in grado di sbloccare una situazione
politica pericolosamente stagnante: sul piano internazionale la
rottura con Mosca era di fatto avvenuta, anche se non formalizzata,
avendo da una parte rinunciato alla prosecuzione di qualsiasi
finanziamento (criticabile sul piano politico, ma non illegale,
dato che non vi era ancora la legge che regolava le erogazione
di denaro ai partiti) e dall’altra denunciato i tratti illiberali
dei regimi dell’est e proclamato la necessità di
perseguire una “terza
via” rispetto al socialismo reale e alle socialdemocrazie:
I partiti comunisti europei erano realtà abbastanza modeste,
con l’eccezione di Italia, Francia e Spagna, ed è
a queste due realtà che si rivolse Berlinguer: i contatti
con i segretari del PCF e del PCE, Marchais e Carrillo, sembrarono
in un primo tempo dare ottimi risultati, tanto che per diverso
tempo si parlò di eurocomunismo, inteso come movimento
dei partiti comunisti riformatori contrapposto all’immobilismo
burocratico dei partiti di osservanza sovietica. In seguito, tuttavia,
sia nel PCF che nel PCE prevalsero nuovamente le istanze conservatrici.
Berlinguer addirittura arrivò a dichiarare che tutto sommato
si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della NATO.
Per quanto riguardava la realtà italiana il Segretario
del PCI fu probabilmente il primo a denunciare l’esistenza
di una “questione
morale” che esigeva una radicale trasformazione
dei rapporti, troppo spesso all’ombra della corruzione,
fra amministrazioni pubbliche, aziende, forze politiche. In verità
fu un appello che cadde nel vuoto, come pure non ebbe gran seguito
il richiamo a non restare imprigionati dall’esasperata logica
dei consumi e a ritrovare, di fronte ai gravi problemi economici,
un forte riferimento etico nell’austerità.
Questi sensibili elementi di apertura e di rinnovamento crearono
intorno ai comunisti un nuovo clima di consensi, e nelle elezioni
amministrative del 15 giugno 1975 il PCI aumentò
di oltre 6 punti, arrivando, col 33%, a un passo dal 35% della
DC: il risultato fece sì che le maggiori città italiane
(da Torino a Roma, da Venezia a Napoli, a Firenze, ecc.) avessero
delle giunte “rosse”.
Ancora una volta, però, quella che dovrebbe essere una
normale regola democratica, l’alternanza al governo fra
forze civilmente contrapposte (come infatti è tradizione
consolidata in tutti i paesi europei), venne messa da parte di
fronte all’incombere del “pericolo rosso”: questo,
non a caso, fu il titolo di copertina, con la fotografia di Berlinguer,
di un numero del settimanale americano Time. La DC serrò
le proprie file, riuscì a concentrare su di sé una
buona fetta del voto moderato e nel nuovo Parlamento, eletto a
solo un anno di distanza dal clamoroso risultato delle amministrative,
ottenne addirittura il 38,7%, a fronte di un PCI che comunque
avanzava al 34,4. Ma la gestione del partito da parte di Fanfani
veniva ormai considerata troppo oltranzista, e come Segretario
della DC fu scelto Benigno Zaccagnini, un personaggio
di secondo piano, di riconosciuta onestà, e, soprattutto,
favorevole alla strategia di Moro dell’ avvicinamento al
PCI.
Il PSI, col suo 10%, si trovò di fronte a una scelta particolarmente
ardua: andare a consolidare un’alleanza di sinistra (rispetto
alla quale lo stesso PCI era dubbioso, per le ragioni già
presenti nell’idea del compromesso storico), che a quel
punto poteva contare quasi sul 50% dei voti, oppure mantenersi
autonomo e a utilizzare la propria forza, modesta ma risolutiva,
per continuare ad essere l’ago della bilancia? Nell’estate
del 1976 il Comitato centrale socialista, optando per la seconda
ipotesi, decise di sostituire il vecchio Segretario, Francesco De Martino, con un dirigente dell’ala destra
del partito, Bettino Craxi, che fondò
il proprio programma su una netta divaricazione rispetto alle
scelte del PCI. La sinistra interna, guidata dal suo leader storico,
Riccardo Lombardi, fu neutralizzata e rimase a livello di testimonianza,
tanto prestigiosa quanto politicamente ininfluente, mentre le
altre correnti scomparvero e si ricompattarono intorno al nuovo
Segretario. Rapidamente il partito acquisì nuova vitalità
su due obiettivi di fondo indicati da Craxi: da un lato marcare
la più netta differenziazione dal PCI e puntare a un consistente
riequilbrio dei rapporti di forza nell’ambito della sinistra,
dall’altro spezzare l’egemonia democristiana negli
apparati pubblici e conquistare al loro interno un peso determinante.
Una scelta di ampio respiro, questa della conflittualità
a sinistra e della decisa concorrenzialità al centro, che
non tardò a dare i suoi frutti.
Nel frattempo Moro, che pure aveva respinto l’ipotesi
del compromesso storico, andava portando a conclusione un disegno
strategico non completamente dissimile: anch’egli, come
Berlinguer, era convinto che la situazione politica italiana dovesse
subire un’evoluzione drastica, ma ciò doveva realizzarsi
senza traumi, senza un’esplicita legittimazione del PCI,
che gli elettori moderati non avrebbero capito, ma con un suo
progressivo coinvolgimento nelle scelte della maggioranza e, per
lenti passaggi successivi, nelle vere e proprie responsabilità
di governo.
Il PCI decise di sperimentare questa strada e per la prima volta
non disse no al momento del voto di fiducia (la Costituzione stabilisce
che un nuovo governo per iniziare ad operare deve ottenere l’approvazione,
cioè la fiducia, dai due rami del Parlamento. Poiché
il voto di fiducia viene espresso in forma palese - senza quindi
il pericolo dei “franchi tiratori”, non individuabili
nel voto segreto - il governo può a sua volta chiedere
la fiducia quando ritenga particolarmente importante fare approvare
un certo provvedimento di legge: in questo caso la mancata fiducia
comporta automaticamente le dimissioni) del nuovo governo Andreotti
(agosto 1976), e all’inizio del ‘78, al varo del secondo
governo Andreotti, addirittura votò a favore: entrambi
i governi vennero definiti di “solidarietà
nazionale”, perché nelle grandi scelte politiche
era coinvolto anche il maggior partito di opposizione.
In realtà ben poche furono le questioni di un certo peso
affrontate da questa inedita maggioranza, perché il problema
del terrorismo rimaneva al centro della vita italiana. L’unico
fatto di rilievo fu il primo grave scandalo (in passato ne erano
scoppiati altri, e anche di una certa entità, come quello
dei finanziamenti occulti ai partiti governativi da parte delle
compagnie petrolifere, ma le pressioni sulla magistratura fecero
sempre insabbiare le inchieste) per fatti di corruzione:
i ministri Gui e Rumor, democristiani,
e Tanassi, socialdemocratico, furono accusati
di aver ricevuto tangenti dalla società statunitense Lockheed
in cambio di pressioni per l’acquisto di aerei militari
costruiti da quella compagnia. L’autorizzazione a celebrare
il processo doveva essere concessa dall’apposita Commissione
parlamentare, che diede il via libera per il rinvio a giudizio
di Gui e Tanassi (il primo venne poi assolto, il secondo condannato)
ma che si spaccò su Rumor, uno dei principali esponenti
democristiani: il voto decisivo del presidente della Commissione,
il futuro ultimo Segretario della DC, Martinazzoli,
salvò Rumor.
Nel grigio panorama della stampa italiana si stava intanto preparando
una piccola rivoluzione: Eugenio Scalfari, uno
dei giornalisti dell’Espresso che aveva fatto smascherato
i piani di De Lorenzo, diede vita a un nuovo quotidiano, la Repubblica,
che in pochi anni sarebbe diventato un giornale fra i più
autorevoli e diffusi.
Nel clima terribile degli attentati quotidiani, degli agguati,
delle sparatorie, fu una parentesi quasi gaia il cosiddetto movimento
del ‘77: i fermenti che si erano espressi
nell’attività dei gruppi extraparlamentari non erano
svaniti con la scomparsa dei gruppi in quanto tali, e in una certa
parte del mondo giovanile permaneva una fortissima insofferenza
per istituzioni che parevano ingessate, per partiti sommariamente
giudicati tutti parimenti responsabili di una scuola inutile,
di un lavoro insopportabile, di una vita senza prospettive. Un
ribellismo generico, l’irriverenza a tutti i costi, la piccola
violenza tesa a soddisfare i “bisogni” immediati,
nelle occupazioni universitarie e nei centri sociali autogestiti
avevano sostituito il dogmatismo ideologico di qualche anno prima;
che pure sopravviveva fra i gli Autonomi di Toni Negri
e Oreste Scalzone, i quali considerarono una provocazione di regime
che Luciano Lama, Segretario della CGIL, nel
febbraio ‘77 fosse andato a tenere un discorso all’interno
dell’università di Roma occupata: gli autonomi fischiarono
Lama e lo cacciarono, non più agitando il pugno chiuso
ma levando le dita a simulare una pistola, in quel macabro gesto
di simpatia per la P38 che verrà ripetuto
in tanti cortei.
Il movimento del ‘77 (almeno nella sua componente spontaneista,
perché l’area dell’Autonomia, con le spranghe
e i passamontagna, e spesso anche con le rivoltelle, continuò
ad essere il brodo di coltura del terrorismo organizzato) si esaurì
rapidamente proprio a partire da quella che doveva essere la sua
occasione di rilancio. Alcune riviste del movimento invitarono
un gruppo di intellettuali francesi, autoproclamatisi nouveaux
philosophes, nientemeno, a un convegno sulla repressione
in Italia e come sede scelsero Bologna, città simbolo del
potere del PCI: del dibattito non resta naturalmente alcuna traccia,
ma le migliaia di ragazzi che in quei giorni arrivarono in città
trovarono un’accoglienza degna di un gulag (o di un gulash,
come dice Umberto Bossi): la giunta comunale mise a loro disposizione
sale per riunioni, spazi per le tende, centri di ristoro, e così
via.
Il
16 marzo 1978 la Camera dei Deputati era convocata
per votare sulla fiducia al governo Andreotti quando arrivò
la notizia che Aldo Moro era stato rapito e che
la sua scorta era stata massacrata dalle B.R. Lo sciopero generale
che bloccò immediatamente il paese vide una partecipazione
enorme e non poteva esserci dimostrazione migliore di quanto il
terrorismo fosse isolato: ma non per questo meno pericoloso, perché
il sequestro di Moro, presidente della DC e massimo ispiratore
della svolta politica in corso, colpiva davvero il cuore dello
Stato, e in quel momento era l’atto di guerra più
micidiale che si potesse immaginare. Moro fu ucciso circa due
mesi più tardi, e in tutto il periodo della sua prigionia
ci fu una drammatica discussione fra le forze politiche: si poteva
negoziare con le B.R., che in cambio della liberazione di Moro
chiedevano una sorta di riconoscimento del proprio status politico,
o si doveva rifiutare qualsiasi trattativa, che avrebbe rappresentato
un cedimento della democrazia? Per la prima ipotesi erano i socialisti
e i radicali, per la seconda i comunisti e la DC, che prese tale
decisione dopo un sofferto dibattito interno, e i principali organi
d’informazione appoggiarono quello che venne definito il
“partito della fermezza”. La vita di Moro divenne
così un problema politico, ma, per quanto mostruoso possa
sembrare, non poteva essere diversamente: lo scontro con il terrorismo
era davvero giunto a livelli parossistici, e decidere in un senso
o nell’altro comportava una responsabilità gravissima.
I rapitori e gli assassini di Moro sono poi stati tutti arrestati
e nel corso dei vari processi un aspetto decisivo di questa oscura
vicenda è stato in buona misura chiarito: le B.R. avevano
agito autonomamente, senza appoggi di altre organizzazioni o di
servizi segreti. Ma restano tuttora alcuni inquietanti interrogativi:
posto che a più d’uno (e lo stesso Moro, in una delle
lettere ai familiari, evocò il fantasma di chi, nella stessa
DC, poteva trarre sollievo dalla sua assenza) faceva comodo la
morte di Moro, tra costoro ci fu chi agì per depistare
le indagini e rendere più difficoltoso il ritrovamento
dello statista? Che ruolo specifico (di depistaggio o altro) ebbero
gli uomini della P2 ai vertici degli apparati
di sicurezza? Perché non è stata fatta ancora piena
luce sulla scomparsa e sul recupero dei documenti che Moro aveva
con sé?
Alcuni fra gli stessi dirigenti di primo piano delle B.R. ammisero
più tardi che uccidere Moro fu una sconfitta: umana, per
taluni di loro; politica, perché non riuscirono nel loro
intento, che era quello di vedere in qualche modo legittimato
il loro status di combattenti politici; organizzativa, perché
lo Stato seppe reagire contrattaccando e incalzando i brigatisti
con maggior energia che in passato. Il generale dei carabinieri
Carlo Alberto Dalla Chiesa ricevette l’incarico
di dirigere le operazioni antiterrorismo, e fece prontamente due
scelte che si rivelarono vincenti: attivò nuove forme di
coordinamento fra gli apparati giudiziari e di polizia che a vario
titolo si occupavano di eversione, e puntò a sfruttare
al massimo le possibilità offerte dalle deposizioni degli
arrestati; l’apposita legge sui benefici agli imputati per
terrorismo che collaboravano con la giustizia favorì notevolmente
questa opportunità e i “pentiti” fornirono
informazioni preziose. Le B.R. risposero intensificando la loro
offensiva, e, dal numero di azioni portate a buon fine, per un
certo periodo diedero l’impressione di essere ancora molto
vitali, quando in realtà si trattava della disperata reazione
di chi aveva ormai compreso di essere prossimo alla sconfitta.
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