BREVE STORIA D'ITALIA

 

L’INDIMENTICABILE ‘56

A Pietro Nenni, il più popolare e importante dirigente socialista del dopoguerra, vengono assegnate due grandi responsabilità (variamente giudicate, a seconda dei punti di vista): aver mantenuto il partito alleato del PCI negli anni dell’immediato dopoguerra e aver rotto coi comunisti nel 1956, per poi collaborare con la DC nei primi anni ‘60.
Nenni criticò vivacemente Togliatti all’epoca della votazione sull’articolo 7 della Costituzione, ma fu uno dei pochi che capì fino in fondo le motivazioni, che pure non condivideva, del leader comunista: ragioni che si rifacevano a una strategia di lungo periodo, in cui il PCI doveva essere il motore del cambiamento dell’Italia. Qualcuno ha sostenuto che Nenni fosse subalterno a Togliatti, ma il vecchio socialista romagnolo esprimeva la sua vivacissima intelligenza con una ruvidezza contadina ben diversa dal raffinato traduttore di Voltaire che amava citare i classici latini nei suoi interventi alla Camera. Il fatto è che Nenni, pur senza rinunciare in alcun modo alle proprie radici e alla propria formazione, era ben consapevole di come il PCI avesse costruito il proprio radicamento nella società in virtù di un legame profondo fra analisi concettuale e lavoro militante: questo rapporto speciale fra teoria e prassi (per usare la terminologia marxiana) non faceva parte del pur ricco patrimonio politico del PSI, né lo si poteva improvvisare, di qui una certa mancanza di originalità nell’elaborazione e la minore forza di attrazione ideale dei socialisti, che si trovarono a esercitare un ruolo secondario nell’alleanza di sinistra.
Il vincolo che unì il PSI all’URSS non fu strettamente di tipo ideologico - come accadde per il PCI fino ai primi anni ‘60 - ma proprio per questo, paradossalmente, quasi più saldo e acritico. Nenni motivò questa posizione con un ragionamento che oggi può risultare difficilmente comprensibile ma che allora era per molti versi ineccepibile: col mondo rigidamente diviso in due blocchi, la lotta politica non poteva esprimersi in forme di neutralità, ma comportava necessariamente una scelta di campo senza riserve: l’URSS era il paese della prima rivoluzione socialista, e in quanto tale era necessariamente il punto di riferimento per le forze che in tutto il mondo si battevano contro il capitalismo.
Lelio Basso (a lui si deve la diffusione in Italia delle opere di Rosa Luxemburg, fondatrice del Partito Comunista Tedesco e assassinata nel 1919 dalla polizia, che teorizzò un modello di partito rivoluzionario nettamente diverso da quello costruito da Lenin), uno dei pochi teorici socialisti di spicco, assunse l’incarico di Segretario del PSI nel 1948, ma fu presto emarginato, soprattutto per la posizione decisamente critica nei confronti dei sovietici; la sua posizione, tuttavia, condivisa da altri intellettuali come Norberto Bobbio e Rodolfo Morandi, prese lentamente piede nel partito, fino a portare all’aperta rottura nel ‘56.

Alla morte di Stalin (1953), in tutto il mondo la sinistra (con poche eccezioni, occorre dire: tra queste, ovviamente, i seguaci della IV Internazionale fondata da Trockij, il nemico acerrimo che Stalin aveva fatto assassinare nel 1940; in Italia i trockijsti furono sempre una minoranza assolutamente trascurabile. Per la differenza fra scrittura e pronuncia dei nomi russi, si tenga presente che l’alfabeto cirillico in uso nei paesi slavi necessita della traslitterazione, cioè della riscrittura col nostro sistema grafico, ma secondo criteri particolari: Trockij e Krushëv, quindi, si leggono Tròzki e Crusciòf) si sentì in qualche modo “orfana”, e tuttavia più d’uno, privatamente, deve aver tirato un sospiro di sollievo. Forse anche lo stesso Togliatti: nel 1949 egli aveva rifiutato la proposta di Stalin di assumere la direzione del Kominform (sapendo che accettarla avrebbe voluto dire consegnarsi nelle mani di colui che aveva il triste primato di maggior persecutore di comunisti, avendone fatti uccidere quasi due milioni), e dopo il difficile incontro con Stalin partì da Mosca senza essere certo che gli sarebbe stato davvero consentito di tornare in Italia; tant’è che Nilde Iotti ricorda di avergli sentito mormorare, una volta superato il confine, “solo adesso mi sento libero”.
Ma, allora, perché non rompere subito con i sovietici? E non ebbero ragione coloro i quali, anche nel PCI, condannarono la feroce repressione anti-ungherese?
Il fatto che in URSS il sistema dei soviet fosse mostruosamente degenerato, tanto da diventare un regime poliziesco, col potere concentrato in poche mani, era già stato parzialmente messo a fuoco dallo stesso Gramsci (per questo, mentre era ancora formalmente Segretario del partito, fu di fatto drammaticamente emarginato dai suoi stessi compagni, che in carcere praticamente non gli rivolgevano più la parola), ma la scelta di campo rimaneva una necessità assoluta, e in ogni caso sarebbe stato disastroso, impensabile, nel momento più aspro dello scontro con la DC, rompere con l’URSS e quindi riconoscere che di fatto aveva ragione De Gasperi.

Nel febbraio del 1956 fu proprio l’allora Segretario del PCUS, Nikita Krushëv a dar fuoco alle polveri: al XX Congresso del PCUS lesse a porte chiuse (ma la notizia fu fatta filtrare alla stampa occidentale) il celebre rapporto in cui denunciava il “culto della personalità” verso un uomo, Stalin, che in realtà era responsabile di una lunga serie di persecuzioni (le cosiddette “purghe”) nei confronti dei cittadini sovietici e di una gestione autoritaria del partito. Non fu lieve l’imbarazzo dei partiti comunisti occidentali, presi del tutto alla sprovvista da questa clamorosa denuncia pubblica, ma Togliatti colse l’occasione per avviare quella progressiva presa di distanza dal “modello sovietico” che in qualche modo egli stesso sapeva essere indispensabile: in un’intervista alla rivista Nuovi Argomenti Togliatti criticò l’eccesso di prudenza dei dirigenti sovietici, i quali si limitavano ad un’analisi superficiale delle distorsioni del sistema sovietico, senza andare al cuore del problema, senza cioè “affrontare il difficile tema del giudizio storico complessivo” (Palmiro Togliatti, Opere scelte, Editori Riuniti, p. 727) su una rivoluzione degenerata in conservazione autoritaria. Al tempo stesso mise in discussione il concetto stesso di partito-guida assegnato al PCUS, rivendicando l’autonomia dei singoli partiti comunisti non solo come fatto di principio ma come condizione irrinunciabile per analizzare le specifiche realtà nazionali e per sviluppare una strategia adatta alle varie situazioni.
Questa elaborazione, che poi prenderà il nome di via italiana al socialismo, subì una brusca battuta d’arresto pochi mesi dopo. Nei paesi dell’Est la gestione dispotica del potere e il governo burocratico dell’economia avevano prodotto condizioni di vita e di lavoro inaccettabili, e il malcontento era piuttosto diffuso. A metà giugno vi furono vari scioperi in Polonia, subito repressi: la protesta riprese con vigore alla fine del mese, assumendo, nella città di Poznan, il carattere di una vera e propria sollevazione, che tuttavia finì nel sangue, con 40 operai uccisi dalla polizia. Giuseppe Di Vittorio, l’autorevole Segretario della CGIL, ben sapeva quali erano stati i motivi di questo pesante scontro e si rendeva perfettamente conto che un regime che si diceva socialista avrebbe dovuto, per definizione, mettere al primo posto proprio gli interessi dei lavoratori, e che se ciò non avveniva vi erano per forza dei guasti di fondo; perciò non esitò ad esprimere solidarietà ai lavoratori polacchi. Nel PCI, invece, prevalse il timore che i fatti di Poznam preludessero a un qualche tentativo occidentale per alimentare la rivolta all’Est e la posizione di Di Vittorio rimase isolata.
In Ungheria nel 1953 si era formato un governo che aveva emarginato la componente più autoritaria del partito al potere e il premier Imre Nagy aveva avviato una cauta politica di riforme; estromesso due anni dopo, fu richiamato a presiedere il governo nell’autunno del ‘56, quando si andò sviluppando un vasto movimento di popolo contro la presenza nel paese delle truppe sovietiche: la protesta divenne rivolta aperta e alcuni gruppi fascisti ne approfittarono per scatenare vere e proprie esecuzioni sommarie. Il governo legittimo di Nagy era intenzionato a stroncare questi eccessi e a guidare pacificamente il processo di riforma, ma Mosca ordinò alle truppe di intervenire senza mezze misure: fu una vera guerra civile, con centinaia di morti, e, come era già accaduto in Polonia, nell’insurrezione antisovietica ebbero un ruolo di primo piano proprio gli operai. Nuovamente Di Vittorio insisté sul fatto che erano le stesse classi lavoratrici a ribellarsi, ma il PCI lo smentì apertamente e salutò l’intervento che liberava Budapest dalla “controrivoluzione”.

Ancora una volta era prevalsa la paura di favorire l’avversario, ma in realtà il risultato ottenuto fu esattamente l’opposto, perché non si capiva che nell’opinione pubblica, e in particolare quella moderata e cattolica, meno predisposta al messaggio politico della sinistra, era proprio tale legame con l’URSS ad essere messo in primo piano: i comunisti venivano identificati tout court come quelli che abolivano la libertà, e poco importa se fossero stati la forza principale della Resistenza o in prima fila nella difesa dei diritti sindacali. Per la prima volta, tuttavia, non fu solo da destra che arrivarono le critiche: il PSI prese una posizione di fermissima condanna dell’URSS e ruppe i rapporti coi comunisti; dentro lo stesso PCI si aprì un aspro dibattito, che andò allargandosi a macchia d’olio in tutte le strutture del partito, con un’intensità e una libertà mai raggiunte prima: e non furono solo gli intellettuali a pronunciarsi contro l’Unione Sovietica, ma anche dirigenti di primo piano come Antonio Giolitti, e numerosi quadri intermedi.
Pietro Ingrao, che pure allora fu senza esitazione dalla parte dei sovietici, riconoscendo anni dopo quanto fu sbagliata quella posizione del PCI, definì indimenticabile quel 1956, per i terribili avvenimenti che lo segnarono, ma anche perché costituì un punto di svolta decisivo per il PCI: l’irrigidimento che sembrava contraddire pesantemente l’apertura di appena pochi mesi prima, in realtà era la manifestazione di una crisi salutare; i contraccolpi interni furono certo pesanti (in un paio d’anni circa trecentomila iscritti abbandonarono il partito: tra essi molti intellettuali di grande prestigio come Italo Calvino, Delio Cantimori, Alberto Asor Rosa.) ma in qualche modo si era creata una rottura con la tradizione stalinista, e lentamente andava prendendo forma il “partito nuovo”.