Piazza Fontana

Il 12 dicembre 1969 una bomba fu fatta esplodere nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana nel centro di Milano, provocando la morte di sedici persone ed il ferimento di altre ottantotto.

Il periodo è quello della contestazione studentesca e dell'autunno caldo sindacale: tra il 1968 e il 1969 ci saranno 140 attentati, quasi tutti compiuti da estremisti di destra. Quello di Piazza Fontana è il più grave e verrà ricordato come uno dei peggiori eventi della storia italiana.

Il commissario Luigi Calabresi, dirigente dell'Ufficio Politico della Questura, subentra nelle indagini ad un collega che stava seguendo la pista degli estremisti di destra: con grande tempestività vengono indicati come colpevoli gli anarchici del circolo 22 marzo (e il giovane ma già ineffabile Bruno Vespa si affretterà ad annunciare trionfante il nome del mostro). Gli anarchici non avevano (per la loro stessa natura politica) un'organizzazione ben strutturata e quindi era piuttosto facile prenderli come capro espiatorio.

Dopo che la pista anarchica si rivelerà del tutto inattendibile, le indagini e i 6 processi che si susseguiranno nel corso degli anni vedranno sempre al centro esponenti del neofascismo e dei servizi segreti. Dopo oltre 35 anni non è ancora stato condannato definitivamente nessuno per la strage. Delfo Zorzi, l'esecutore materiale della strage (per sua stessa ammissione), vive in Giappone, ed essendone diventato cittadino non è soggetto all'estradizione.
E i mandanti?

Negli anni a venire, tantissime manifestazioni si svolgeranno in ricordo di piazza Fontana e di Giuseppe Pinelli, l'anarchico morto in circostanze "misteriose" tre giorni dopo la strage, durante un interrogatorio di polizia.

schede

12 dicembre 1969 - Nel tardo pomeriggio, nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, esplode una bomba composta da circa sette chili di tritolo che provocherà la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Si segue da subito la pista anarchica.
15 dicembre 1969 - Il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, arrestato subito dopo la strage, e da tre giorni interrogato in questura, muore precipitando dalla finestra di un ufficio al terzo piano. La polizia dice che si è trattato di un suicidio, ma comunque le persone presenti nella stanza vengono indagate per omicidio colposo.
16 dicembre 1969 - Viene arrestato l'anarchico Pietro Valpreda, accusato (in base alla testimonianza di un tassista), di essere l'autore materiale della strage. Con lui viene arrestato anche Mario Merlino, che si rivelerà essere un neofascista infiltrato dai servizi segreti nel gruppo anarchico 22 marzo. La provenienza delle borse usate per contenere l'esplosivo e del timer apre però una nuova pista che porterà dopo più di un anno all'arresto di due esponenti del gruppo neonazista Ordine Nuovo: Franco Freda e Giovanni Ventura. Si apre la pista nera.
giugno 1970: Lotta Continua pubblica La strage di stato, una controinchiesta su quanto accaduto nei mesi precedenti.
23 febbraio 1972 - Si apre a Roma il primo processo per la strage, con imputati Valpreda e Merlino. Il processo verrà trasferito prima a Milano (incompetenza territoriale) e poi a Catanzaro (motivi di ordine pubblico).
3 marzo 1972 - Freda e Ventura vengono arrestati assieme a Pino Rauti (il fondatore di Ordine Nuovo). Le indagini, affidate ai giudici Gerardo D'Ambosio ed Emilio Alessandrini, inizieranno ad evidenziare i legami tra estremismo di destra e servizi segreti.
17 maggio 1972 - A Milano, in via Cherubini, attorno alle 9.15 viene ucciso con due colpi di pistola sparati uno alla nuca e l'altro alla schiena, il commissario di polizia Luigi Calabresi, funzionario dell'ufficio politico della questura.
29 dicembre 1972 - Viene rimesso in libertà Valpreda.
18 marzo 1974 - A Catanzaro riprende il processo, ma viene nuovamente interrotto a causa della comparsa di due nuovi imputati: Freda e Ventura.
27 gennaio 1975 - Riprende il processo, tra gli imputati ci sono sia anarchici che neofascisti. Anche questa volta il processo vene interrotto per la comparsa di un nuovo imputato: Guido Giannettini.
18 gennaio 1977 - Al processo vengono imputati anche membri del SID. Prima sentenza: Freda, Ventura e Giannettini vengono condannati all'ergastolo, vengono invece assolti Valpreda e Merlino. I condannati verranno poi assolti in appello, ma la Cassazione annullerà la sentenza e ordinerà l'apertura di un nuovo processo.
13 dicembre 1984 - A Catanzaro inizia il quinto processo. Tutti gli imputati (Valpreda, Merlino, Freda e Ventura), vengono assolti. La sentenza verrà confermata in Cassazione.
26 ottobre 1987 - Sesto processo, sempre a Catanzaro, gli imputati sono i neofascisti Massimiliano Fachini e Stefano Delle Chiaie. Verranno assolti il 20 febbraio 1989.
1990 - Le indagini subiscono una svolta decisiva. Delfo Zorzi ammette di essere l'esecutore materiale della strage. Zorzi fuggì in Giappone subito dopo la strage e vi risiede ancora oggi. Nonostante le richieste del governo Italiano, la controparte giapponese si rifiuta di estradarlo in quanto Zorzi è oggi cittadino giapponese.
30 giugno 2001 - Sono condannati all'ergastolo Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni, tutti neonazisti veneti.
La Cassazione chiude definitivamente il caso, confermando quest'ultima sentenza perché le prove non sono riuscite a dimostrare "oltre ogni ragionevole dubbio" la colpevolezza degli imputati. Però i giudici del Supremo collegio attribuiscono al neo-fascismo la responsabilità della strage, per quanto non siano oramai accertabili gli esecutori.

12 marzo 2004 - La Corte d'assise d'appello di Milano assolve Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, i tre imputati principali della strage, per non aver commesso il fatto. Riducono invece da tre a un anno di reclusione la pena per Stefano Tringali, accusato di favoreggiamento.
21 aprile 2005 - Approda di nuovo in Cassazione la vicenda giudiziaria. La Suprema Corte deve esaminare il ricorso presentato dalla Procura generale milanese contro l'assoluzione disposta dalla Corte d'assise d'appello.
3 maggio 2005 - L'ennesimo processo sulla strage si chiude con l'assoluzione degli imputati e l'obbligo, da parte dei parenti delle vittime, del pagamento delle spesse processuali. Quest'ultima decisione, pur se dettata dalla legge, viene duramente criticata anche da figure istituzionali, che parlano di "beffa" per i parenti delle vittime.

I processi, dunque, sono stati tanti, troppi, e non si è riusciti a trovare un equilibrio definitivo tra verità storica (le stragi sono state compiute dai neofascisti appoggiati dai servizi segreti italiani e statunitensi, con dirette responsabilità politiche dei partiti di governo, DC in primo luogo) e verità giudiziaria.
Fra parentesi: i governi dell'Ulivo non hanno mosso un dito per contribuire a far definitiva luce su questo e gli altri misteri: certo, le competenze di un governo sono ben diverse da quelle della magistratura, ma...
Il 12 dicembre 2009 il Presidente della Repubblica ha esortato a "continuare a cercare la verità": benissimo, ma Giorgio Napolitano nel 1996 è stato chiamato da Prodi a ricoprire la carica di Ministro degli Interni (posto dal quale si è ben guardato dal dimettersi quando Licio Gelli, nel '98, in procinto di essere nuovamente condannato è fuggito all'estero): che cos'ha fatto rispetto a piazza Fontana, a piazza della Loggia, ai mille segreti di stato? Assolutamente nulla.


 

Giovanni Maria Bellu

Strage di Piazza Fontana: spunta un agente USA

Chiusa l'inchiesta sull'eversione nera a cavallo degli anni Sessanta e Settanta

Nella sentenza-ordinanza del giudice Salvini ricostruita la "Strategia della tensione" *

Era considerata la fantasia più folle dei dietrologi. C'era chi ci rideva sopra, negli anni '70: sembrava impossibile che il servizio segreto di un paese alleato, potesse essere dietro le stragi. Da qualche iorno quell'ipotesi è contenuta in un atto giudiziario: David Carret, ufficiale della U.S. Navy, uomo della Cia in Italia, è sotto inchiesta a Milano per spionaggio politico militare, concorso nella strage di piazza Fontana (Milano, dicembre 1969) e in altri attentati avvenuti in quegli anni.

È stato il giudice istruttore Guido Salvini a decidere di inviare i documenti relativi a Carret alla collega Grazia Pradella, titolare dell'inchiesta sulla strage di Milano. L'ha fatto a conclusione della sua inchiesta sull' eversione nera. Un lavoro monumentale, cominciato nel luglio del 1988, che ha prodotto 92 faldoni, 60.000 pagine di documenti e si è sviluppato in 463 interrogatori.

In questi dieci anni, il giudice Salvini ha riscritto alcune delle parti più oscure della nostra storia del dopoguerra. Non solo in chiave colpevolista: dagli accertamenti (e la loro organizzazione ieri l'ha sottolineato) emergono tra l'altro elementi a favore della tesi della "legittimità" della rete Gladio. Purtroppo la prescrizione di molti reati non rende giustizia al lavoro svolto dal magistrato. Hanno resistito all'usura del tempo solo i reati più gravi, e lo spionaggio politico-militare è uno di questi. Salvini ha così rinviato a giudizio il responsabile italiano della rete informativa Nato-Usa, Sergio Minetto, e l'agente pentito Carlo Digilio. Con loro, sono chiamati a comparire dinanzi ai giudici anche due nomi storici dell'eversione nera: Yves Guerin Serac e Stefano Delle Chiaie.

Dal lavoro del giudice Salvini, dai riscontri incrociati a ciascuna dichiarazione dei pentiti, emerge che le organizzazioni eversive di quegli anni - La Fenice, Avanguardia nazionale, Ordine nuovo - non erano che le truppe di trincea d'un esercito occulto, teleguidato da esponenti degli apparati dello Stato e legato alla Cia.

In questo scenario, la strage di piazza Fontana diventa qualcosa di più di un attentato terroristico. Dice uno dei testimoni più autorevoli di questa storia, Vincenzo Vinciguerra: "La strage del dicembre '69 doveva essere il detonatore che avrebbe consentito a determinate autorità politiche e militari la proclamazione dello Stato d'emergenza". Il piano non riuscì: l'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor, contrariamente a quanto i neofascisti e i loro alleati si attendevano, dopo la strage di piazza Fontana non proclamò lo "stato d'emergenza", atto essenziale per l'instaurazione di un regime autoritario. E si decise di fargliela pagare. L'occasione fu offerta, il 17 maggio del 1973, da una sua visita alla questura di Milano. Gianfranco Bertoli (sedicente anarchico, ma legato ai Servizi e ai fascisti) lanciò una bomba tra la folla. Rumor non ebbe conseguenze, ma morirono quattro persone.

Ed ecco quanto ha raccontato il pentito Digilio a proposito dei giorni precedenti l'attentato alla questura: "...Il capitano Carret si mostrò preoccupatissimo, e disse che poteva finire male. Aggiunse che se fosse stata effettivamente colpita una così alta personalità dello Stato, le indagini sarebbero state molto approfondite con il rischio di mettere allo scoperto l'intera struttura e di venire a sapere tutto quello che era avvenuto, anche in passato, compresi gli attentati e il progetto di golpe degli anni 1969-1979". Ma i Servizi americani non solo "sapevano": agivano. Ancora Digilio sulla strage di piazza Fontana e il golpe: "In seguito il capitano Carret mi confermò che quello era stato il progetto ben visto anche dagli americani, e che era fallito per i tentennamenti di alcuni democristiani come Rumor".

Archeologia giudiziaria? Una storia vecchia? Il dubbio viene. Anche leggendo - all'inizio della sentenza-ordinanza - i rilievi polemici del giudice Salvini sullo "scarsissimo" sostegno avuto in questi anni dal tribunale di Milano. Ma questo stesso dubbio cade quando si scopre che in tempi molto recenti (nel 1995) il fiduciario della Cia a Milano, Carlo Rocchi, è stato sorpreso mentre era impegnato a raccogliere notizie sull'inchiesta. Un'inchiesta che faceva, e fa ancora, paura. Al punto che gli eredi degli stragisti di ieri pensavano di far fuori il capitano del Ros Massimo Giraudo, uno dei principali collaboratori del giudice milanese.

(la Repubblica, 11 febbraio 1998)

* nel sito di Repubblica è reperibile il testo integrale

Nando Dalla Chiesa

Piazza Fontana: il tempo della vergogna

Piazza Fontana tutti a casa? Per ora sappiamo solo che l’accusa ha chiesto l’assoluzione. Ossia che il sostituto procuratore generale presso la Cassazione, Enrico Delehaye, ha chiesto di confermare le assoluzioni del processo d’appello, le quali avevano annullato a loro volta le condanne inflitte in primo grado (quelle «scritte con l’inchiostro rosso», come aveva elegantemente chiosato l’avvocato onorevole Carlo Taormina). Sappiamo anche che l’avvocato dello Stato, in rappresentanza del ministero dell’Interno, ha chiesto invece il contrario: ossia di annullare le assoluzioni che avevano annullato le condanne.
Vi state forse già confondendo con questo intreccio di condanne, assoluzioni e annullamenti? E allora toglietevi dalla testa di potere mai parlare di Piazza Fontana. Di poterne capire la storia. E tanto meno di poterla raccontare un giorno a vostro figlio o a vostro nipote.
Perché Piazza Fontana è stato il più grandioso laboratorio di impunità giudiziaria mai concepito in democrazia. È stata la sperimentazione grandiosa di un modello, di un labirinto paranoico che ha allineato decine e decine di magistrati, una infinita batteria di leggi e di cavilli, di istituti giuridici e di azzardi dottrinari, e centinaia tra politici, poliziotti, agenti segreti, provocatori. È stato un carosello instancabile di ricorsi e di obiezioni, di prove eclatanti e depistaggi. Un museo degli orrori illuminato ogni tanto da qualche lampo di onestà e perfino di eroismo. Il tutto architettato, si badi, non da una mente sola; ma da un concerto spontaneo di menti sintonizzate su lunghezze d’onda diverse ma magnificamente compatibili. E tenute insieme, nel loro nucleo storico, da una complicità più forte del cemento armato. Perché ci sono di mezzo i morti. E con loro si può scherzare quando si tratta di metterli in programma. Non quando si tratta di risponderne. Trentacinque anni di menti compatibili, ormai. Una volta dicevamo sbigottiti quindici anni. E poi, sempre più scandalizzati, venti e trenta. Poiché gli anni della strage crescono come quelli dei vivi, quasi aggiungendo a ogni assoluzione, a ogni avocazione, a ogni annullamento, una beffarda candelina sulla torta della memoria.
Trentacinque anni che nella loro successione di svolte e di giudizi farebbero impazzire qualunque studioso e forse hanno fatto anche impazzire qualche avvocato portandolo, all’interno della stessa vicenda, a saltare il fosso. E che fosso: a difendere non più le vittime ma gli imputati. È cambiata l’Italia in questi anni. Tivù in bianco e nero e tivù a colori. Grandi fabbriche in città e terziario al silicio. Europa a sei ed Europa a venticinque, con dentro il crollo del Muro. Rumor e Berlusconi. E Piazza Fontana sempre lì, che arranca inseguendo un nuovo processo dietro l’altro. E generazioni di giudici che si danno ossessivamente il cambio. È mutato tutto anche nella antropologia, nella fisiognomica dei tribunali. Dai colli taurini dei funzionari e magistrati allevati nel ventennio, irrimediabilmente anziani a cinquant’anni, al volto adolescenziale del giudice Salvini. C’è un’intera umanità che si affastella nel tempo intorno a Piazza Fontana, ognuno con la sua funzione. Gente che nasce e sparisce con il processo, almeno nel suo pubblico ruolo. E gente che attraversa la storia del Paese ma da Piazza Fontana per una ragione o l’altra ci passa, lasciandovi il segno della propria identità. Restivo e Taviani, Andreotti e Cossiga, D’Ambrosio e Alessandrini, Calabresi e Pinelli, Pecorella e Taormina, Maletti e Miceli, Rauti e Zorzi, Valpreda e Giannettini, Freda e Ventura, Rumor e Henke. Un’immensa foto di gruppo. Nomi che parlano solo al passato e nomi che parlano anche al presente. Con tante biografie di inquisiti finite in parlamento. E con richieste di autorizzazione a procedere negate dal parlamento medesimo.
C’è forse un solo modo per raccapezzarsi in questa storia infinita e per dare un nome e un volto all’impunità. Ed è di contare le stanze in cui potremmo immaginare di volta in volta di stipare gli imputati dei singoli turni. Stanza numero uno, quella con dentro gli imputati del primo processo di primo grado. Stanza numero due, appello del primo processo, fuori questi e dentro quegli altri. Stanza numero tre, stanza numero quattro, stanza numero cinque. E così via. E ogni volta i nomi degli imputati che diventano “quelli giusti”. Perché i giudici o i pubblici ministeri della volta precedente in fondo non sono stati bravi. Hanno sbagliato qua e hanno sbagliato là. Non c’è mai un’assoluzione totale, per Piazza Fontana. Così vedremmo anche, ogni volta, chi assolve, chi non capisce bene, chi trova il cavillo per riazzerare tutto. Con il tempo che si allontana e i testimoni che non ci sono più, muoiono anche quelli, che ci volete fare. Forse, anzi, qualcuno è stato eliminato già all’epoca, qualcuno un po’ testimone un po’ imputato è latitante ed è stato fatto evadere. Sicché il processo si arrotola sempre di più sulle carte dei faldoni, vi si sbrodola, e basta un po’ di carta assorbente dell’ultimo giudice per chiuderlo, per asciugare definitivamente l’inchiostro, rosso o nero che sia.
Ma almeno una cosa l’ha insegnata, questo processo che può diventare laboratorio anche per noi. Se sistema accusatorio deve esserci anche in Italia, se davvero - adottando questo sistema - abbiamo voluto adeguarci a civiltà giuridiche superiori, prendiamo atto che laddove esso esiste seriamente il processo si chiude di norma al primo grado. Lungo quanto è necessario; ma interamente fatto, come ha ricordato giustamente Gerardo D’Ambrosio, con le persone in carne e ossa davanti ai giudici e nella freschezza della memoria; non, come avviene dopo il primo grado, solo con le ridde di carta ingiallita, con i cumuli di timbri e firme, con verbali afoni e senza la possibilità di portare l’occhio o l’orecchio dove l’intelligenza e lo scrupolo vorrebbero.
Perché Piazza Fontana è certo un macigno sulla classe politica che la amministrò, su quella sua specialissima idea che la democrazia valga - in fondo - un po’ di crimine, che i mezzi non corrompano mai il fine. Ma è anche un macigno sul celebre diritto della “patria di Verri e Beccaria”, sul suo concepirsi come una tela di Penelope che si fa e si disfa all’infinito. Come una macchina poderosa e costosissima che, tra emozioni, speranze, dolori e certezze, produce sabbia e nuova sabbia ancora. Sempre materia che serve ad asciugare.