BREVE STORIA D'ITALIA
LA RESISTENZA
Se
il 1946 è l’inizio della nuova Italia che, lasciandosi
alle spalle la monarchia e scegliendo la repubblica, manifesta
un chiaro proposito di rinnovare se stessa alle radici, vi è
però una data che più di ogni altra per
il nostro paese segna il confine tra passato e presente: il 25
aprile 1945.
Mentre nell’estremo Oriente le ostilità proseguiranno
ancora per alcuni mesi e solo dopo il lancio delle bombe atomiche
americane (terrorismo criminale, e, al tempo stesso, monito terribile al nuovo nemico, l'URSS) su Hiroshima e Nagasaki, in agosto, il Giappone accettò
la resa senza condizioni, in Europa la conclusione della seconda
guerra mondiale è imminente: a poco più di 10 mesi
dallo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) gli
angloamericani stanno travolgendo le truppe hitleriane su tutti
i fronti e l’Armata Rossa è già a
Berlino. Però, così come era avvenuto in
tanti altri paesi europei, dalla Grecia alla Polonia, dalla Norvegia
alla Jugoslavia, dall’Unione Sovietica alla Francia, anche
in Italia le forze di occupazione del Terzo Reich
(in tedesco Reich significa letteralmente regno. Il primo
fu il Sacro Romano Impero di Ottone I (962-1806), e il secondo
il breve impero (1871-1918) formatosi in seguito alla creazione
del primo stato unitario federale tedesco) avevano dovuto misurarsi
con nemici interni militarmente assai meno consistenti degli eserciti
alleati ma comunque insidiosi: quei movimenti di liberazione nazionale che sulle montagne, nei centri urbani, nelle campagne, tenevano
continuamente sotto pressione i soldati tedeschi, con sabotaggi,
azioni di guerriglia, attentati, distogliendo notevoli forze dal
fronte.
Naturalmente vi erano notevoli differenze, sul piano dell’azione
militare come su quello politico, tra i vari paesi: nell’Unione
Sovietica, ad esempio, l’invasione aveva spaccato in due
il paese, e mentre a est si combattevano i due eserciti, dietro
le linee tedesche venivano svolte le azioni di guerriglia; in
Jugoslavia la Resistenza assunse invece le caratteristiche di
una vera e propria guerra di popolo, e le forze
partigiane guidate da Tito
si organizzarono in formazioni strutturate come un esercito regolare;
in Francia il governo collaborazionista del maresciallo Pétain,
con sede a Vichy, nella parte meridionale del paese, fiancheggiò
apertamente i tedeschi, ai quali si opposero le forze della Resistenza
(il maquis)
che facevano riferimento al governo in esilio presieduto dal generale
De Gaulle.
Con lo sbarco degli alleati in Sicilia, ai primi di luglio del
‘43, l’impegno militare tedesco nella nostra penisola
dovette aumentare considerevolmente e all’indomani dell’armistizio
dell’8 settembre 1943, Hitler diede ordine che le truppe di stanza in Italia agissero come vera
e propria forza di occupazione in un paese ostile. In realtà
la situazione era assai confusa, perché il Re e il Primo
Ministro Badoglio non avevano predisposto - vergognosamente - alcuna
linea d’azione rispetto alle inevitabili e drammatiche conseguenze
che si sarebbero sicuramente prodotte all’annuncio dell’armistizio.
Mentre la famiglia reale e il governo avevano precipitosamente
abbandonato Roma, rifugiandosi al Sud, i soldati italiani, e gli
stessi Stati maggiori, furono colti del tutto alla sprovvista
e rimasero privi di qualsiasi direttiva (all’inizio del
film Tutti a casa, di Luigi Comencini, 1960, un bravissimo
Alberto Sordi è un ufficiale che l’8 settembre, ignaro
di tutto, guida la propria compagnia in una marcia di trasferimento
e si vede improvvisamente sparare addosso dai tedeschi: chiama
immediatamente il comando del reggimento e annuncia sconvolto:
“Colonnello, è successa una cosa incredibile:
i tedeschi si sono alleati con gli americani!”): molti
si arresero subito o cercarono di tornarsene a casa, ma in tantissimi
casi prevalse la decisione di non passare agli ordini dei tedeschi
e così si organizzarono spontaneamente i primi momenti
di resistenza, dal disperato tentativo di difendere Roma al rifiuto
di consegnare le armi da parte delle truppe di stanza a Cefalonia,
nelle isole Ionie: qui i nazisti vollero dare un esempio, decisero
di non fare prigionieri e massacrarono quasi ottomila fra
soldati e ufficiali italiani. Un aspetto poco noto è che
il comandante italiano, ben sapendo che la superiorità
germanica era schiacciante, prese un'iniziativa senza precedenti:
fece votare a tutti i suoi uomini se arrendersi o meno, e la stragrande
maggioranza scelse di resistere.
Ai militari che scelsero di opporsi ai tedeschi si unirono civili
di idee antifasciste, e anche molti che volevano semplicemente
sfuggire l’invio ai campi di lavoro in Germania (senza peraltro
avere la minima idea della mostruosa tragedia che da anni si andava
consumando nei campi
di sterminio) o l’arruolamento forzato nelle
file dei “repubblichini”: così erano chiamati
gli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana,
l’entità politica costituita da Mussolini (la sede
era a Salò, sul lago di Garda) nel tentativo di dare una
legittimità e una parvenza di autonomia a un potere che
era in effetti completamente subordinato a Hitler.
Il duce era stato destituito dal Re subito dopo la seduta del
Gran Consiglio del fascismo (25 luglio 1943)
in cui la maggioranza dei gerarchi aveva votato una mozione di
sfiducia nei suoi confronti; arrestato subito dopo, venne imprigionato
in una località “segreta” del Gran Sasso, dove
fu facilmente liberato da un commando di paracadutisti tedeschi
e quindi portato al Nord. Il comandante di queste SS, Otto Skorzeny,
fu poi tra i fondatori della famigerata “Odessa”,
un’organizzazione di mutuo soccorso fra ufficiali nazisti (Organisation Der Ehemaligen SS-Angehörigen).
Nell’Italia spaccata in due dal fronte che vedeva i tedeschi
impegnati a cercare d’impedire l’avanzata degli alleati,
ci furono dunque italiani che decisero di schierarsi con i nazifascisti
e altri che invece scelsero il campo avverso, e ciò
assunse i caratteri di vera e propria guerra civile.
Se è fuori di dubbio che per molti la scelta non fu facile,
o addirittura venne determinata da circostanze casuali, è
altrettanto vero che in gran parte di coloro che combatterono
contro Hitler e Mussolini furono decisivi per un verso il desiderio
di liberarsi dall’invasore germanico e da un regime che
aveva condotto il paese in una guerra disastrosa, e per l’altro
lo spirito di fedeltà alla monarchia, comune ad esempio
ai tanti ufficiali che erano riusciti a passare le linee e si
erano uniti al Corpo dei Volontari della Libertà (CVL)
formatosi al Sud agli ordini del governo Badoglio.
Dopo l’8 settembre i partiti antifascisti, prima dispersi
e costretti alla clandestinità, si riorganizzarono (ma ciò non vale per il PCI, l'unica forza che aveva mantenuto una propria struttura, vitale, diffusa, determinata: e a ciò non fu certamente estraneo il rigore leninista) e parteciparono
intensamente sia al dibattito politico che doveva preparare le
scelte postbelliche sia al lavoro di costruzione e di coordinamento
delle forze partigiane.
Questo era il panorama delle forze politiche.
Democrazia cristiana: fu costituita nel 1942 da dirigenti
del disciolto Partito Popolare Italiano, la formazione
cattolica fondata nel 1919 da don Luigi Sturzo;
nel 1994, dopo Tangentopoli, si è sciolta, e i suoi dirigenti hanno dato vita
a varie formazioni, legate alla coalizione di centrosinistra (PPI, poi Margherita)
o a quella di centrodestra (CCD e CDU, poi unitisi nell'UDC).
Partito Comunista
Italiano: nato nel 1921, sotto il nome di Partito
Comunista d’Italia, con l’uscita dal Partito Socialista
dell’ala sinistra guidata da Amadeo Bordiga
e Antonio Gramsci; alla morte di quest’ultimo,
Segretario divenne Palmiro Togliatti, seguito
nel 1964 da Luigi Longo e poi da Enrico Berlinguer
dal 1972 al 1984; nel 1991 si sciolse e il suo Segretario, Achille
Occhetto, diede vita al Partito Democratico della Sinistra, poi
Democratici di Sinistra, mentre una parte costituì
il Partito della Rifondazione Comunista, da cui
nel '98 nacque il Partito dei Comunisti Italiani.
Partito d’Azione: fu fondato da Mazzini nel 1853
con un programma repubblicano, laico e riformista: ad esso si
ispirarono i gruppi più radicali dell’area liberale
e socialista (soprattutto il movimento Giustizia e libertà)
che nel 1942 si costituirono in Partito; nell’immediato
dopoguerra questa forza si sciolse.
Dopo lo scioglimento del Partito d'Azione l'ala più moderata, guidata da Ugo La Malfa, confluì nel rinato Partito Repubblicano Italiano, menre gli esponenti della sinistra entrarono nel PSI o nel PCI.
Partito Liberale Italiano: fondato nel 1942 ispirandosi
al liberalismo post-risorgimentale, nel 1956 vide la scissione
della sua ala sinistra che formò il Partito Radicale;
guidato per molti anni da Giovanni Malagodi,
si è sciolto nel 1994.
Partito Socialista Italiano: fondato nel 1892 come Partito
dei Lavoratori Italiani, l’anno successivo prese il nome
di PSI; ne fece parte anche Mussolini fino allo
scoppio della prima guerra mondiale; i suoi capi storici furono
Filippo Turati durante il fascismo e Pietro Nenni nel dopoguerra, e subì la scissione dell’ala destra
nel 1947 (da cui nacque il Partito Socialdemocratico
di Saragat) e di quella sinistra nel 1964 (PSIUP);
guidato dal 1976 al 1993 da Bettino Craxi, dimessosi
in seguito a Tangentopoli, si è sciolto, disperdendosi
in varie formazioni, nel 1994.
Il Partito Democratico del Lavoro fu una formazione minore di
tipo liberal-socialista che ebbe brevissima vita.
I partiti antifascisti, dunque, diedero vita al Comitato di Liberazione
Nazionale (CLN), che in qualche modo si pose
come contrappeso politico rispetto a un governo che sicuramente
era legittimo ma anche erede diretto di un passato negativo. Questo
aspetto caratterizzò tutto il primo periodo di attività
del CLN, il quale addirittura si trovò paralizzato dal
forte dissenso fra i partiti filomonarchici e quelli repubblicani;
quest’ultimi, infatti, arrivarono a porre come pregiudiziale
il superamento della monarchia, così pesantemente compromessa
col fascismo, e solo il rientro in Italia di Palmiro Togliatti,
Segretario del Partito Comunista, sbloccò la situazione:
in un famoso discorso tenuto a Salerno (marzo 1944) egli propose,
vincendo anche forti riserve all’interno del PCI, di rinviare
senz’altro a guerra finita il dibattito sulla questione
istituzionale, poiché era assolutamente vitale che tutti
gli italiani fossero uniti intorno all’obiettivo principale,
la cacciata e la sconfitta dei tedeschi (svolta di Salerno).
Animatore, insieme a Gramsci, del movimento rivoluzionario dei
Consigli di fabbrica (1919), Togliatti divenne
Segretario del partito nel 1927, mentre Gramsci era in carcere;
negli anni ‘30 ebbe ruoli di rilievo nell’Internazionale
Comunista e nella direzione delle forze antifasciste durante la Guerra
civile spagnola (1936-39).
Nell’Italia del Nord, comunque, prevalse già dalla
fine del ‘43 la consapevolezza che l’unità
dei cittadini e delle forze politiche era la condizione prioritaria
per sperare di sconfiggere i nazifascisti, e si formò il
Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI),
che assunse tutto il potere di direzione delle forze partigiane.
I nuclei iniziali di sbandati si trasformarono lentamente in reparti
militari ben strutturati (ma non altrettanto bene armati), generalmente
per intervento diretto delle varie organizzazioni politiche a
cui poi continuarono a far riferimento: infatti le formazioni
principali erano le brigate e divisioni “Garibaldi”,
composte soprattutto da comunisti e socialisti, “Giustizia
e Libertà”, legate al Partito d’Azione,
e i vari reparti dei cosiddetti “badogliani”, i quali,
cioè, spesso non aderivano a nessun partito ma si riconoscevano
nelle figure del Re e del capo del governo (Badoglio, appunto)
e quindi nei partiti più vicini alla monarchia (democristiani,
liberali) e meno affini alla sinistra.
Oltre alle formazioni che operavano in montagna e nelle campagne, si costituirono anche reparti armati clandestini che agivano in città, i GAP, Gruppi di Azione Patriottica, e le SAP, Squadre di Azione Patriottica.
E nelle città si sviluppò un potente movimento di protesta che investì centinaia di fabbriche, con un'ondata di scioperi in cui si univano le rivendicazioni
sindacali e le parole d'odine di carattere politico.
Ciò fu possibile anche grazie all'incessante lavoro di informazione e propaganda svolto dalla stampa clandestina.
Ma se è vero che la Resistenza fu soprattutto
un fenomeno proprio delle regioni settentrionali, occorre ricordare
che uno dei principali episodi della lotta di liberazione avvenne
al Sud: durante le quattro giornate di Napoli,
pochi giorni dopo l’8 settembre, praticamente tutta la città
insorse contro i tedeschi. “Napoli, fra tutte le città
d’Italia, era quella che forse più d’ogni altra
aveva sofferto. Era stata bombardata centocinquanta volte, con
gioia del duce, secondo il quale i bombardamenti avrebbero reso
più virile la razza napoletana.” (Giulio Trevisani
- Stefano Canzio, Compendio di Storia d’Italia,
La Pietra, v. 4°, p. 717). Quando il comando tedesco, di fronte
all’avanzata degli alleati, ordinò l’arruolamento
forzato di trentamila uomini per i lavori di fortificazione e
diede il via ai rastrellamenti di massa, la popolazione si ribellò
e dopo quattro giorni di battaglia per le strade costrinse i tedeschi
alla fuga: quando il 1° ottobre gli angloamericani arrivarono
a Napoli, la città era già stata liberata. Vale
anche la pena di notare che furono meridionali numerosi comandanti
partigiani, in genere provenienti dalle file delle forze armate
regolari.
Bisogna tenere conto, comunque, che la stragrande maggioranza
degli italiani per due decenni non aveva potuto svolgere alcuna
libera attività politica e soprattutto era stremata da
una guerra che aveva provocato enormi sofferenze, e quindi non
fu facile stabilire un rapporto organico fra la popolazione e
organizzazioni politiche spesso sconosciute ai più o anche
considerate con diffidenza da chi ancora era fortemente condizionato
dalla ventennale propaganda mussoliniana.
“La Resistenza rimase sempre un grande e attivo movimento
di minoranze, il più vasto che la storia d’Italia
abbia mai conosciuto, ma pur sempre minoranza.” (Storia
d’Italia, v. 4°, tomo terzo, Einaudi, 1976, p.
2389)
Tuttavia in molte zone si crearono legami davvero solidi, e decisivi
sotto il profilo della lotta contro gli occupanti, fra i cittadini
e i partigiani (in realtà da ambo le parti
il termine “partigiani” fu usato piuttosto
poco: i nazifascisti parlavano di “banditi”
e, viceversa, i membri della Resistenza si definivano “patrioti”),
e proprio a spezzare tale legame puntò il maresciallo Kesselring,
comandante delle forze germaniche in Italia: da una parte utilizzando
le brigate nere della RSI nei rastrellamenti, cercando di presentare
i soldati di Mussolini come i “veri” italiani, e dall’altra
impiegando con feroce determinazione lo strumento della rappresaglia
nei confronti delle popolazioni; “per ogni tedesco
dieci italiani” era il principio che venne
messo in pratica trucidando civili inermi, torturando sistematicamente
i prigionieri, incendiando i villaggi, impiccando i partigiani
ai bordi delle strade affinché tutti potessero vederli:
sono soprattutto bambini, donne, vecchi, le vittime degli eccidi
di Sant’Anna
di Stazzema (560 uccisi), Civitella Val di Chiana
(251), Castelnuovo Val Cecina (77), Padule di Fucecchio (314),
Valla (107), Vinca (178), San Terenzio (53), Frigido (108); la
cittadina di Boves, nel Cuneese, fu la prima
località a subire questo tipo di rappresaglia (19 settembre
‘43) e pochi mesi dopo subì un secondo devastante
intervento tedesco, che distrusse le case non bruciate col precedente
incendio. Sono solo alcuni dei tanti nomi della “serie
terrificante dei massacri predisposti lungo la linea gotica, allo
scopo di creare la ‘terra bruciata’ nell’immediata
retrovia del fronte” (Roberto Battaglia, Storia
della Resistenza italiana, Einaudi, 1964, p. 428). La linea
gotica era il potente fronte difensivo, fra Pesaro e Massa, approntato
da Kesselring per impedire il dilagare degli alleati nella pianura
padana. Ma tutta la storia dell’occupazione tedesca in Italia
è segnata da centinaia di questi episodi, alcuni tragicamente
famosi, dalla strage di Marzabotto,
con 1836 morti, a quella delle Fosse
Ardeatine, con 355 uccisi, tanti altri dimenticati
o ignoti ai più. Secondo i dati ufficiali (ma sottostimati) della Presidenza
del Consiglio, i civili italiani uccisi per rappresaglia dai nazisti
9.980, di cui 4.461 solo in Toscana.
Sovente si sottovaluta molto l’efficacia che ebbe la Resistenza,
dal punto di vista militare, a confronto delle operazioni di guerra
condotte dagli alleati, ma quanto la guerriglia fosse importante
e come la strage di civili fosse uno strumento essenziale nella
repressione antipartigiana, lo conferma lo stesso maresciallo
Kesselring, che non a caso dal maggio ‘44 assunse in prima
persona la guida di tali azioni, prima affidata al comando supremo
delle SS.
“La lotta contro le bande doveva venir posta tatticamente
sullo stesso piano della guerra al fronte [...] Costituire
una percentuale di ostaggi in quelle località dove risultino
essere bande armate e passare per le armi detti ostaggi tutte
le volte che nelle località stesse si verificassero atti
di sabotaggio [...] Compiere atti di rappresaglia fino
a bruciare abitazioni poste nelle zone dove siano sparati colpi
d’arma da fuoco contro reparti o singoli militari germanici.
Impiccare nelle pubbliche piazze quegli elementi riconosciuti
responsabili di omicidi e capi di bande armate.” (Albert
Kesselring, Memorie di guerra, Garzanti, 1954, p. 260).
i combattenti
|
Brigate Garibaldi (comuniste) |
575 |
Brigate autonome |
255 |
Brigate Giustizia e Libertà |
198 |
Brigate Matteotti (socialiste) |
70 |
Brigate del popolo |
54 |
|
|
256 mila partigiani combattenti in Italia e all'estero
(153.600 garibaldini) |
|
70.930 caduti (42.558 garibaldini) |
|
30.697 feriti (18.416 garibaldini) |
|
387 medaglie d'oro (93 ai garibaldini) * |
|
852 medaglie d'argento (217 ai garibaldini) * |
|
* evidente la sproporzione fra il numero dei combattenti e quello delle decorazioni: ma queste sono state decise dai governi a maggioranza DC, con lo scopo di ridimensionare simbolicamente il ruolo essenziale dei partigiani comunisti |
I
partigiani caduti furono 70.930 (la percentuale
più alta, circa il 15%, nel Veneto). Nel resto d’Europa
i partigiani caduti furono complessivamente circa 34.000,
di cui: 17.000 in Jugoslavia, 13.000 in Grecia, 2.000 in Albania,
1.000 in Francia, 1.000 negli altri paesi. Per quanto riguarda
l’Unione Sovietica, in realtà l’invasione tedesca
non produsse un vero e proprio regime di occupazione e i partigiani
sovietici erano comunque in stretto contatto con le truppe regolari;
per l’URSS non è possibile calcolare la cifra dei
partigiani caduti rispetto ai 20 milioni di morti
complessivi (in totale i morti della seconda guerra mondiale furono
oltre 50 milioni, di cui 7 deportati in Germania).
Ma
in qualche modo la Resistenza italiana fu davvero un movimento
di popolo che non ebbe uguali in nessun altro paese, e i consensi
che riuscì a conquistarsi fra la gente le permise non solo
di effettuare impotanti azioni di logoramento nei confronti delle
truppe tedesche, ma anche di svolgere un’intensa attività
di informazione e di orientamento fra i cittadini: di particolare
efficacia gli scioperi del 1944 - che peraltro seguivano quelli realizzati
già durante il regime fascista, nel marzo del ‘43
- e la difesa da parte degli operai delle fabbriche che i tedeschi
in fuga volevano distruggere (si stavano ricostruendo le organizzazioni
sindacali democratiche sciolte dal fascismo).
La Resistenza, in altre parole, seppe combinare in modo diffuso,
anche se in modi diversi fra zona e zona, l’attività
militare e quella politica: quest’ultima aveva come primo
scopo quello di estendere e rafforzare l’offensiva partigiana
creando intorno ad essa il massimo appoggio possibile da parte
delle popolazioni. Ciò significava discutere, confrontare
opinioni, parlare di argomenti che per vent’anni erano rimasti
estranei alla quasi totalità degli italiani: una vera e
propria scuola di democrazia, insomma, che per un verso favorì
decisamente l’obiettivo primo dei partigiani, ingrossare
le proprie file, per altro verso alimentò un processo di
crescita civile e di consapevolezza sociale che andava ben oltre
quella drammatica situazione.
Nelle aree controllate dai “ribelli” si produsse uno
straordinario fenomeno: malgrado gli orrori della guerra, la fame,
la paura delle rappresaglie, per la prima volta la gente poteva
parlare e agire apertamente, e praticare in concreto la libertà:
in questi territori sparsi in ogni parte del Nord Italia si formarono
le “Zone libere”, o Repubbliche partigiane,
fondate sulla partecipazione popolare. Le principali esperienze
furono condotte in Carnia
e in Val d’Ossola; altre importanti Zone
libere furono in Valsesia, nelle Langhe, nell’Astigiano,
nell’Oltrepo pavese, a Torriglia, nel Cansiglio, a Montefiorino
e in tutte le maggiori vallate appenniniche tra Parma e Modena.
La zona libera della Carnia fu tanto più significativa
se si considera che il Friuli divenne a tutti gli effetti territorio
germanico, essendo stato annesso al Reich sotto il nome di Adriatisches
Küstenland (Litorale Adriatico): i comandi
tedeschi affidarono il controllo della parte settentrionale del
Friuli alla Russkaja Osvoboditelnaja Armja, un’armata
composta da più di 20.000 Cosacchi, Circassi, Georgiani
e altre etnie, agli ordini di generali “bianchi” antibolscevichi.
A queste popolazioni Hitler aveva promesso che tale parte del
Friuli sarebbe stata la loro nuova patria, a cui infatti diedero
il nome di Kosakenland.
In
realtà tra le varie zone libere vi furono molteplici diversità
dal punto di vista delle forme di autogoverno, ma l’elemento
comune fu la sperimentazione di forme di vita democratica non
solo del tutto nuove per l’Italia, ma spesso anche molto
avanzate, anticipando alcuni dei princìpi fondamentali
che saranno alla base della futura Costituzione: dal diritto di
voto esteso anche alle donne, alla riforma agraria, dall’
ordinamento giudiziario al sistema scolastico e a quello fiscale.
“Credo che l’uomo sia maturo per altro. Non soltanto
per non rubare, non uccidere, e per essere un buon cittadino
[...] Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri
doveri. È questo che si sente, io credo, la mancanza di
altri doveri, di altre cose da compiere. Cose da fare per la nostra
coscienza in senso nuovo”. (Elio Vittorini, Conversazione
in Sicilia, Einaudi, 1970, pp. 28-29).
Ma le Zone libere erano comunque situate in territori che facevano
parte della fascia centrosettentrionale controllata dai tedeschi,
e le forze di occupazione riuscirono ogni volta a distruggere
queste isole di libertà: ci furono momenti (ad esempio
il drammatico inverno del 1944) in cui la Resistenza parve non
avere più il vigore per proseguire la lotta, e tuttavia
il legame costruito fra partigiani e popolazione si rivelò
talmente solido e convinto che riuscì a superare le crisi
più difficili, e con gli inizi del 1945 “il movimento
partigiano non subisce più soste o incertezze, è
carico d’energia come un arco che sta per scagliare la freccia”
e malgrado i nazifascisti rimangano assai superiori in termini
di numero e di mezzi “i loro ultimi scatti irosi divengono
slegati e incerti, si esauriscono in colpi vibrati a vuoto, senza
più la decisione che porta a fonda l’offesa”
(Battaglia, op. cit., p. 477.)
Il Comitato per l’insurrezione (guidato da Luigi
Longo
e Sandro Pertini)
del CLNAI preparò quindi un complesso e articolato programma
per sferrare gli attacchi decisivi, basato su piani insurrezionali
che dovevano essere attuati nelle principali città in concomitanza
con l’avanzare degli alleati ma prima del loro
arrivo (un esempio per tutti: l’aristocratico
generale Meinhold, al comando dei 30.000 soldati che occupavano
Genova e dintorni, si trovò costretto a firmare
la resa nelle mani dell’operaio comunista Remo Scappini):
l’offensiva dei patrioti riesce ovunque e culmina, il 25
aprile, nell’ordine di insurrezione generale.
Con la liberazione di Milano cadde l’ultimo baluardo nazifascista
e le truppe germaniche erano ovunque in fuga, dirette precipitosamente
verso il confine: fu proprio a uno di questi convogli che Mussolini
si aggregò, ma una formazione partigiana bloccò
la colonna, scoprì il duce travestito da soldato tedesco
e lo arrestò. Il CLNAI nel frattempo aveva assunto i pieni
poteri in rappresentanza del governo italiano ed emise vari decreti
per attuare le misure che si rendevano necessarie in quel difficilissimo
frangente. In uno di essi si diceva: “I membri del governo
fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di avere contribuito
alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto
le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso
e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’ attuale
catastrofe, sono puniti con la pena di morte e nei casi meno gravi
con l’ergastolo”. (Cit. in: Trevisani, op. cit.,
p. 755. Si è a lungo discusso e polemizzato su questa decisione,
ma sull’assoluta legittimità di tale iniziativa e
sullo status giuridico del CLN, cfr. Battaglia, op. cit. pp. 546-550;
F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 1961,
pp. 136-139; R. Cadorna, La riscossa, Rizzoli, 1948,
p. 260. Il generale Cadorna fu il comandante del Corpo Volontari
à)
Il 28 aprile Mussolini venne fucilato e la stessa
sorte subirono i principali gerarchi. Pochi giorni dopo, il 2
maggio, il comandante delle truppe germaniche in Italia firmò
la resa senza condizioni. Una settimana più tardi, con
la completa conquista di Berlino e il suicidio di Hitler,
la resa si estenderà su tutti i fronti.
a cura di Alberto Burgos
v. anche la cronologia
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