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La Strage di Portella della Ginestra |
Nella storia del Primo Maggio la pagina più sanguinosa venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra.
Dopo anni di sottomissione a un potere feudale la Sicilia stava vivendo una fase di rapida crescita sociale e politica. Un grande movimento organizzato aveva conquistato il diritto di occupare e avere in concessione le terre incolte. L'offensiva del movimento contadino, insieme alla vittoria elettorale del Blocco del Popolo alle elezioni per l'Assemblea regionale, suscitarono però l'allarme delle forze reazionarie. Intimidazioni contro sindacalisti e esponenti dei partiti della sinistra erano frequenti e affidate al banditismo separatista.
Il Primo Maggio del 1947, secondo una usanza che risaliva all'epoca dei Fasci Siciliani, circa 2000 contadini, uomini, donne, bambini e anziani, si erano dati appuntamento nella Piana di Portella della Ginestra.
Appostati sulle colline vicine, c'erano ad attenderli, armati di mitragliatrici, gli uomini della banda di Salvatore Giuliano.
Aveva appena iniziato a parlare il primo oratore, quando si sentirono i primi colpi. Per la folla non ci poteva essere scampo: alla fine si contarono 11 morti e più di 50 feriti.
La notizia della strage si diffuse in tutta Italia e la CGIL proclamò per il 3 maggio uno sciopero generale.
Purtroppo le indagini furono compromesse dalla volontà di una parte delle forze di governo ed in particolare del Ministro dell'interno dell'epoca, Mario Scelba, di escludere in partenza la pista della strage politica. Tutte le colpe furono addossate al bandito Giuliano, malgrado il rapporto dei Carabinieri indicasse come possibili mandanti "elementi reazionari in combutta con i mafiosi locali."
E infatti Cosa Nostra non risparmiò il piombo: la lista delle uccisioni di sindacalisti, militanti di sinistra, magistrati, poliziotti, giornalisti, è interminabile.
Lo stesso Giuliano fu eliminato, 3 anni dopo, dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, che a sua volta fu avvelenato in carcere nel 1954 dopo aver preannunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.
Una strage che sembra quindi inaugurare la lunga catena di misteri e di eccidi che insanguineranno l'Italia negli anni a venire.
Recentemente alcuni studiosi hanno portato alla luce vari documenti (la più parte provenienti dagli archivi dei servizi segreti britannici e statunitensi) da cui emerge come Salvatore Giuliano fosse organicamente legato all'estrema destra, addirittura alle dirette dipendenze del principe Junio Valerio Borghese: inquadrato nella X Mas, egli è segnalato come incursore di marina italiano, poi come paracadutista e come tale identificato anche quando, insieme ad altri fascisti della X viene mandato in Sicilia per contrastare le operazioni alleate.
Il gruppo di Giuliano è in realtà uno squadrone della morte agli ordini dei Fasci di Azione rivoluzionaria (Far) di Pino Romualdi, delle Squadre Armate Mussolini (Sam) e della X Mas di Borghese. I documenti del controspionaggio Usa (ritrovati negli Archivi Nazionali di College Park, nel Maryland) rivelano contatti tra gli emissari di Salò e Giuliano fin dall’estate del 1944, quando un commando nazifascista inizia ad operare sulle montagne tra Partitico e Montelepre per addestrare militarmente gli uomini della banda.
Ma il colpo di scena avviene a cavallo della fine della guerra: questa volta Giuliano non è più pagato per organizzare improbabili attentati contro gli alleati, ma, al contrario, per aiutare gli americani. Si comincia con le alleanze con la mafia ed i latifondisti agrari contro le prime forme di occupazione delle terre. Poi il rapporto con il controspionaggio americano diventa più “politico”. I neofascisti organizzati dovrebbero creare il casus belli di una insurrezione armata della sinistra, in modo da legittimare un golpe dei Carabinieri contro i comunisti di Togliatti ed i socialisti di Nenni. La strage di Portella della Ginestra, appunto.
La tesi è degli studiosi Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino che a Partitico, presso Palermo, hanno organizzato un archivio storico su Portella della Ginestra. “Il quadro che affiora dai documenti che abbiamo trovato è a dir poco sconcertante: c’è un rapporto dei servizi segreti italiani del 1947 (il SIS) che parla chiaro: sono il Comando militare americano e l’intelligence statunitense a dare il via all’operazione golpista tra l’ottobre ed il novembre ’46. Gli americani temono che comunisti e socialisti possano vincere le prime elezioni politiche dopo la caduta del fascismo. Non a caso in quel periodo nasce l’Unione patriottica anticomunista (UPA), un'organizzazione clandestina capeggiata da generali e colonnelli dei carabinieri (Messe, Pieche, Laderchi) e manovrata occultamente da James Angleton, la superpia americana in Italia dallo sbarco in Sicilia in poi”. È quello stesso personaggio riscoperto ora dal cinema americano e che vedremo interpretato da Matt Damon nel film di Robert De Niro L’Ombra del Potere.
Nelle carte dell’MI5 britannico vengono segnalati con preoccupazione i contatti tra agenti americani, eversione fascista e personalità dello stato italiano. Nei rapporti, trovati ora al National Archive di Kew Gardens (UK) si fanno espliciti riferimenti all’”incidente” ed al “lago di sangue” che daranno il via al golpe militare. Dai documenti emergono anche i finanziamenti di queste formazioni, elargiti clandestinamente dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura e dalla grande industria italiana.
Gli uomini di Giuliano, si legge nei documenti, erano pagati tantissimo, 6000 lire al mese dell’epoca, pari a più di 20mila euro attuali, erano armati e ben riforniti. Usavano anche bombe particolari, le prime a frammentazione, una delle quali sarebbe stata usata proprio a Portella della Ginestra, come ricordano molti dei testimoni feriti da schegge non riconducibili a bombe a mano e neanche a proiettili.
La banda Giuliano incominciò subito dopo la guerra, la sua attività: colpire Camere del Lavoro, uccidere sindacalisti (ne furono assassinati 35 sino al 1950), seminare l’idea di essere portatore di una idea di libertà dai comunisti, dall’Italia e dallo Stato, visto sempre come lontano e nemico, sino al punto da organizzare, nell’immediato dopoguerra, una sorta di sciopero della leva militare obbligatoria, come ai tempi dei piemontesi. Insomma, dividere e separare il movimento contadino che in quegli anni si era organizzato ed aveva portato il Fronte Popolare a conquistare la maggioranza nelle elezioni regionali dell'aprile 1947: fu la scintilla che fece scoppiare la provocazione.
Quella mattina del 1° Maggio sulla Piana di Portella della Ginestra dove si ritrovavano da sempre a far festa operai e contadini, fu accesa una miccia che avrebbe dovuto far esplodere la rivolta delle sinistre e provocare l’intervento dei Carabinieri, dalla Sicilia in tutta Italia. MaTogliatti non cadde nella trappola: il PCI aveva saputo - forse da qualcuno dei servizi segreti Italiani - che la strage era stata organizzata per quello scopo. Al resto ci pensò la politica: comunisti e socialisti furono cacciati dal governo di De Gasperi, il governo americano fermò Angleton ed il colonnello Charles Poletti, il capo dell’AMGOT (i servizi americani nel territorio italiano liberato) che nel ’47 era tornato in Italia per organizzare il flusso di fondi ed armi agli anticomunisti.
I gruppi fascisti vengono richiamati all’ordine e nel ’48, quando la DC vinse le elezioni, hanno l’ordine dagli Stati Uniti di rientrare nella legalità. Molti recalcitrano, Giuliano continua a fare il bandito sui monti dietro Palermo, ma ormai è stato mollato. Sapeva troppo e ormai va eliminato perché conosce la vera storia di quella strage di Portella e del piano golpistico. Pisciotta lo tradì, lui viene ucciso nella messa in scena che fu svelata benissimo dal film di Francesco Rosi Salvatore Giuliano.
Poi anche Pisciotta, che aveva confidato in un trattamento particolare, venne avvelenato nel carcere di Viterbo, nel '54, dopo aver sentito la richiesta di ergastolo nei suoi confronti, lui che era stato quasi “organico” ai Carabinieri golpisti.
Una storia mai chiusa ed ora riaperta. Ce n’è abbastanza per riaprire il processo su Portella della Ginestra? È quanto chiedono Casarrubea e Cereghino, che hanno consegnato le nuove carte alla Procura della Repubblica di Palermo perché il reato di strage non va mai in prescrizione. Ed è quella verità che dopo gli ultimi documenti dei servizi segreti inglesi ed americani (si possono leggere nel libro Tango Connection di Casarrubea e Cereghino, Bompiani, pp. 208, 9 euro) ora chiedono il Presidente della Camera Bertinotti, i partiti della sinistra e Cgil-Cisl-Uil.
Per la verità storica e per la dignità di quelle persone così duramente colpite con 12 morti e 50 feriti, per i 35 sindacalisti uccisi in quegli anni, per tutti i morti di mafia da allora ad oggi, perché da quei silenzi, da quelle ambiguità sono nati poi anni di piombo e di tensione, di lupara bianca e di potere di Cosa Nostra sul territorio.
Dalle trame non svelate può infatti emergere solo un aiuto alla mafia ed al suo potere.
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Umberto Santino
La Strage di Portella della Ginestra |
Nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, la festa del primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone, fu interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11 morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65.
I contadini dei paesi vicini erano soliti radunarsi a Portella della Ginestra per la festa del lavoro già ai tempi dei Fasci siciliani, per iniziativa del medico e dirigente contadino Nicola Barbato, che era solito parlare alla folla da un podio naturale che fu in seguito denominato "sasso di Barbato". La tradizione venne interrotta durante il fascismo e ripresa dopo la caduta della dittatura. Nel 1947 non si festeggiava solo il primo maggio ma pure la vittoria dei partiti di sinistra raccolti nel Blocco del popolo nelle prime elezioni regionali svoltesi il 20 aprile. Sull'onda della mobilitazione contadina che si era andata sviluppando in quegli anni le sinistre avevano ottenuto un successo significativo, ribaltando il risultato delle elezioni per l'Assemblea costituente. La Democrazia cristiana era scesa dal 33,62% al 20,52%, mentre le sinistre avevano avuto il 29,13% (alle elezioni precedenti il Psi aveva avuto il 12,25% e il PCI il 7,91%).
La campagna elettorale era stata abbastanza animata, non erano mancate le minacce e la violenza mafiosa aveva continuato a mietere vittime. Il 1947 era cominciato con l'assassinio del dirigente comunista e del movimento contadino Accursio Miraglia (4 gennaio) e il 17 gennaio era stato ucciso il militante comunista Pietro Macchiarella; lo stesso giorno i mafiosi avevano sparato all'interno del Cantiere navale di Palermo. Alla fine di un comizio il capomafia di Piana Salvatore Celeste aveva gridato: "Voi mi conoscete! Chi voterà per il Blocco del popolo non avrà né padre né madre" e la stessa mattina del primo maggio a San Giuseppe Jato la moglie di un "qualunquista truffatore" - come si legge in un servizio del quotidiano "La Voce della Sicilia" - aveva avvertito le donne che si recavano a Portella: "Stamattina vi finirà male" e a Piana un mafioso non aveva esitato a minacciare i manifestanti: "Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!" (in Santino 1997, p. 150). Eppure nessuno si aspettava che si arrivasse a sparare sulla folla inerme, ormai lontana la memoria dei Fasci siciliani e dei massacri successivi.
Prima i mafiosi e i partiti conservatori poi solo i banditi
La matrice della strage appare subito chiara: la voce popolare parla dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti conservatori e i nomi sono sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste, l'avvocato Bellavista che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafano: "Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge"; "Azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia" (ivi, p. 153). Vengono fermate 74 persone tra cui figurano mafiosi notori. All'Assemblea costituente il giorno dopo la strage Girolamo Li Causi, segretario regionale comunista, lancia la sua accusa: dopo il 20 aprile c'è stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i mafiosi e tra gli sparatori c'erano monarchici e qualunquisti. Viene interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro degli interni Mario Scelba dichiara che non c'è un "movente politico", si tratta solo di un "fatto di delinquenza" (ivi, p. 155).
Scelba ritorna sull'argomento in un'intervista del 9 maggio: "Trattasi di un episodio fortunatamente circoscritto, maturato in una zona fortunatamente ristretta le cui condizioni sono assolutamente singolari" (ivi, p. 159). Nel frattempo i fermati vengono rilasciati e si afferma la pista che porta alla banda Giuliano, il cui nome viene fatto dall'Ispettore di Pubblica Sicurezza Ettore Messana, lo stesso che l'8 ottobre 1919 aveva ordinato il massacro di Riesi (15 morti e 50 feriti) e che ora Li Causi addita come colui che dirige il "banditismo politico". La banda Giuliano sarà pure indicata come responsabile degli attentati del 22 giugno in vari centri della Sicilia occidentale, con morti e feriti.
L'inchiesta giudiziaria si concentra sui banditi e procede con indagini frettolose e superficiali: non si fanno le autopsie sui corpi delle vittime e le perizie balistiche per accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre 1948 la sezione istruttoria della Corte d'appello di Palermo rinvia a giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte di Cassazione, per legittima suspicione, decide la competenza della Corte d'assise di Viterbo, dove il dibattimento avrà inizio il 12 giugno 1950 e si concluderà il 3 maggio 1952, con la condanna all'ergastolo di 12 imputati (Giuliano era stato assassinato il 5 luglio del 1950).
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sostiene che Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto combattere i comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori secondo cui la banda Giuliano aveva operato come "un plotone di polizia", supplendo in tal modo alla "carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia" (ivi, pp. 191 s). Cioè: la violenza banditesca era stata impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava tra le righe che le "carenze dello Stato" erano da attribuire all'azione della coalizione antifascista allora al governo del Paese. La sentenza di Viterbo non toccava il problema dei mandanti della strage e dell'offensiva contro il movimento contadino e le forze di sinistra, affermando esplicitamente che la causa doveva essere ricercata altrove.
Contro la sentenza fu proposto appello e il processo di secondo grado si svolse presso la Corte d'assise d'appello di Roma (nel frattempo molti degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti). La sentenza del 10 agosto 1956 confermava alcune condanne, riducendo la pena, e assolveva altri imputati per insufficienza di prove. Con sentenza del 14 maggio 1960 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso del pubblico ministero e così la sentenza d'appello diventava definitiva.
Una strage per il centrismo
Nella storia d'Italia il 1947 è un anno di svolta e la strage di Portella ha avuto un ruolo nello stimolare e accelerare questa svolta, intrecciandosi con dinamiche che maturano a livello locale, nazionale e internazionale. Il 13 maggio si apre la crisi politica con le dimissioni del governo di coalizione antifascista presieduto da De Gasperi. Il 30 maggio a Roma e a Palermo si formano i nuovi governi: De Gasperi presiede un governo centrista con esclusione delle sinistre e alla Regione siciliana il democristiano Giuseppe Alessi presiede un governo minoritario appoggiato dai partiti conservatori, senza la partecipazione del Blocco del popolo, nonostante la vittoria alle elezioni del 20 aprile. Si apre così una nuova fase della storia d'Italia, in cui le forze di sinistra saranno all'opposizione. La svolta si inserisce nella prospettiva aperta dagli accordi di Yalta che hanno codificato la divisione del pianeta in due grandi aree di influenza, con l'Italia dentro lo schieramento atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti e la guerra fredda come strategia di contrasto e di contenimento del potere sovietico.
Nel gennaio del '47 De Gasperi era andato negli Stati Uniti ma è frutto di una visione semplificatrice pensare che abbia ricevuto l'ordine di sbaraccare le sinistre dal governo. In realtà la svolta del '47 è figlia di un matrimonio consensuale in cui interessi locali, nazionali e internazionali coincidono perfettamente. Il messaggio contenuto nella strage è stato pienamente recepito e da ora in poi a governare, accanto alla Democrazia cristiana che nelle elezioni del 18 aprile 1948 si afferma come partito di maggioranza relativa, dopo una campagna elettorale volta a esorcizzare il "pericolo rosso", saranno i partiti conservatori vanamente indicati come mandanti del massacro. In questo quadro la Chiesa cattolica ha un ruolo di primo piano. Il cardinale Ernesto Ruffini, a proposito della strage di Portella e degli attentati del 22 giugno, scrive che era "inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie antiitaliane e anticristiane dei comunisti" (in Santino 2000, p. 180), plaude all'estromissione delle sinistre dal governo, ma la sua proposta di mettere i comunisti fuori legge, rivolta a De Gasperi e a Scelba, rimarrà inascoltata. I dirigenti democristiani sanno perfettamente che sarebbe la guerra civile.
Alla ricerca dei mandanti
La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell'ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l'ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l'archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963. Nel novembre del 1969 il figlio dell'appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l'esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contratto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l'assicurazione che sarebbe stato amnistiato (in Santino 1997, p. 207).
Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all'unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: "Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero. Attribuire la responsabilità diretta o morale a questo o a quel partito, a questa o quella personalità politica non è assolutamente possibile allo stato degli atti e dopo un'indagine lunga e approfondita come quella condotta dalla Commissione. Le personalità monarchiche e democristiane chiamate in causa direttamente dai banditi risultano estranee ai fatti". Il relatore, il senatore Marzio Bernardinetti, addebitava i risultati deludenti alla mancata o scarsa collaborazione delle autorità: "Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all'approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo" (in Testo integrale…1973).
Nel 1977, in pieno clima di "compromesso storico" tra Partito comunista e Democrazia cristiana, ben poco propizio alla ricerca della verità, il Centro siciliano di documentazione comincia la sua attività con un convegno nazionale dal titolo "Portella della Ginestra: una strage per il centrismo" in cui si ricostruisce il quadro in cui è maturata la strage, considerata non come il prodotto di un disorientamento e di un vuoto politico (come sosteneva anche la storiografia di sinistra: Francesco Renda considerava l'uso della violenza come "repugnante delinquenza comune" e un "errore grossolano" che avrebbe portato all'isolamento dei proprietari terrieri: Renda 1976, p. 23) ma come "un atto di lucida, e ragionata, violenza volto a condizionare il quadro politico, regionale e nazionale" purtroppo coronato da successo (Centro siciliano di documentazione 1977; Santino 1997, pp. 8, 60).
Successivamente ci sono state varie pubblicazioni, più meno documentate, sulla strage e sulla banda Giuliano (Galluzzo 1985, Magrì 1987, Barrese - D'Agostino 1997, Renda 2002) e l'interpretazione della strage di Portella come "strage di Stato" ha segnato buona parte dei lavori del convegno che si è svolto nel maggio del 1997, nel cinquantesimo anniversario (Manali, a cura di, 1999; Santino ivi). Il convegno si concluse con la richiesta della desecratazione della documentazione raccolta dalla Commissione antimafia, pubblicata negli anni successivi in vari volumi (Commissione antimafia 1998-99). Nel frattempo la costituzione dell'Associazione "Non solo Portella", ad opera di familiari delle vittime, e l'attività di ricerca del suo presidente, lo storico Giuseppe Casarrubea, figlio di una delle vittime dell'attentato di Partinico del 22 giugno, hanno portato a significativi risultati (Casarrubea 1997, 1998, 2001). Anche sulla base di perizie effettuate sui corpi di alcuni superstiti si è documentato che tra le armi utilizzate c'erano bombe-petardo di produzione americana; da testimonianze risulta che tra gli esecutori c'erano mafiosi e le ricerche sui materiali dell'archivio dell'Oss (Office of Strategic Services) e del Sis (Servizio Informazioni e Sicurezza) del ministero dell'Interno hanno prodotto ulteriore documentazione sul ruolo degli Stati Uniti (già documentato precedentemente: sugli incontri del bandito Giuliano con l'agente americano Michael Stern: Sansone - Ingrascì 1950, pp.143-150; sulla politica estera degli Stati Uniti, ricostruita attraverso documenti d'archivio: Faenza - Fini 1976) e rivelato i rapporti tra banditismo e formazioni neofasciste (Vasile 2004, 2005).
Ricostruzioni recenti (La Bella - Mecarolo 2003) hanno contribuito ad arricchire il quadro della documentazione sul contesto, sono stati pubblicati significativi documenti degli archivi italiani e americani sui primi anni della Repubblica (Tranfaglia 2004) e un film (Segreti di Stato del regista Paolo Benvenuti, accompagnato da un volume: Baroni-Benvenuti 2003) ha riproposto il tema delle complicità chiamando in causa vari soggetti, dai dirigenti della Democrazia cristiana alla X MAS di Junio Valerio Borghese, ai servizi segreti americani, al Vaticano, in un "gioco delle carte" non sempre convincente.
Sulla base di nuove acquisizioni documentali nel dicembre 2004 i familiari delle vittime hanno chiesto la riapertura dell'inchiesta. Per Portella, come del resto per le altre stragi che hanno insanguinato l'Italia, la verità è ancora lontana.
Riferimenti bibliografici
Baroni Paola - Benvenuti Paolo, Segreti di Stato. Dai documenti al film, Fandango, Roma 2003.
Barrese Orazio - D'Agostino Giacinta, La guerra dei sette anni. Dossier sul bandito Giuliano, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
Casarrubea Giuseppe, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, F. Angeli, Milano 1997; Fra' Diavolo e il Governo nero. "Doppio Stato" e stragi nella Sicilia del dopoguerra, F. Angeli, Milano 1998; Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, F. Angeli, Milano 2001.
Centro siciliano di documentazione, 1947-1977. Portella della Ginestra: una strage per il centrismo, Cooperativa editoriale Cento fiori, Palermo 1977. Una parte degli Atti del convegno fu pubblicata nel fascicolo Ricomposizione del blocco dominante, lotte contadine e politica delle sinistre in Sicilia (1943-1947), Cento fiori, Palermo 1977.
Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, Pubblicazione degli atti riferibili alla strage di Portella della Ginestra, Roma 1998-99, Doc. XXIII, nn. 6, 22, 24.
Faenza Roberto - Fini Marco, Gli americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1976.
Galluzzo Lucio, Meglio morto. Storia di Salvatore Giuliano, Flaccovio, Palermo 1985
La Bella Angelo - Mecarolo Rosa, Portella della Ginestra. La strage che ha insanguinato la storia d'Italia, Teti Editore, Milano 2003.
Magrì Enzo, Salvatore Giuliano, Mondadori, Milano 1987.
Manali Pietro (a cura di), Portella della Ginestra 50 anni dopo (1947-1997), S. Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999, con 2 volumi di Documenti, a cura di G. Casarrubea.
Renda Francesco, Il movimento contadino in Sicilia e la fine del blocco agrario nel Mezzogiorno, De Donato, Bari 1976; Salvatore Giuliano. Una biografia storica, Sellerio, Palermo 2002.
Sansone Vincenzo - Ingrascì Giuseppe, 6 anni di banditismo in Sicilia, Le edizioni sociali, Milano 1950.
Santino Umberto, La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l'emarginazione delle sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997; La strage di Portella, la democrazia bloccata e il doppio Stato, in P. Manali (a cura di), op. cit., pp. 347-375; Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
Testo integrale della relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia, vol. II, Cooperativa Scrittori, Roma 1973, Relazione sui rapporti tra mafia e banditismo in Sicilia, pp. 983-1031.
Tranfaglia Nicola, Come nasce la Repubblica. La mafia, il Vaticano e il neofascismo nei documenti americani e italiani. 1943-1947, Bompiani, Milano 2004.
Vasile Vincenzo, Salvatore Giuliano, bandito a stelle e a strisce, Baldini Castoldi Delai, Milano 2004; Turiddu Giuliano, il bandito che sapeva troppo, con un saggio di Aldo Giannuli, l'Unità, Roma 2005.
da: "Narcomafie", n. 6, giugno 2005
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Giuseppe Casarrubea
La Strage di Portella della Ginestra |
da: Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra,
Bompiani, 2005
I mortaretti della “festa”
Il 1° maggio 1947 ebbe inizio come le feste dei santi patroni nelle ricorrenze che si celebrano nei paesi della Sicilia, quando anche l’aria è pervasa dall’attesa e improvvisamente i mortaretti rompono il torpore del sonno, annunciano all’alba il giorno che viene, col suo carico di preparativi, di speranze e di riti. Ma allora non c’erano santi da commemorare e il dio che si festeggiava era un dio pagano, al cui potere misterioso si dovevano immolare vittime innocenti utili a placare l’ira della divinità turbata dal suo stesso potere, dalla sua stessa anima in pena. A destarla fu forse una semplice consuetudine avviata al tempo dei fasci dei lavoratori da un medico di Piana degli Albanesi che nel 1893 era stato più volte arrestato per difendere libertà e socialismo dai vizi antichi di re e ricchi. Era Nicolò Barbato, apostolo della libertà, simbolo delle aspi
razioni di quell’antica colonia del ’400 fondata dal condottiero albanese Scandeberg e divenuta, assieme alla Corleone di Bernardino Verro, una delle capitali delle lotte dei lavoratori nei latifondi. Fu quest’ansia, questo anelito, mentre nasceva la Repubblica, a svegliare il dio pagano dormiente e a trasformare Portella della Ginestra nel tempio del sacrificio. Processioni informali di intere famiglie si erano cominciate a snodare da San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, già dalle prime ore del mattino, quando a piedi, con i muli e i carretti, le bandiere rosse e quelle bianco-rosso-verde dell’Italia, contadini e artigiani, poveri e benestanti, giornalieri e mezzadri, si erano partiti dai loro paesi a valle, per risalire, attraverso antichi sentieri percorsi nel tempo, fino alla“Ginestra” (a Jnestra, come la chiamavano), al “sasso” di Barbato. Da qui il medico pianese dell’800, soleva parlare ai convenuti, predicando i diritti dei lavoratori. Anche quella mattina del 1° maggio 1947 la folla si era radunata in quel pianoro, per sentire parlare dei diritti calpestati dal fascismo e della nuova Italia democratica che a fatica si stava costruendo. Mentre gli oratori ufficiali tardavano ad arrivare aveva preso la parola, per intrattenere la folla, un calzolaio di San Giuseppe Jato, segretario della locale sezione socialista. Aveva parlato per alcuni minuti quando si udirono gli spari di alcuni mortaretti. Molti applaudirono pensando trattarsi dell’inizio di una festa popolare, ma ben presto la loro allegria si tramutò in tragedia. Prima cominciarono a cadere i muli che con i carretti facevano da siepe, come negli accampamenti indiani, poi, uno dopo l’altro, caddero i contadini, i bambini, le madri.
Per quella strage senza precedenti (undici morti e ventisette feriti) le sentenze di Viterbo (1952) e di Roma (1956) condannarono gli uomini di Salvatore Giuliano, un ragazzo che a vent’anni aveva ucciso, forse per difesa personale, il carabiniere Antonio Mancino, tenendo quasi a battesimo così l’8 settembre ’43 e prendendo la via delle montagne. Solo che qui eravamo in Sicilia e le truppe alleate, già da un paio di mesi, avevano invaso l’isola cacciando le truppe italo-tedesche. L’analisi delle deposizioni rese all’epoca dai testimoni, l’acquisizione di nuove documentazioni medico-legali, ricerche archivistiche condotte in Italia e all’estero consentono ora di mettere in discussione la versione ufficiale dei fatti. Nelle settimane e nei giorni successivi all’eccidio, numerose persone (tra queste, i quattro cacciatori catturati dalla banda Giuliano sui roccioni del Pelavet, quella stessa mattina di fuoco) rilasciarono agli inquirenti dettagliate testimonianze sulla dinamica della sparatoria. Ma i giudici di Viterbo non ne tennero conto. Eppure non ne avrebbero dovuto fare a meno considerando che esse erano state tutte concordi e univoche su alcuni aspetti essenziali della dinamica dei fatti e cioè l’accerchiamento
della folla e l’uso di armi solitamente non in possesso della criminalità comune (ad esempio le granate). Ascoltiamo, allora, questi testimoni perché ci aiutano a capire. Vincenzo Petrotta, 46 anni, segretario del PCI di Piana, agricoltore, a meno di ventiquattro ore dall’eccidio, dichiara al procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Rosario Miceli, di aver visto una trentina di persone sulla montagna opposta a quella in cui era stato collocato Giuliano con i suoi uomini: si muovevano e sparavano.
Il 3 maggio 1947, Giacomo Schirò, 39 anni, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, dice di avere avuto l’esatta sensazione che si era sparato non solo dalla Pizzuta (il versante in cui era la banda Giuliano), ma anche dalla Cometa, come era dimostrato dal fatto che tracce di proiettili si potevano notare “sulle pietre opposte la montagnola Cometa”. Certamente Schirò si riferisce al Cozzo Duxhait che si trova ai piedi del Cometa. Questo Cozzo presenta, sul versante interno, un antico viottolo che conduce, ancora oggi, alla masseria di Kaggio: la tenuta dei mafiosi del tempo nella quale, alla vigilia della strage si tenne un summit dei vari capifamiglia locali. In quello stesso giorno fu ascoltato Giuseppe Di Lorenzo, 32 anni, segretario della locale Camera del lavoro, muratore. Anche lui confermò che i colpi non provenivano solo dalla Pizzuta. A dimostrarlo stava il fatto che anche lui aveva visto, come lo Schirò, tracce di proiettili sui massi che guardavano la Cometa.
Che non si fosse sparato soltanto dal Pelavet fu attestato l’indomani, da Giovanni Parrino, 42 anni, maresciallo dei carabinieri di Piana degli Albanesi. 441
Dopo la strage, Rosario Cusumano, testimone di 12 anni, fu portato a Palermo e sentito il 4 maggio. Anche lui riferì di avere sentito i “mortaretti.” È la stessa versione di Anna Guzzetta, 46 anni, di San Giuseppe Jato e di Vincenza Spadaro, 48 anni, dello stesso comune.442 Ma anche altri testimoni affermarono lo stesso particolare. Il 15 maggio 1947, Nicolò Napoli, 48 anni (“Di un tratto furono uditi gli spari. Dapprima ritenni trattarsi di fuochi artificiali, però poco dopo ho visto cadere uccisa sul colpo una donna”); lo stesso giorno Menna Farace, 17 anni, contadino ( “Ad un tratto abbiamo udito degli spari che provenivano dalle falde della Pizzuta. Ho guardato da quel lato ma non ho scorto nulla. Dapprima ho ritenuto trattarsi di mortaretti”); l’11 giugno, Pietro Tresca, 55 anni, di San Giuseppe Jato (“Mentre parlava Schirò Giacomo, abbiamo udito degli spari che dapprima furono ritenuti prodotti da mortaretti.”).
Vincenzo Di Salvo (quattordicenne figlio di Filippo, una delle vittime) si trovava sotto il palco e, anche lui, udì i “mortaretti”.443 I mortaretti della festa. Se non fossero stati esplosi, la dinamica della strage sarebbe stata diversa e diversi sarebbero stati i protagonisti. La banda Giuliano, infatti, nella sua storia di assalti alle caserme, ai tempi dell’Evis, non aveva fatto uso di esplosivi a distanza. I banditi di Montelepre che abbiamo imparato a conoscere, a meno che non avessero seguito una scuola di sabotaggio, non avevano una, sia pur minima, conoscenza, della balistica. Non sapevano calcolare le parabole degli ordigni lanciati a centinaia di metri dai bersagli e non risultava neanche che avessero gli attrezzi adatti per compiere lanci ragguardevoli (500-600 metri). L’elenco delle armi è contenuto nel rapporto giudiziario del 4 settembre 1947, a firma dei marescialli dei Cc Calandra, Lo Bianco, Santucci. Manca qualsiasi riferimento ai lanciagranate o a strumenti simili, come i panzerfaust in dotazione a pochi gruppi paramilitari, ad esempio, i militi della Decima Mas.
A questa organizzazione di Junio Valerio Borghese ci rimandano non solo le armi usate per la strage (moschetti 1891, e mitragliatore Breda mod. 30), tipiche di quei militi, ma la partecipazione stessa di alcuni siciliani e di qualche monteleprino in particolare alla scuola di sabotaggio nazifascista di villa Grezzana di Campalto.444
Forse per questo il capobanda e i suoi uomini furono messi in evidenza sullo scenario del Pelavet. Tanto che alcuni dei manifestanti ne sentirono il vociare tra i roccioni o li videro addirittura spostarsi da un masso
all’altro prima ancora dell’inizio della strage. La “Voce della Sicilia” del 2 maggio uscì addirittura con una fotografia in prima pagina del costone del Pelavet, dov’era appostato Giuliano, mentre una freccia indicava l’esatta posizione dei banditi. Non erano passate neanche ventiquattro ore e cominciavano i misteri. Primo tra tutti il telegramma a Scelba con il quale l’ispettore Messana assicurava che la strage doveva essere attribuita a qualche elemento locale che aveva agito in “strette, inconfessabili relazioni” con Giuliano. Versione, questa, avallata subito dallo stesso ministro dell’Interno all’Assemblea costituente. Erano cominciati gli intrighi di palazzo nelle cui maglie cadranno molte vittime.
Il particolare delle granate, alle quali accennano in mezzo rigo i giudici di Viterbo, ma soprattutto i testimoni, è un aspetto nodale per capire le finalità della strage. 445 L’uso di quegli ordigni (o come li chiamavano gli americani “bombe aeree simulate”) tendeva a disperdere la folla per meglio consentire ai gruppi che provenivano dal basso e anche agli altri che si trovavano appostati tra i roccioni, di operare in modo mirato con maggiore possibilità di riuscita. Faceva parte delle procedure da manuale. Se tutte quelle armi da guerra fossero state dirette fin dall’inizio sulla folla, quella mattina si sarebbe avuta un’ecatombe.446 L’attacco doveva essere portato al podio, al gruppo dirigente: un’operazione da commando paramilitare che si svolgeva in uno scenario concepito secondo un sistema di scatole cinesi. La banda di Giuliano era bene in vista. Vi erano poi gli uomini “invisibili” (i confidenti delle forze dell’ordine: Ferreri/Fra’ Diavolo e i fratelli Pianello) che non dovevano spuntare neanche nel rapporto giudiziario, cioè nell’atto di accusa degli autori della strage; in ultimo vi erano coloro che le voci popolari, quella mattina di tragedia, additavano genericamente evocando azioni di violenza e gli “americani”. 447 A suggellare l’operazione o, meglio, l’affare che ne sarebbe derivato per molti, naturamente, c’erano anche i mafiosi. Non potevano mancare. I boss locali stavano giocando una loro partita e non potevano consentire che altri la gestissero senza di loro.
Caduti e feriti
Il piano d’assalto su di una folla inerme di donne, bambini e lavoratori in festa dovette apparire a molti non proprio una bella trovata. Non lo fu anche perché pagarono il conto soprattutto bambini e ragazzi, madri e padri innocenti, famiglie in festa interamente decimate. Il numero più alto di vittime si ebbe tra coloro che si erano collocati più vicini al podio, verso il quale vi era stata una vera e propria convergenza di tiro, per colpire il bersaglio. Lo si desumeva dall’altissimo numero di morti e feriti che caddero attorno a quel punto. Lo stesso Giuliano, pochi minuti prima dell’attacco, era stato visto dai cacciatori sequestrati guardare ripetutamente, col binocolo, in quella direzione, ma appunto per questo, non è proprio detto che fu il suo Breda mod. 30, che si era usato durante la guerra a fare la strage. Il maresciallo Parrino era a pochi metri dal punto in cui s’era messo a parlare l’oratore. Vide cadere accanto a sé Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, e Giovanni Megna. All’incredulità e al terrore collettivo seguì un fuggi fuggi generale, tra urla di disperazione di madri che chiamavano i figli, di persone che cercavano un riparo nelle scarpate o nei cunettoni dello stradale, o dietro qualche roccia. Giovanni Grifò, dodici anni, di San Giuseppe Jato, era andato a comprare delle nespole nei mercatini improvvisati dalle Camere del lavoro; fece in tempo a raggiungere la madre per dirle che era stato colpito al fianco destro da un proiettile. Venne adagiato, con gli altri feriti, su un carro e quindi trasportato nel suo paese e poi a Palermo, dove morì in ospedale448 il 15 maggio. Sorte analoga toccò ad altri suoi compaesani: Vincenza La Fata, una bambina di nove anni, che morì sul colpo, Giuseppe Di Maggio, tredici anni, Filippo Di Salvo, quarantotto anni (morirà, dopo atroci sofferenze, il successivo 11 giugno). Si contavano, poi, gli altri morti, di Piana degli Albanesi: Francesco Vicari, Castrenze Intravaia, un ragazzo di diciotto anni, Serafino Lascari, Vito Allotta di diciannove anni.
Undici morti. La furia criminale sembrava essersi abbattuta di più sui pianesi che avevano tardato ad arrivare, come se un cupo presentimento li avesse prima avvertiti. Sul terreno restavano ancora ferite ventisette persone: Giorgio Caldarella che perdeva la funzionalità dell’arto inferiore destro, Giorgio Mileto, Antonio Palumbo, Salvatore Invernale, Francesco La Puma, Damiano Petta, Salvatore Caruso (che resterà invalido a vita), Giuseppe Muscarella, Eleonora Moschetto, Salvatore Marino, Alfonso Di Corrado, Giuseppe Fratello, Pietro Schirò, Provvidenza Greco (che perderà l’uso della vista e della parola), Cristina La Rocca, Marco Italiano, Maria Vicari, Salvatore Renna (ferite anche per lui invalidanti), Maria Caldarera, Ettore Fortuna (che sarà costretto a rimanere per sei mesi a letto, con postumi invalidanti), Vincenza Spina, Giuseppe Parrino, Gaspare Pardo, Antonina Caiola, Castrenze Ricotta, Francesca Di Lorenzo, Gaetano Modica. Tutti, con una pietosa opera di volontariato, nei modi più improvvisati, furono condotti ai loro paesi di origine per ricevere i primi soccorsi, e da qui poi, con mezzi di fortuna o autocorriere a disposizione sul posto, furono trasportati all’ospedale della Filiciuzza di Palermo, dove giunsero nel primo pomeriggio. Alcuni di questi feriti, come Vincenza Spina, moriranno in seguito a causa delle lesioni riportate. Ma nessuno ha mai fatto un calcolo dei morti in conseguenza dei danni irreparabili subiti durante la strage e anche a causa dell’assoluta mancanza di una qualsiasi forma di soccorso da parte delle ambulanze dei vari ospedali, che rimasero totalmente inerti.
Note
440 Cfr. Portella della Ginestra cinquant’anni dopo. Documenti, a cura di G. Casarrubea, Roma, Salvatore Sciascia editore 1999, volume II, pp. 29-66, allegato n. 4 (pubblicato su iniziativa di P. Manali). Le testimonianze riportate in questo paragrafo sono contenute nel vol. suddetto.
“Posso assicurare – dichiarava il testimone davanti alla Corte – che tanto dalla montagna Pizzuta che dalla Cometa sparavano con le mitragliatrici. Sentii inoltre che si sparava pure con mitragliatrici da un terzo posto e cioè dalle falde della stessa montagna Cometa, che digradano verso la galleria non molto lungi dalla diga del lago. [...] So che due ragazzi di San Giuseppe Jato, che erano venuti insieme ieri con gli altri, videro nei pressi della galleria, di cui sopra ho fatto cenno, due persone che portavano addosso una mitragliatrice ciascuna. Essi erano stati allontanati dalla diga, verso cui erano diretti, da un uomo in maniche di camicia e con baffi
che, qualificandosi per custode, aveva detto che in quei pressi non si poteva stare.”
441 Cfr. Cav, verbale di continuazione di dibattimento, teste Giovanni Parrino, 13 giugno 1951, cartella n. 4, vol. V, n. 3, f. 382, retro. “Egli [Giacomo Schirò, N.d.A] iniziò il suo discorso dicendo che finalmente si ritornava alla vecchia consuetudine di festeggiare il 1° maggio ed aveva aggiunto altre poche parole quando si udirono alcuni spari, che io e gli altri percepimmo come spari di mortaretti. [...] Anche sulla montagna Cometa vidi persone, ma non posso stabilire se fossero pastori o banditi.” E ancora: “I primi colpi non furono neppure da me avvertiti, o almeno non li intesi passare sulla testa, e quindi penso che avessero avuto una direzione verso l’alto. Non posso dare spiegazione come mai i primi colpi non avessero raggiunto il podio, perché era naturale che si volessero colpire quelli che erano attorno al podio, che dovevano essere le autorità.”
442 Rispettivamente dissero: “Il signor Schirò salì sul podio che è al centro della radura ed aveva pronunciato poche frasi per commemorare la giornata, quando si udirono raffiche di spari. Si credette trattarsi di spari di mortaretti o razzi (“carrittigghi”), ma le raffiche si ripeterono e la gente cominciò ad essere colpita e a cadere al suolo”. “Ad un tratto abbiamo udito degli spari, che da prima furono ritenuti prodotti da mortaretti.”
443 Cfr. dichiarazione resa all’autore nell’aprile 1998.
444 L’elenco delle armi in uso durante il fascismo lo troviamo in una pubblicazione del Comando generale della gioventù italiana del Littorio, edita, nel 1940 a cura dell’Opera di Previdenza Mvsn, Il premilitare.
445 Cfr. La strage di Portella della Ginestra, a cura di G. Casarrubea, vol. III, Documenti, Sentenza di Roma del 10 agosto 1956, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2001, allegato n. 6.
446 Cfr. ibidem
447 Per quest’aspetto mi permetto rinviare ai seguenti miei lavori: Portella della Ginestra, cit.; G. Casarrubea, Fra’Diavolo e il governo nero, cit., nonché ai voll. II e III di Documenti editi dalla casa editrice Sciascia di Caltanissetta nel 1999, e nel 2001 a cura della biblioteca comunale di Piana degli Albanesi, diretta da Pietro Manali.
448 Cfr. Agca, Tpui, Esame di testimonio senza giuramento. Testimone Vincenza Spadaro, madre del Grifò, ucciso. 15 maggio 1947. Cart. n.1, vol. D. ff. 107-108.
v. anche il sito della fondazione di vittorio |