BREVE STORIA D'ITALIA

 


STRATEGIA DELLA TENSIONE E ANNI DI PIOMBO


Le vicende del ‘68-’69 avevano rimesso in moto una situazione politica che negli anni precedenti aveva teso a stagnare, ma il segnale rappresentato da quegli “operai e studenti uniti nella lotta” (come diceva lo slogan forse più gridato nei cortei di allora) fu recepito con angoscia, si potrebbe dire, da chi non intendeva permettere in alcun modo che la situazione italiana si modificasse.
In realtà non vi erano avvisaglie di manovre autoritarie analoghe a quelle del ‘64, e proprio per questo all’inizio non fu colta in tutta la sua gravità la sequenza di avvenimenti che più tardi venne definita strategia della tensione.
L’Italia è l’unico paese del mondo sviluppato che ha conosciuto nel breve volgere di due decenni tutte le forme di eversione e di terrorismo che i trattati di sociologia annoverano. Tutto è apparentemente cominciato” (G. Cipriani-G. De Lutiis-A. Giannulli, Servizi segreti, suppl. a Avvenimenti, n. 21, 1993, p. 1) il 12 dicembre 1969, a Milano, quando la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, venne distrutta da una bomba ad alto potenziale: i morti furono diciassette e i feriti più di ottanta.
Dopo poche ore il Ministero degli Interni diramò un comunicato in cui si affermava che l’attentato era opera degli anarchici, e in un memorabile servizio del Telegiornale il cronista Bruno Vespa, con insuperabile professionalità, poté annunciare che senza dubbio il responsabile era l’anarchico Pietro Valpreda: il mostro era stato sbattuto in prima pagina, giudicato e condannato; un altro anarchico, Giuseppe Pinelli, arrestato e interrogato in Questura, morì la notte del 15 dicembre, precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi. Lotta Continua lanciò contro di lui una violentissima campagna di stampa, accusandolo apertamente di essere il responsabile di quella morte. Nel 1972 Calabresi sarà ucciso da un commando terrorista e in seguito Adriano Sofri, all'epoca leader del gruppo, sarà condannato all'ergastolo perché ritenuto il mandante dell'omicidio. La versione ufficiale fu che Pinelli, vistosi scoperto, si fosse suicidato, e infatti il questore di Milano annunciò che l’alibi di Pinelli era crollato e che l’anarchico era gravemente implicato nell’attentato. Ma nel 1975 un tribunale accerterà che Pinelli era del tutto estraneo alla strage, e allora ritornano alla mente le parole di una canzone di protesta di allora: “A Milano quella sera era caldo, ma che caldo che caldo faceva, brigadiere apri un po’ la finestra, una spinta e Pinelli va giù”. Valpreda restò in carcere per tre anni, subì vari processi, ma solo nel 1985 sarà scagionato in via definitiva.


Sulla vicenda restano ancora tanti lati oscuri, tuttavia la magistratura, pur non avendo individuato esecutori e mandanti, ha accertato che dietro la strage di piazza Fontana vi era un gruppo fascista appoggiato dai servizi segreti. Una strage di stato: l’inizio di un lungo periodo in cui forze potenti e variamente collegate fra loro (apparati governativi, servizi segreti italiani e americani, organizzazioni fasciste, logge massoniche.
Recentemente Licio Gelli è stato assolto, comunque vale la pena di rammentare che egli divenne Maestro Venerabile della Loggia segreta P2 già nel 1968. ) operarono per creare un clima di tensione e di violenza che potesse giustificare una reazione autoritaria. A questo proposito si è spesso parlato di servizi “deviati”, ma forse il termine non è corretto, nel senso che numerose inchieste giudiziarie hanno ormai appurato che più di una volta i servizi segreti hanno operato in prima persona (tradendo la Patria, come direbbe Scalfaro) per impedire indagini, proteggere ricercati, depistare magistrati, finanziare organizzazioni illegali. Qui se ne darà solo qualche saltuario accenno e non si tenterà nemmeno sommariamente di ricostruire queste trame (nere): il loro intreccio è così complesso e delicato che richiederebbe un libro apposito, che fortunatamente c’è già, ad opera del professor De Lutiis, e che è più inquietante di qualsiasi thriller di fantasia.
Ma ecco il truce bilancio di quegli anni di stragi: 12.12.69: piazza Fontana (16 morti); 22.7.70: treno Reggio C.- Roma (6 morti); 20.10.72: treno sindacale: attentato fallito; 3.5.72: Peteano (3 carabinieri morti); 28.05 74: Brescia (8 morti); 4.10.74: treno Italicus (12 morti); 2.10.80: stazione di Bologna (85 morti); 27.6.80: Ustica (81 morti: qui la ricostruzione di Lucarelli e Paolini)); 23.12.84: treno Firenze-Bologna (15 morti). A questi 226 morti va aggiunto un numero imprecisato ma cospicuo di “suicidi” e “incidenti”.
Nello stesso arco di tempo, a partire dalla stessa notte del 12 dicembre ‘69, innumerevoli furono gli attentati in varie città d’Italia, che, pur non provocando vittime, crearono una situazione di panico permanente.

Circa un anno dopo piazza Fontana, nella notte fra il 7 e l’8 dicembre (ma del fatto si avrà notizia solo qualche mese più tardi) un reparto di uomini armati occupa per alcune ore il Ministero degli Interni: li guida Junio Valerio Borghese, già comandante della famigerata Decima Mas durante la repubblica di Salò. Il tentativo di golpe è destinato al fallimento, perché non dispone né di forze sufficienti né di una preparazione adeguata, però si svolge a pochi giorni di distanza dalla nomina a capo del SID (il Servizio Informazioni Difesa fu costituito nel 1965 in sostituzione del SIFAR, compromesso nelle schedature illegali e nelle trame del gen. De Lorenzo; cambiò il nome ma non la sostanza, tanto che il SID venne sciolto nel 1977 e al suo posto vennero creati due servizi distinti, uno di carattere militare, SISMI, e uno relativo alla sicurezza interna, SISDE) di quel generale Vito Miceli, che sarà poi arrestato tre anni dopo per cospirazione politica. Difficile interpretare in modo chiaro questa, come dire?, contiguità, ma tutta la recente storia italiana è costellata di coincidenze simili.


Questa torbida serie di eventi non riuscì a bloccare il rinnovato sviluppo dell’azione sindacale: dopo anni di divisioni, l’unità fra i lavoratori, faticosamente ricostruita nelle lotte, trovò uno sbocco politico in un accordo fra le Confederazioni, che nel luglio del ‘72 costituirono la Federazione Unitaria CGIL-CISL-UIL; avrebbe dovuto essere la prima tappa verso la creazione di un unico sindacato (come avevano fatto i metalmeccanici con la FLM), ma varie divergenze frenarono il processo, fino a che la radicale diversità di opinioni sulla scala mobile (1984) provocò la rottura della Federazione, sia a livello confederale che di categoria, e addirittura un sensibile arretramento nei rapporti.
In seria difficoltà erano invece le forze politiche di opposizione, timorose sugli sviluppi che le manovre reazionarie potevano avere e incerte rispetto alla concreta possibilità di costruire uno sbocco positivo; e mentre si attestavano su un “dignitoso immobilismo” la DC impostava con prudente determinazione una svolta moderata, prima portando alla Presidenza della Repubblica, coi voti determinanti del MSI, Giovanni Leone e poi ritornando a una formula governativa di centrodestra che sembrava appartenere al passato: nel giugno del ‘72 Giulio Andreotti formò un gabinetto con i liberali e i socialdemocratici, ma la debolezza della coalizione, unitamente al consueto attendismo, non erano certo adeguati a fronteggiare la gravissima congiuntura economica. La svalutazione del dollaro in seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods (in questa cittadina statunitense nel 1944 si tenne una fondamentale conferenza fra tutti i paesi del mondo occidentale, durante la quale venne creato il Fondo Monetario Internazionale e soprattutto vennero stabiliti i complessi principi che avrebbero regolato i rapporti fra le diverse monete: il dollaro, con la sua convertibilità in oro, divenne la moneta di riferimento. Nel 1971, per far fronte a una grave crisi della propria bilancia commerciale, gli USA misero fine a questo regime internazionale) e il considerevole aumento (oltre il 70%) del prezzo del petrolio deciso dall’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), cioè dai paesi produttori, provocò anche in Italia pesanti contraccolpi: il maggior costo delle materie prime si tradusse in aumento dei prezzi dei prodotti, e di conseguenza in una contrazione degli acquisti, e quindi, ancora, in una diminuzione della produzione industriale. Questa spirale perversa, la cosiddetta recessione, causò la chiusura di diverse industrie, ovvero spinse molte imprese a licenziare e a produrre tramite il lavoro a domicilio, oppure con subappalti ad aziende che utilizzavano manodopera sottopagata o che addirittura legalmente non esistevano e quindi lavoravano in “nero”, vale a dire senza una contabilità regolare.
In questo quadro di particolare difficoltà il futuro presentava indubbiamente numerose incognite, e il perdurare di una contrapposizione frontale fra progressisti e moderati poteva avere esiti imprevedibili, se non addirittura tragici. Com’era accaduto, nel settembre 1973, in Cile, dove il governo di sinistra guidato da Salvador Allende, impotente di fronte a una gravissima crisi economica, era stato rovesciato da un sanguinoso golpe militare. La situazione italiana, assai diversa, non era certo così preoccupante, ma alcuni punti di somiglianza vi erano, e proprio partendo da questa considerazione Enrico Berlinguer, eletto l’anno prima Segretario del PCI, formulò la proposta del compromesso storico: le tre grandi componenti della democrazia italiana, i comunisti, i socialisti, i cattolici, dovevano mettere in secondo piano le loro divergenze, perché “la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande ‘compromesso storico’ tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano” (Enrico Berlinguer, Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile)
Si trattò indubbiamente di un’originale intuizione, che tuttavia sopravvalutava la disponibilità della DC a rinunciare alla propria centralità, al ruolo di arbitro indiscusso del destino politico, e soprattutto al controllo pressoché esclusivo della macchina statale; d’altra parte il PSI temeva che in questo accordo avrebbero poi finito per prevalere le due forze maggiori, relegando i socialisti in una posizione subalterna se non del tutto insignificante. La DC trovò un’ottima opportunità per evitare un confronto di merito sui temi proposti da Berlinguer nella campagna antidivorzista: ad appena quattro anni dall’approvazione della legge (primo firmatario il socialista Loris Fortuna), gli ambienti clericali più retrivi avevano raccolto centinaia di migliaia di firme con cui promuovere il referendum abrogativo e Fanfani si impegnò in questa battaglia come fosse una crociata d’altri tempi, impugnando la bandiera della famiglia contro la sinistra che praticamente voleva distruggere anche quest’ultimo baluardo di civiltà... Ecco però che la società italiana diede un segno tangibile di quanto avessero influito le novità culturali e di costume emerse col ‘68: il 12 maggio 1974 il 59,1% degli italiani rispose no all’abrogazione del divorzio. Un risultato che sicuramente favorì molto l’approvazione da parte del Parlamento, un anno dopo, del nuovo diritto di famiglia, che eliminava norme antiquate e introduceva finalmente la parità dei coniugi.

Ma la vita politica era già immersa in quel fenomeno che per anni sconvolse l’esistenza di tutti gli italiani, il terrorismo.
Agli inizi del 1972 un dirigente della Siemens fu protagonista di un episodio inquietante: alcuni uomini lo incatenarono al cancello dell’azienda e gli appesero al collo un cartello in cui veniva qualificato come “dirigente fascista processato dalle Brigate Rosse”. E in quel periodo in varie fabbriche di Milano e di Torino cominciarono a circolare volantini in cui si annunciava che “i proletari hanno preso le armi” e che “per i padroni è l’inizio della fine”: tutti portavano la medesima firma, Brigate Rosse.
Furono in molti a pensare che si trattasse di provocazioni, di una variante della strategia della tensione per mezzo della quale avvalorare la tesi degli “opposti estremismi”, cioè dell’esistenza in Italia di formazioni terroristiche di estrema destra e di estrema sinistra che, partendo da opposte posizioni ideologiche, convergevano di fatto nell’obiettivo di destabilizzare la democrazia. Sull’Unità e sul Manifesto si attaccarono con estrema durezza le “sedicenti” B.R., ma che si trattasse veramente di schegge impazzite della sinistra fu ben presto chiaro a tutti.
Un segnale esplicito in questo senso fu la morte di Giangiacomo Feltrinelli, saltato in aria (1972) mentre cercava di far esplodere un traliccio dell’alta tensione: l’editore milanese era da tempo convinto che in Italia ci sarebbe stato un colpo di stato reazionario e che quindi occorresse prepararsi adeguatamente per fronteggiare questa evenienza anche sul piano strettamente militare; si diede quindi a organizzare un nucleo clandestino, il Gap (Gruppo di azione proletaria: riprendeva la sigla, che però stava a significare Gruppi di azione patriottica, delle formazioni partigiane che durante la Resistenza operavano nei centri urbani). La morte di Feltrinelli suscitò viva impressione in tutti gli ambienti di sinistra, dove l’editore era molto stimato, e anche un forte disagio; non per il gruppo di Potere Operaio, che sul suo giornale rese omaggio al “combattente rivoluzionario caduto nella lotta”: un’aperta approvazione della scelta, come qualcuno scrisse, di sostituire alle “armi della critica” (un’espressione di Marx) “la critica delle armi”, tant’è che Potere Operaio si scioglierà l’anno dopo e diversi suoi aderenti aderiranno in vario modo alla lotta armata. Lotta Continua, viceversa, s’impegnò apertamente in direzione contraria, ma le sue posizioni di critica equidistante, riassumibile nel noto slogan “Né con lo Stato né con le B.R.”, non furono l’argine contro l’opzione terroristica che i suoi dirigenti speravano, e al momento dello scioglimento del gruppo, formalizzato nel ‘76, l’ala più dura diede vita ai Nuclei Armati Proletari e poi confluì nelle B.R.

Dopo una serie di azioni puramente dimostrative le B.R. passarono a un nuovo livello di scontro. All’inizio del ‘74 a Genova fu sequestrato il giudice Mario Sossi e liberato dopo più di un mese: il clamore suscitato fu il primo grande successo delle B.R. che riuscirono ad imporsi all’attenzione di tutto il paese, divenendo per un lungo periodo protagonisti di primo piano della scena politica. Su questo aspetto decisivo della strategia brigatista sono di enorme interesse non solo le testimonianze nei processi ma soprattutto i resoconti raccolti da Sergio Zavoli nella sua serie televisiva La notte della Repubblica. Alla fase dei colpi sparati per intimidire o ferire (tra gli altri fu gambizzato il giornalista Indro Montanelli) seguì quella dell’“attacco al cuore dello stato”: vennero presi di mira membri delle forze di polizia, magistrati, giornalisti, uomini politici, e un’impressionante sequenza di morti segnò quegli anni: 8 nel 1977, 29 nel ‘78, 22 nel ‘79, 30 nell’80.
Il via era stato dato con l’uccisione a Genova del magistrato Francesco Coco e dei suoi due agenti di scorta, proprio pochi giorni prima delle elezioni politiche del giugno ‘76 in cui si prospettava l’ipotesi del “sorpasso” del PCI nei confronti della DC.



Malgrado l’insuccesso della sua proposta di compromesso storico, Berlinguer aveva proseguito con determinazione nella messa a fuoco di una strategia in grado di sbloccare una situazione politica pericolosamente stagnante: sul piano internazionale la rottura con Mosca era di fatto avvenuta, anche se non formalizzata, avendo da una parte rinunciato alla prosecuzione di qualsiasi finanziamento (criticabile sul piano politico, ma non illegale, dato che non vi era ancora la legge che regolava le erogazione di denaro ai partiti) e dall’altra denunciato i tratti illiberali dei regimi dell’est e proclamato la necessità di perseguire una “terza via rispetto al socialismo reale e alle socialdemocrazie:
I partiti comunisti europei erano realtà abbastanza modeste, con l’eccezione di Italia, Francia e Spagna, ed è a queste due realtà che si rivolse Berlinguer: i contatti con i segretari del PCF e del PCE, Marchais e Carrillo, sembrarono in un primo tempo dare ottimi risultati, tanto che per diverso tempo si parlò di eurocomunismo, inteso come movimento dei partiti comunisti riformatori contrapposto all’immobilismo burocratico dei partiti di osservanza sovietica. In seguito, tuttavia, sia nel PCF che nel PCE prevalsero nuovamente le istanze conservatrici.
Berlinguer addirittura arrivò a dichiarare che tutto sommato si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della NATO. Per quanto riguardava la realtà italiana il Segretario del PCI fu probabilmente il primo a denunciare l’esistenza di una “questione morale” che esigeva una radicale trasformazione dei rapporti, troppo spesso all’ombra della corruzione, fra amministrazioni pubbliche, aziende, forze politiche. In verità fu un appello che cadde nel vuoto, come pure non ebbe gran seguito il richiamo a non restare imprigionati dall’esasperata logica dei consumi e a ritrovare, di fronte ai gravi problemi economici, un forte riferimento etico nell’austerità. Questi sensibili elementi di apertura e di rinnovamento crearono intorno ai comunisti un nuovo clima di consensi, e nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975 il PCI aumentò di oltre 6 punti, arrivando, col 33%, a un passo dal 35% della DC: il risultato fece sì che le maggiori città italiane (da Torino a Roma, da Venezia a Napoli, a Firenze, ecc.) avessero delle giunte “rosse”.
Ancora una volta, però, quella che dovrebbe essere una normale regola democratica, l’alternanza al governo fra forze civilmente contrapposte (come infatti è tradizione consolidata in tutti i paesi europei), venne messa da parte di fronte all’incombere del “pericolo rosso”: questo, non a caso, fu il titolo di copertina, con la fotografia di Berlinguer, di un numero del settimanale americano Time. La DC serrò le proprie file, riuscì a concentrare su di sé una buona fetta del voto moderato e nel nuovo Parlamento, eletto a solo un anno di distanza dal clamoroso risultato delle amministrative, ottenne addirittura il 38,7%, a fronte di un PCI che comunque avanzava al 34,4. Ma la gestione del partito da parte di Fanfani veniva ormai considerata troppo oltranzista, e come Segretario della DC fu scelto Benigno Zaccagnini, un personaggio di secondo piano, di riconosciuta onestà, e, soprattutto, favorevole alla strategia di Moro dell’ avvicinamento al PCI.
Il PSI, col suo 10%, si trovò di fronte a una scelta particolarmente ardua: andare a consolidare un’alleanza di sinistra (rispetto alla quale lo stesso PCI era dubbioso, per le ragioni già presenti nell’idea del compromesso storico), che a quel punto poteva contare quasi sul 50% dei voti, oppure mantenersi autonomo e a utilizzare la propria forza, modesta ma risolutiva, per continuare ad essere l’ago della bilancia? Nell’estate del 1976 il Comitato centrale socialista, optando per la seconda ipotesi, decise di sostituire il vecchio Segretario, Francesco De Martino, con un dirigente dell’ala destra del partito, Bettino Craxi, che fondò il proprio programma su una netta divaricazione rispetto alle scelte del PCI. La sinistra interna, guidata dal suo leader storico, Riccardo Lombardi, fu neutralizzata e rimase a livello di testimonianza, tanto prestigiosa quanto politicamente ininfluente, mentre le altre correnti scomparvero e si ricompattarono intorno al nuovo Segretario. Rapidamente il partito acquisì nuova vitalità su due obiettivi di fondo indicati da Craxi: da un lato marcare la più netta differenziazione dal PCI e puntare a un consistente riequilbrio dei rapporti di forza nell’ambito della sinistra, dall’altro spezzare l’egemonia democristiana negli apparati pubblici e conquistare al loro interno un peso determinante. Una scelta di ampio respiro, questa della conflittualità a sinistra e della decisa concorrenzialità al centro, che non tardò a dare i suoi frutti.
Nel frattempo Moro, che pure aveva respinto l’ipotesi del compromesso storico, andava portando a conclusione un disegno strategico non completamente dissimile: anch’egli, come Berlinguer, era convinto che la situazione politica italiana dovesse subire un’evoluzione drastica, ma ciò doveva realizzarsi senza traumi, senza un’esplicita legittimazione del PCI, che gli elettori moderati non avrebbero capito, ma con un suo progressivo coinvolgimento nelle scelte della maggioranza e, per lenti passaggi successivi, nelle vere e proprie responsabilità di governo.
Il PCI decise di sperimentare questa strada e per la prima volta non disse no al momento del voto di fiducia (la Costituzione stabilisce che un nuovo governo per iniziare ad operare deve ottenere l’approvazione, cioè la fiducia, dai due rami del Parlamento. Poiché il voto di fiducia viene espresso in forma palese - senza quindi il pericolo dei “franchi tiratori”, non individuabili nel voto segreto - il governo può a sua volta chiedere la fiducia quando ritenga particolarmente importante fare approvare un certo provvedimento di legge: in questo caso la mancata fiducia comporta automaticamente le dimissioni) del nuovo governo Andreotti (agosto 1976), e all’inizio del ‘78, al varo del secondo governo Andreotti, addirittura votò a favore: entrambi i governi vennero definiti di “solidarietà nazionale”, perché nelle grandi scelte politiche era coinvolto anche il maggior partito di opposizione.

In realtà ben poche furono le questioni di un certo peso affrontate da questa inedita maggioranza, perché il problema del terrorismo rimaneva al centro della vita italiana. L’unico fatto di rilievo fu il primo grave scandalo (in passato ne erano scoppiati altri, e anche di una certa entità, come quello dei finanziamenti occulti ai partiti governativi da parte delle compagnie petrolifere, ma le pressioni sulla magistratura fecero sempre insabbiare le inchieste) per fatti di corruzione: i ministri Gui e Rumor, democristiani, e Tanassi, socialdemocratico, furono accusati di aver ricevuto tangenti dalla società statunitense Lockheed in cambio di pressioni per l’acquisto di aerei militari costruiti da quella compagnia. L’autorizzazione a celebrare il processo doveva essere concessa dall’apposita Commissione parlamentare, che diede il via libera per il rinvio a giudizio di Gui e Tanassi (il primo venne poi assolto, il secondo condannato) ma che si spaccò su Rumor, uno dei principali esponenti democristiani: il voto decisivo del presidente della Commissione, il futuro ultimo Segretario della DC, Martinazzoli, salvò Rumor.
Nel grigio panorama della stampa italiana si stava intanto preparando una piccola rivoluzione: Eugenio Scalfari, uno dei giornalisti dell’Espresso che aveva fatto smascherato i piani di De Lorenzo, diede vita a un nuovo quotidiano, la Repubblica, che in pochi anni sarebbe diventato un giornale fra i più autorevoli e diffusi.
Nel clima terribile degli attentati quotidiani, degli agguati, delle sparatorie, fu una parentesi quasi gaia il cosiddetto movimento del ‘77: i fermenti che si erano espressi nell’attività dei gruppi extraparlamentari non erano svaniti con la scomparsa dei gruppi in quanto tali, e in una certa parte del mondo giovanile permaneva una fortissima insofferenza per istituzioni che parevano ingessate, per partiti sommariamente giudicati tutti parimenti responsabili di una scuola inutile, di un lavoro insopportabile, di una vita senza prospettive. Un ribellismo generico, l’irriverenza a tutti i costi, la piccola violenza tesa a soddisfare i “bisogni” immediati, nelle occupazioni universitarie e nei centri sociali autogestiti avevano sostituito il dogmatismo ideologico di qualche anno prima; che pure sopravviveva fra i gli Autonomi di Toni Negri e Oreste Scalzone, i quali considerarono una provocazione di regime che Luciano Lama, Segretario della CGIL, nel febbraio ‘77 fosse andato a tenere un discorso all’interno dell’università di Roma occupata: gli autonomi fischiarono Lama e lo cacciarono, non più agitando il pugno chiuso ma levando le dita a simulare una pistola, in quel macabro gesto di simpatia per la P38 che verrà ripetuto in tanti cortei.
Il movimento del ‘77 (almeno nella sua componente spontaneista, perché l’area dell’Autonomia, con le spranghe e i passamontagna, e spesso anche con le rivoltelle, continuò ad essere il brodo di coltura del terrorismo organizzato) si esaurì rapidamente proprio a partire da quella che doveva essere la sua occasione di rilancio. Alcune riviste del movimento invitarono un gruppo di intellettuali francesi, autoproclamatisi nouveaux philosophes, nientemeno, a un convegno sulla repressione in Italia e come sede scelsero Bologna, città simbolo del potere del PCI: del dibattito non resta naturalmente alcuna traccia, ma le migliaia di ragazzi che in quei giorni arrivarono in città trovarono un’accoglienza degna di un gulag (o di un gulash, come dice Umberto Bossi): la giunta comunale mise a loro disposizione sale per riunioni, spazi per le tende, centri di ristoro, e così via.


Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati era convocata per votare sulla fiducia al governo Andreotti quando arrivò la notizia che Aldo Moro era stato rapito e che la sua scorta era stata massacrata dalle B.R. Lo sciopero generale che bloccò immediatamente il paese vide una partecipazione enorme e non poteva esserci dimostrazione migliore di quanto il terrorismo fosse isolato: ma non per questo meno pericoloso, perché il sequestro di Moro, presidente della DC e massimo ispiratore della svolta politica in corso, colpiva davvero il cuore dello Stato, e in quel momento era l’atto di guerra più micidiale che si potesse immaginare. Moro fu ucciso circa due mesi più tardi, e in tutto il periodo della sua prigionia ci fu una drammatica discussione fra le forze politiche: si poteva negoziare con le B.R., che in cambio della liberazione di Moro chiedevano una sorta di riconoscimento del proprio status politico, o si doveva rifiutare qualsiasi trattativa, che avrebbe rappresentato un cedimento della democrazia? Per la prima ipotesi erano i socialisti e i radicali, per la seconda i comunisti e la DC, che prese tale decisione dopo un sofferto dibattito interno, e i principali organi d’informazione appoggiarono quello che venne definito il “partito della fermezza”. La vita di Moro divenne così un problema politico, ma, per quanto mostruoso possa sembrare, non poteva essere diversamente: lo scontro con il terrorismo era davvero giunto a livelli parossistici, e decidere in un senso o nell’altro comportava una responsabilità gravissima.
I rapitori e gli assassini di Moro sono poi stati tutti arrestati e nel corso dei vari processi un aspetto decisivo di questa oscura vicenda è stato in buona misura chiarito: le B.R. avevano agito autonomamente, senza appoggi di altre organizzazioni o di servizi segreti. Ma restano tuttora alcuni inquietanti interrogativi: posto che a più d’uno (e lo stesso Moro, in una delle lettere ai familiari, evocò il fantasma di chi, nella stessa DC, poteva trarre sollievo dalla sua assenza) faceva comodo la morte di Moro, tra costoro ci fu chi agì per depistare le indagini e rendere più difficoltoso il ritrovamento dello statista? Che ruolo specifico (di depistaggio o altro) ebbero gli uomini della P2 ai vertici degli apparati di sicurezza? Perché non è stata fatta ancora piena luce sulla scomparsa e sul recupero dei documenti che Moro aveva con sé?
Alcuni fra gli stessi dirigenti di primo piano delle B.R. ammisero più tardi che uccidere Moro fu una sconfitta: umana, per taluni di loro; politica, perché non riuscirono nel loro intento, che era quello di vedere in qualche modo legittimato il loro status di combattenti politici; organizzativa, perché lo Stato seppe reagire contrattaccando e incalzando i brigatisti con maggior energia che in passato. Il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ricevette l’incarico di dirigere le operazioni antiterrorismo, e fece prontamente due scelte che si rivelarono vincenti: attivò nuove forme di coordinamento fra gli apparati giudiziari e di polizia che a vario titolo si occupavano di eversione, e puntò a sfruttare al massimo le possibilità offerte dalle deposizioni degli arrestati; l’apposita legge sui benefici agli imputati per terrorismo che collaboravano con la giustizia favorì notevolmente questa opportunità e i “pentiti” fornirono informazioni preziose. Le B.R. risposero intensificando la loro offensiva, e, dal numero di azioni portate a buon fine, per un certo periodo diedero l’impressione di essere ancora molto vitali, quando in realtà si trattava della disperata reazione di chi aveva ormai compreso di essere prossimo alla sconfitta.