BREVE STORIA D'ITALIA
IL 1948 Ma
a questo importantissimo risultato unitario paradossalmente
si giunse proprio mentre la lotta politica diventava frattura
insanabile, portando poi allo scontro frontale del 1948. Per tutti gli anni ‘50, ad esempio, l’armatore Achille Lauro fu sindaco monarchico di Napoli (sul clima politico della città in quegli anni rimane un documento esemplare il bellissimo film di Francesco Rosi Le mani sulla città, 1963); nel decennio successivo, tuttavia, la DC riuscì a recuperare quasi integralmente questi consensi e i residui del partito monarchico confluirono nel MSI. Si è già visto come Togliatti avesse improntato tutta la propria politica a grande prudenza, col duplice scopo di tenere unita la coalizione antifascista su alcuni grandi obiettivi nazionali (Repubblica, Costituzione, ricostruzione) e di radicare diffusamente il PCI nella società, trasformandolo da quel piccolo nucleo di combattenti che era durante la clandestinità a grande e moderno partito di massa: tutto ciò escludeva in modo dichiarato qualsiasi ipotesi insurrezionale, ma il forte ed esplicito legame che univa la sinistra all’Unione Sovietica indebolì in modo decisivo questo disegno. La DC (che a ben vedere si comportò in maniera non molto diversa, cioè con gli stessi obiettivi nazionali e con analogo proposito di diventare parte integrante della società) poté enfatizzare ampiamente la questione del “pericolo rosso”, puntando sui benefici, reali, derivanti dall’alleanza con gli USA; oltre a tutto occorre ricordare che in moltissime zone d’Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, quasi ogni famiglia aveva dei parenti emigrati in America, e quindi il legame con quel paese non era tanto ideologico, quanto basato su fatti molto concreti. Come di grande concretezza furono le centinaia di migliaia di pacchi con cibo e vestiario che, proprio alla vigilia delle elezioni, arrivarono nelle case italiane per diretto intervento degli Stati Uniti: che poi insieme ai viveri vi fosse una lettera in cui si invitava a votare DC non fu certo ininfluente. E quanto peso ebbero le prediche domenicali in cui i sacerdoti ammonivano di votare in tutta libertà, ma “democraticamente e cristianamente”? In realtà si trattò di ben più che un suggerimento: se la scomunica per chiunque appartenesse al Partito Comunista o ad organizzazioni collegate (sindacati, associazioni culturali, ecc.) arrivò solo nel luglio del 1949, abbiamo già accennato a come il papa Pio XII usò tutta la propria influenza per guidare una vera e propria crociata anticomunista, e restò celebre il suo infuocato appello di fronte ai 200.000 fedeli accorsi in Piazza San Pietro: “O con Cristo o contro Cristo; o con la sua Chiesa o contro la sua Chiesa!”. (Ginsborg, op. cit., pag. 134.) Ma così come non si può onestamente ritenere che Togliatti fosse un fedele esecutore di ordini provenienti da Mosca, non si può nemmeno pensare a un De Gasperi totalmente subalterno al Vaticano: si è visto che nel 1947 egli seppe resistere alle fortissime pressioni vaticane rispetto all’immediata cacciata dei socialcomunisti dal governo, così come in seguito puntò a mantenere una certa libertà del proprio partito rispetto alle gerarchie ecclesiastiche, convinto com’era che proprio in tale autonomia di manovra risiedesse quella possibilità di fare politica che era indispensabile per fronteggiare con intelligenza gli avversari. In ogni caso è fuori di dubbio che la politica italiana si sia basata per cinquant’anni - e in ciò evidenziando un’anomalia unica in tutto il mondo occidentale - sulla conventio ad escludendum, cioè sull’accordo delle forze dominanti per escludere a tutti i costi i comunisti dal potere: e i soggetti principali di tale disegno furono, oltre agli Stati Uniti e alla Confindustria (l’organizzazione sindacale degli imprenditori industriali, fondata nel 1919; nel settore agricolo ruolo analogo riveste la Confagricoltura), appunto il Vaticano e la DC (unico partito europeo ad essere rimasto al potere senza interruzioni dal 1947). È interessante notare come il fatto che PCI e PSI fossero riusciti a costruire un’eccezionale intelaiatura organizzativa, con strutture sparse in tutti i paesi e nelle principali aziende, sia stato per decenni motivo di allarme permanente rispetto a questa sorta di “piovra” rivoluzionaria; mentre, al contrario, veniva (ed è tuttora) giudicata del tutto ovvia e normale l’esistenza della rete, assai più capillare e potente, costituita dalle innumerevoli associazioni cattoliche: oltre alle parrocchie (è del tutto evidente che alla loro del tutto legittima funzione di organizzazione del culto si accompagnavano attività di tipo sociale, pedagogico, politico, che avevano diretta influenza sul comportamento dei cittadini: basti pensare allo scandalo che fino a pochi anni fa producevano i matrimoni celebrati col solo rito civile, o, soprattutto nei paesi, al carattere pressoché obbligatorio che avevano le lezioni di catechismo), le decine di migliaia di circoli dell’Azione Cattolica con le oltre 4.000 sale cinematografiche, i Comitati civici, le cooperative “bianche” (la Confederazione delle Cooperative Italiane è spesso sottovalutata rispetto alla più nota Lega, ma nel 1962 gli aderenti alla CCI erano più numerosi di quelli legati alle cooperative un tempo chiamate “rosse”), gli asili, le scuole e gli istituti di assistenza gestiti da organismi religiosi; non si vuole ovviamente mettere in discussione la funzione sociale svolta da molte di queste strutture , ma solo sottolineare il peso fondamentale che ebbero dal punto di vista strettamente ideologico. Analogamente a numerose altre organizzazioni collaterali alla DC, prima fra tutte la Coldiretti, cioè l’associazione sindacale che raggruppò la gran parte dei contadini: è facile intuire il suo ruolo di primaria importanza se si pensa che nel dopoguerra per molti anni l’agricoltura restò il settore trainante dell’economia italiana. Le fabbriche sembravano essere inevitabilmente sotto l’influenza dei socialcomunisti, ma il fatto che i militanti di sinistra fossero indubbiamente i più attivi, non poteva certo significare che tutti i lavoratori fossero orientati verso il PCI o il PSI. Del resto i dirigenti cattolici che nel ‘44 insieme a comunisti e socialisti avevano dato vita alla CGIL unitaria, non rinunciarono all’idea di uno strumento autonomo di contatto con la realtà operaia e già nel 1944 diedero vita alle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani: le ACLI dovevano svolgere un lavoro di preparazione culturale dei lavoratori, affinché partecipassero alla vita della CGIL con una propria forte identità di cattolici; in seguito le ACLI si orientarono a svolgere attività di promozione sociale e di carattere educativo e ricreativo, perché la DC impose ai propri militanti di staccarsi da un sindacato in cui troppo forte era l’influenza dei socialcomunisti. La scissione della CGIL ebbe luogo nel 1950 e fu diretta, anche finanziariamente, dai sindacati statunitensi (American Federation of Labor), fieramente anticomunisti: nacquero così la Confederazione Italiana dei Sindacati dei Lavoratori (CISL), cattolica, e l’Unione Italiana del Lavoro (UIL), a prevalenza repubblicana e socialdemocratica. La campagna elettorale per formare il primo Parlamento della Repubblica si svolse in un clima arroventato. La DC non solo utilizzò il formidabile appoggio del Vaticano e degli Stati Uniti (che, ad ogni buon conto, mobilitò la flotta del Mediterraneo e approntò un piano d’intervento nel caso di vittoria della sinistra), ma poté efficacemente rafforzare le proprie fosche previsioni sul futuro italiano nel caso avessero prevalso gli amici dell’URSS: nel febbraio del ‘48 in Cecoslovacchia vi fu un tentativo di rovesciare il governo guidato dai comunisti, e questi risposero mobilitando gli operai armati, che occuparono le fabbriche e di fatto aprirono la strada a un colpo di stato che emarginò del tutto le opposizioni cattoliche e liberali. PCI e PSI risposero sostanzialmente sulla difensiva, esoprattutto non colsero una grande novità del messaggio della DC: il partito di De Gasperi, su ispirazione degli esperti strateghi elettorali americani, impostò una vera e propria strategia comunicativa a tutto campo, in cui cioè agli argomenti più tradizionali s’intrecciavano temi specifici rivolti a determinati gruppi di popolazione, il tutto ricorrendo a una varietà di mezzi del tutto inusuale per una comunicazione politica che si basava sostanzialmente sui comizi e sui volantini. Jacovitti, uno dei maestri del fumetto, disegnò dei manifesti di straordinaria efficacia, molti dei quali riprodotti nel volume (ormai introvabile) curato da L. Romano e P. Scabello, C’era una volta la DC, Savelli, 1975. “Coi discorsi di Togliatti non si condisce la pastasciutta. Perciò le persone intelligenti votano per De Gasperi che ha ottenuto gratis dall’America la farina per gli spaghetti e anche il condimento”. Insieme a questo manifesto ce n’erano moltissimi altri - insieme a cinegiornali, volantini, dischi, dépliant - indirizzati ai parenti dei caduti in Russia a cui Stalin non voleva restituire le salme dei congiunti, agli agricoltori che sarebbero stati inevitabilmente costretti a rinunciare alla loro proprietà, agli impiegati che finalmente avevano ricevuto aumenti salariali contrastati dalla CGIL, alle madri raffigurate mentre difendevano i figlioli da feroci lupi siberiani. Le sinistre, invece, ebbero un’unica intuizione veramente efficace sul piano della comunicazione: assunsero Garibaldi (che peraltro era stato l’emblema delle loro formazioni partigiane) come simbolo dell’alleanza elettorale, il Fronte del popolo. Era un po’ poco, ma le manifestazioni rosse erano affollatissime e piene di entusiasmo, mentre in quelle dei moderati la partecipazione era in genere mediocre e di scarsissimo impatto emotivo, e ciò riempì di fiducia tutti i dirigenti del Fronte: fu un errore colossale non capire che a una grande parte di popolo che scendeva in piazza ne corrispondeva un’altra, ancora più grande, che preferiva starsene a casa ma che avrebbe fatto sentire il proprio peso nella cabina elettorale (“dove Dio ti vede e Stalin no”). Il 18 aprile 1948 la DC stravinse oltre ogni aspettativa: più di dodici milioni di voti, il 48,5% (ma alla Camera, con 305 seggi su 574, poté disporre della maggioranza assoluta), contro appena il 35% del Fronte. Un clamoroso fallimento per la sinistra, ma si racconta che Togliatti, leggendo uno dei tanti giornali che a titoli cubitali parlavano della “disfatta comunista”, commentasse tagliente che se la sconfitta indubbiamente c’era stata, chi credeva che i comunisti fossero ormai spacciati non sapeva neanche far di conto. Difficile dargli torto: il pesante insuccesso del Fronte era in buona misura dovuto al tracollo del PSI, passato dai 115 seggi nell’Assemblea Costituente a soli 41 deputati (il PSDI, alleato della DC, ne ottenne 33), mentre il PCI aumentava da 106 a 140. E ciò determinò una situazione politica del tutto nuova nell’ambito della sinistra, e che contò molto negli anni a venire: i comunisti ne diventavano la componente di gran lunga maggioritaria. “La situazione economica accennava già a migliorare, gli industriali tornavano a essere ottimisti e intraprendenti, gli alti funzionari dello Stato e di polizia a essere rispettati, Rossellini si sposò con Ingrid Bergman e fece un film su san Francesco: l’ordine, insomma, era ristabilito.” (G. Procacci, Storia degli italiani, 2° v., Laterza, 1970, pp. 548-549) Col 18 aprile sembrava davvero essersi concluso il turbinoso ed esaltante periodo del dopoguerra, ma un avvenimento inaspettato sconvolse la situazione: il 14 luglio Antonio Pallante, un giovane fascista, sparò a Togliatti ferendolo molto seriamente. La notizia si diffuse rapidamente in tutto il paese e si pensò subito ad un attentato diretto ad avviare un colpo di stato: “Non perdete la calma” furono le parole pronunciate da Togliatti mentre lo portavano all’ospedale in condizioni gravissime, ma l’immediato sciopero generale assunse ben presto un carattere apertamente insurrezionale. A Torino la Fiat venne occupata e alcuni dirigenti, fra cui il presidente Valletta, furono tenuti in ostaggio; a Porto Marghera gli operai, molti dei quali armati, presero il controllo degli impianti petroliferi e delle altre fabbriche; a Genova i portuali e i partigiani disarmarono la polizia e presidiarono la città con i mezzi blindati; in Toscana, sulle montagne dell’Amiata, i minatori di Abbadia San Salvatore occuparono la centrale telefonica che collegava le comunicazioni fra Nord e Sud, e negli scontri rimasero uccisi due carabinieri.
Era la rivoluzione? Al Nord con tutta probabilità l’insurrezione sarebbe riuscita, ma sicuramente il Sud non avrebbe risposto, e l’Italia si sarebbe drammaticamente spaccata in due; senza contare i piani d’intervento predisposti dal Pentagono. Il PCI non ebbe alcun dubbio: il movimento andava bloccato il più rapidamente possibile, e tutti i dirigenti comunisti furono mobilitati per scongiurare un’avventura che avrebbe avuto senz’altro un esito disastroso. Commenterà qualche anno dopo lo stesso Togliatti: “Certo, l’attacco insurrezionale - e la certa sconfitta - nel 1946 o nel 1948 avrebbero fatto piacere a molti. Tutti i quadri rivoluzionari a scuola di strategia e di tattica nelle carceri o in esilio!” (cit. in: Giorgio Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, 1974, p. 524. Per quadro nel linguaggio politico s’intendeva un dirigente intermedio o un militante particolarmente capace; oggi il termine è invece usato in prevalenza per indicare, all’interno di un’azienda, il funzionario direttivo di medio livello). Ma la reazione fu comunque durissima: il Ministro degli Interni, Mario Scelba, iniziò la sua brillante carriera di grande esperto in repressione, e attivò i 180.000 uomini (la forza di polizia più numerosa di tutta l’Europa) di cui poteva disporre fra agenti di P.S., carabinieri, guardie di finanza, ecc., procedendo a innumerevoli retate, perquisizioni e arresti. Una sera, per le strade di Abbadia San Salvatore passò un silenzioso corteo: 147 minatori incatenati venivano portati in carcere, dove molti di essi rimasero per anni.
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