Cornell Woolrich
Woolrich - Irish ha scritto numerosi racconti, e, come accade sempre in questi casi, le raccolte e antologie si sono susseguite, in edizioni diverse, con criteri e titoli i più vari: qui ne ricorderemo solo alcune:
Gran parte del poco che sappiamo di una vita così scarsa di avvenimenti come quella di Cornell Woolrich viene dalle scarne testimonianze di prima mano di coloro che hanno intrattenuto con lui rapporti di lavoro, come Lee Wright, consulente della casa editrice Simon & Schuster; come Barry N. Malzberg, editor della Scott Meredith Literary Agency e poi scrittore in proprio; e come i suoi colleghi scrittori di pulps, tra i quali Michael Avallone – al quale dobbiamo l’ultima fotografia conosciuta di Woolrich – Frank Gruber e Steve Fisher. Quest’ultimo, nato nel 1912 come Stephen Gould Fisher e scomparso nel 1980, è noto in Italia esclusivamente per Quando sarò impiccato [I Wake Up Screaming, 1941], uno dei grandi capolavori del romanzo noir americano e suo unico lavoro pubblicato nel nostro paese. Fisher era giunto a New York nel 1934 dalla California e, dopo una faticosa gavetta nel mercato delle riviste popolari, condivisa con decine di altri colleghi, era riuscito a sfondare anche sui periodici più sofisticati come il Saturday Evening Post, grazie a una serie di racconti d’atmosfera che si rifacevano in pieno al modello noir che proprio Woolrich aveva contribuito a creare. Gruber e Fisher, abituali compagni di bevute, tentarono per lungo tempo, inutilmente, di convincere Woolrich ad uscire dal suo isolamento. Ecco come la racconta Gruber: «Io e Steve eravamo a Yorkville con le rispettive mogli a farci qualche birra, e così ci venne in mente di telefonare a Woolrich per invitarlo ad unirsi a noi. Fu sua madre Claire che rispose al telefono, e ci trattò da cani… non ci lasciò nemmeno parlare con lui». Ma, seppur di rado, Woolrich riusciva a volte a sfuggire alla sorveglianza materna e scappava a farsi un goccetto con gli amici; «Era alto – ricorda Fisher – tutto pelle ed ossa, rosso di capelli, molto pallido; l’unico uomo di mia conoscenza che, in quegli anni, portasse una bombetta». Con I Wake Up Screaming Steve Fisher riuscì, nel 1941, a compiere il gran salto dalle pubblicazioni periodiche al mondo dei libri in edizioni rilegate. Il romanzo, in seguito apparentemente riscritto da Fisher nel 1960 per una nuova edizione (nota 1), ebbe un tale successo da aprire all’autore, in brevissimo tempo, le porte di Hollywood come sceneggiatore (fu sua la singolare idea, in The Lady in the Lake [1946], diretto e interpretato da Robert Montgomery, di adottare la soggettiva totale, tanto che il protagonista Philip Marlowe è visibile solo quando è riflesso negli specchi), ed ebbe ben due versioni cinematografiche: una diretta nello stesso 1941 da H. Bruce Humberstone (e nota in italiano come Situazione Pericolosa, con Victor Mature e Betty Grable), l’altra diretta nel 1953 da Harry Horner e intitolata Vicki. Quel che più conta per il nostro discorso, comunque, è che nel libro, concepito con tutta evidenza come un tipico romanzo a chiave, e nel quale sono riconoscibili, oltre quelli che vengono largamente citati con il loro vero nome, celebri personaggi cinematografici e letterari dell’epoca, il narratore/sceneggiatore viene portato sulla soglia della pazzia da un satanico e psicopatico poliziotto di nome, guarda un po’, Ed Cornell, descritto come un uomo «rosso di capelli, bianchissimo di pelle, dall’aspetto malaticcio e quasi di cadavere, con i vestiti sbagliati e una bombetta in testa». Questo poliziotto, sessualmente impotente, vive in un vecchio hotel, nella cui stanza ha eretto un piccolo altare a memoria della donna da lui amata, la stessa per la cui morte sta cercando di incastrare il protagonista del libro. In Situazione pericolosa, uno degli archetipi assoluti del film noir, la parte del poliziotto corrotto, ispirata nel nome e nell’aspetto a Cornell Woolrich, è affidata a Laird Cregar, attore di imponente stazza, e quindi nel fisico totalmente dissimile da Woolrich, ma capace di escogitare, per questo ruolo, una delle più grandi prestazioni nell’intera storia del cinema (e non stiamo scherzando). Francis M. Nevins, nella sua biografia di Woolrich del 1998 (First You Dream, Then You Die), considera questo scambio di battute tra Betty Grable e Cregar come il perfetto momento woolrichiano in un film che ufficialmente con lo scrittore non ha niente a che vedere (nota 2): Grable: A che serve una vita senza speranza? Cregar: Si può fare… Poco tempo dopo, a trent’anni, Laird Cregar moriva di anoressia, causata dalla rigidissima dieta cui si era sottoposto (aveva perso cinquanta chili, a colpi di anfetamine, per interpretare un personaggio che lui riteneva dovesse essere magro). Woolrich, pur conducendo una vita da semirecluso, aveva capito perfettamente che in «Ed Cornell» Steve Fisher aveva ritratto proprio lui; ma non se l’era presa più di tanto. Anzi, è probabile che, in un certo senso, fosse lusingato da questa identificazione. Sicuramente si riconosceva nella venerazione che Ed Cornell era in grado di portare alla donna amata, che nel caso di Woolrich era, come si è visto, la madre Claire. Basta leggere la dedica riportata all’inizio di Phantom Lady [La donna fantasma, 1942]. All’appartamento 605, Hotel M… In totale gratitudine (per non doverci vivere più) Questa apparentemente criptica epigrafe verrà spiegata da Woolrich soltanto nel 1968: «Nel 1942 ho vissuto in una stanza d’albergo, da solo, per tre settimane; e poi una notte lei mi ha chiamato dicendomi “non posso vivere senza di te, devo vivere con te, ho bisogno di te”, e io ho messo giù il ricevitore e ho fatto i bagagli e sono tornato da lei, e per il resto della mia vita non ho trascorso una notte lontano da lei, neanche una. So bene cosa ha pensato la gente di me, ma non me n’è importato niente, non me ne importa adesso e non me ne importerà finché avrò vita». E non portò mai rancore a Fisher, anzi. Nel 1947, sull’onda del successo di Dead Reckoning [Solo chi cade può risorgere], un tesissimo noir con Humphrey Bogart e Lizabeth Scott, che Fisher aveva brillantemente sceneggiato, a quest’ultimo fu affidato l’adattamento cinematografico del racconto I Wouldn’t Be in Your Shoes [L’impronta dell’assassino], una delle storie più intricate e, diciamolo pure, pasticciate di Woolrich. Fisher si trovò ben presto in difficoltà. «Se Woolrich aveva un limite come scrittore, era quello di non rileggere ciò che scriveva. Avrebbe potuto farlo con facilità, ma in realtà credo non gli interessasse più di tanto. Era colpa delle sue abitudini lavorative, del vivere in quella stanza d’albergo scrivendo tutta la notte, fino al mattino. Non correggeva, limava, e neanche rileggeva il racconto una volta che era stato messo su carta. Per questo motivo, mi disse una volta, quando era alla fine di un racconto era talmente esausto che non vedeva l’ora di lasciare i personaggi al proprio destino… Ma uno sceneggiatore deve puntare ad una fine comprensibile e significativa per il suo film, e I Wouldn’t Be in Your Shoes non ce l’aveva. Finiva con il protagonista nella cella della morte, senza una spiegazione del perché gli fossero capitate tutte quelle sventure. Così andai a New York per cercare di convincere Woolrich a darmi una fine ragionevole per il film. Beh, avevo fatto tutta quella strada per lui, ma riuscii a parlarci solo per telefono… Sua madre non gli dette il permesso di uscire dalla stanza d’albergo per incontrarmi. Quel che mi disse Woolrich, comunque, fu: “Usa lo stesso finale di I Wake Up Screaming”. Mi prese un colpo. Il cattivo di quel film era alto, rosso di capelli, pelle e ossa, con la bombetta, e parlava con voce nasale. Pure il nome era sinistramente simile: Ed Cornell… Comunque Woolrich non me lo diceva con malizia, e ben presto capii che aveva ragione. Mi inventai un finale in cui il mio protagonista veniva finalmente salvato grazie alla rivelazione che il poliziotto che indagava sul caso lo aveva volontariamente incastrato per levarselo dai piedi, così da potergli liberamente insidiare la moglie… Funzionò». I rapporti di Woolrich con il cinema sono sempre stati vissuti dallo scrittore in maniera estremamente conflittuale; un fenomeno assai singolare per un autore che è stato tra i più saccheggiati e sfruttati dal mondo delle immagini in movimento. Già dai suoi esordi letterari, grazie al successo del suo primo romanzo Cover Charge (1926) e, ancor più, del secondo libro, Children of the Ritz (1927) Hollywood aveva convocato il giovane autore, offrendogli un contratto da sceneggiatore presso la First National Pictures. Nei tre anni di permanenza in California (1928-1931), però, Woolrich non sembra aver mai partecipato alla realizzazione di alcun film – nemmeno a quello che il regista John Franklin Dillon trasse da Children of the Ritz, e che risulta sceneggiato da Adelaide Heilbron. Non è ancora chiaro, quindi, di cosa si sia occupato Woolrich a Hollywood: è probabile, comunque, che abbia dedicato gran parte del suo tempo alla stesura dei tre romanzi Times Square (1929), A Young Man’s Heart (1930) e The Time of Her Life (1931), oltre ad imbarcarsi, nel dicembre 1930, in un frettoloso matrimonio con Gloria Blackton, ventenne figlia di J. Stuart Blackton, uno dei pionieri della tecnica cinematografica. Il matrimonio, che non fu mai consumato, durò circa tre mesi, e l’evidente incapacità di Woolrich ad avere rapporti eterosessuali fu sicuramente uno dei motivi che spinsero lo scrittore a tornare a New York per vivere con la madre. L’unica traccia woolrichiana nella Hollywood dell’epoca – e tuttora da accertare con sicurezza – è la presenza, nei titoli di testa di tre film giallo-horror del danese Benjamin Christensen, di un certo «William Irish», ovvero lo pseudonimo che Woolrich, nel 1942, decise di adottare per Phantom Lady. Coincidenza? Street of Chance (1942), diretto da Jack Hively e tratto dal romanzo Black Curtain [Sipario nero, 1941], è il primo film di un certo rilievo ad ispirarsi ad uno dei suspense di Woolrich e in assoluto il primo film americano a trattare il tema dell’amnesia, destinato a rivelarsi per tutti gli anni ’40 uno dei cavalli di battaglia della cinematografia hollywoodiana. Si tratta di un film girato con un budget modesto, ma che grazie anche alla buona prova dei protagonisti Burgess Meredith e Claire Trevor riesce, nelle parole del critico Robert Porfirio, «a catturare con autenticità l’essenza del’universo woolrichiano». Non c’è confronto, ad ogni modo, con il successivo film ispirato a Woolrich, The Leopard Man (1943), tratto da Black Alibi (1942) e diretto da Jacques Tourneur. Grazie alla ispirata produzione del leggendario Val Lewton, che per molti critici è l’autentico deus ex machina del film, Tourneur riesce a realizzare un film di eccezionale valore, anche e soprattutto per la capacità di saper impiegare al meglio un budget ancora limitato, e per certi versi addirittura superiore al suo più celebrato Cat People [Il bacio della pantera , 1942]. Il successo di The Leopard Man servì, con tutta evidenza, a convincere gli Studios delle molteplici potenzialità nascoste nei lavori di Woolrich, e spinse compagnie di prim’ordine come la Universal a investire in grosse produzioni come quella, ad esempio, messa in piedi nel 1944 per Phantom Lady [La donna fantasma], uno dei capolavori di Robert Siodmak, e assegnata a Joan Harrison, che era stata per lunghi anni la produttrice dei film di Alfred Hitchcock. Su questo film, che resta uno dei più celebri della storia del cinema, specialmente per la straordinaria sequenza della jam session e dell’assolo di batteria di Elisha Cook, jr, è significativa l’opinione di Renato Venturelli, per il quale «la principale originalità del film sta nel fatto che […] la regia di Siodmak spinge ogni scena fino al limite dell’allucinazione, evitando qualsiasi risvolto sociale e spostando definitivamente l’angoscia su un piano esistenziale e metafisico» (nota 3). L’importanza di Phantom Lady, quindi, risiede soprattutto nella dimostrazione di come nell’opera di Woolrich l’elemento sociale, sempre ben presente e caratterizzato, non sia il perno della vicenda ma lasci ben presto il passo all’esplorazione del mondo dell’orrore, delle coincidenze, della casualità. Il film di Siodmak, la cui trama secondo Nevins «va ben presto per i fatti propri e diventa sciocca» rispetto al testo di Woolrich, ha a nostro avviso il suo punto di forza nella scelta di offrire, del romanzo, una lettura esclusivamente visuale (come ad esempio la scelta di escludere, per lunghi tratti, la musica di sottofondo per affidare la sonorizzazione al ticchettio dei passi di Ella Raines). In questo, Siodmak si dimostra uno dei pochi registi ad aver compreso in pieno la sorgente dell’angoscia dello scrittore, utilizzando situazioni e soluzioni analoghe anche nei grandi film non direttamente ispirati a Woolrich, come The Spiral Staircase [La scala a chiocciola, 1946], The Dark Mirror [Lo specchio scuro, 1946] e The Killers [I gangsters, 1946]. Grazie all’apertura di credito procurata da Phantom Lady, nel 1946 tre film di ottimo livello confermarono la straordinaria adattabilità cinematografica del materiale woolrichiano. La RKO mise in cantiere una eccellente rivisitazione di Deadline at Dawn [Si parte alle sei], il romanzo del 1945 a nome William Irish, assegnandone la sceneggiatura al drammaturgo Clifford Odets (1906-1963), uno dei più attivi esponenti della sinistra americana dell’epoca, noto all’epoca per il dramma Waiting for Lefty (1935), la cui azione ha luogo durante uno sciopero di tassisti, e commissionando la colonna sonora al compositore marxista Hanns Eisler. Anche il produttore Adrian Scott e il regista Harold Clurman, del quale Deadline at Dawn è l’ultimo film, erano simpatizzanti della sinistra, e verranno coinvolti negli anni Cinquanta nella caccia alle streghe di McCarthy. La sceneggiatura di Odets è abbastanza anonima, tipica dell’insistita didascalicità del commediografo, ma per Nevins è ogni tanto riscattata da folgoranti intuizioni come il momento in cui il protagonista racconta che la moglie lo ha lasciato anni prima, dicendo: «Per i primi sei anni mi sono fatto la barba tutte le sere, prima di andare a letto. Pensavo che lei potesse tornare». Il film è uscito in Italia come Nel nome dell’amore. A ruota la Universal produce Black Angel [L’angelo nero, 1946], un piccolo capolavoro tratto dal romanzo omonimo del 1943 e diretto da Roy William Neill, il regista britannico autore della maggior parte dei film della serie Sherlock Holmes con Basil Rathbone. Rispetto al romanzo da cui è tratto, il film guadagna in chiarezza e concisione, non esitando a compiere tagli anche significativi al soggetto di Woolrich, ma sempre mantenendo – nella grande lezione di Siodmak – una totale aderenza allo spirito visuale dell’autore. Black Angel, film assai misconosciuto, è un serio candidato ad una necessaria rivalutazione. Il terzo film del 1946 di ispirazione woolrichiana è The Chase, molto liberamente tratto da The Black Path of Fear [L’incubo nero, 1944] e diretto dallo stravagante Arthur Ripley. Dei film sin qui citati, The Chase è quello che più decisamente accentua le componenti visive della poetica di Woolrich. La trama – profondamente modificata rispetto al libro – è poco più di un pretesto per allineare sequenze di pura atmosfera, sia nella lunga parte onirica sia nell’avverarsi del sogno, e le evidenti lacune nella consequenzialità degli avvenimenti contribuiscono ad aumentare il fascino e la sottile inquietudine che il film comunica. Anche nel 1947 Woolrich continua ad essere un autore di riferimento per le case di produzione. La Monogram, regina del low budget, produce Fall Guy, tratto dal racconto C-Jag (1940) e lo affida al regista di origine austriaca Reginald LeBorg; contemporaneamente alla lavorazione di questo film, ne avvia un secondo, girato nel medesimo studio dal tedesco John Reinhardt, The Guilty (tratto dal racconto del 1941 Two Fellows in a Furnished Room). Chi li ha potuti vedere ne parla come di una pura e semplice perdita di tempo. Non è così, invece, per Fear in the Night [Angoscia nella notte], che Maxwell Shane dirige e sceneggia sulla base del racconto Nightmare [Incubo, 1941]. Si tratta di un ottimo esempio di B-movie, nel quale si fa largo uso di elementi onirici e simbolici, di flashback e allucinazioni, rifatto dallo stesso Shane nel 1956 come Nightmare [Giorni di dubbio]. I Wouldn’t Be in Your Shoes [L’impronta dell’assassino, 1948], diretto da William Nigh e sceneggiato da Steve Fisher, lo abbiamo già incontrato più sopra. Ê un medio prodotto d’intrattenimento, i cui retroscena di sceneggiatura, come abbiamo visto, sono ben più interessanti del prodotto finito. Ê invece Night Has a Thousand Eyes [La notte ha mille occhi], diretto da John Farrow, a dare l’impronta al 1948 woolrichiano. Tratto dal romanzo omonimo del 1945, uno dei libri più disperati e fatalisticamente rassegnati di tutta la produzione dello scrittore, e sceneggiato da Jonathan Latimer (1906-1983), uno dei maestri della scuola hard boiled, è caratterizzato da un’intensa interpretazione di Edward G. Robinson, uno dei grandi della Hollywood dell’epoca. Ma il risultato, sebbene decoroso, non è pari ai mezzi investiti. John Farrow era un eccellente regista che, sempre in tandem con Latimer, avrebbe di lì a poco realizzato il ben più significativo The Big Clock [Il tempo si è fermato, 1948, dal grande romanzo di Kenneth Fearing], ma la trattazione dell’ambiguo materiale woolrichiano non è evidentemente nelle corde della sua morale cattolica, e la misteriosa figura semiprofetica interpretata da Robinson (che in Woolrich rimane volutamente incerta tra ciarlataneria e fatalismo) prende infine una piega religiosamente sacrificale che stona pesantemente con il resto della storia. Nel 1949 assistiamo ad un altro cambio di prospettiva. Fino ad allora, ci ricorda Nevins, erano i romanzi di Woolrich a dare ispirazione a produzioni di serie A, mentre le case minori opzionavano e acquistavano i racconti. Con The Window [La finestra socchiusa], diretto da Ted Tetzlaff, operatore hitchcokiano per eccellenza (Notorious), sceneggiato da Mel Dinelli (The Spiral Staircase di Siodmak) e interpretato da una futura stella televisiva come Barbara Hale (Della Street nei telefilm della serie Perry Mason), una major come la RKO dimostrava di poter produrre film di qualità anche partendo da materiale woolrichiano di ampiezza ridotta, come The Boy Cried Murder [Scala antincendio], il racconto del 1947 che ne è all’origine. Concentratissimo ed esclusivamente focalizzato al mantenimento della suspense, The Window è il precursore, in tutto e per tutto, di Rear Window [La finestra sul cortile, 1954]. Ma la lettura hitchcockiana di Woolrich è destinata ad allargarsi anche in forme totalmente inaspettate, sul modello di quanto l’ignaro Steve Fisher aveva fatto con I Wake Up Screaming. È probabilmente Psycho, non Rear Window, il punto di massimo avvicinamento di Hitchcock a Woolrich, anche se lo scrittore non è direttamente coinvolto con la vicenda di Norman Bates e sua madre. Ma ne siamo veramente sicuri?
1 Non è altrimenti spiegabile perché le due edizioni Mondadori del romanzo siano così profondamente diverse. Per esempio, nella prima (Mondadori 415, 1957) si citano, nel paragrafo iniziale, «vecchi film di Charlie Chaplin, Jackie Coogan, Milton Sills, Harold Lloyd e Wallace Beery»; lo stesso paragrafo, nella seconda edizione italiana (Classici del Giallo 615, 1990) parla di «Zsa Zsa Gabor e Gary Cooper, Bing Crosby e Billy Holden». Nella seconda edizione italiana, inoltre, si citano film ampiamente successivi al 1941 come Improvvisamente l’estate scorsa e Beatnik in a Hot Road. Ci sembra evidente una rielaborazione, o meglio un riaggiornamento del romanzo da parte di Fisher, magari nel 1960 come riporta la data del nuovo copyright. 2 Francis M. Nevins jr, Cornell Woolrich: First You Dream, Then You Die, The Mysterious Press, New York 1988 3 Renato Venturelli, Storia del cinema poliziesco americano in cento film, Le Mani, Recco 1995 2 giugno 2008 da: http://lconti.com/
Il nero ha avuto il suo poeta. Quel genere in parte sfuggente e poliedrico che viene definito "noir", ben diverso dalla detective story, ha uno dei suoi autori leggendari in Cornell Woolrich. Il nero (black) appare, del resto, in molti titoli dei suoi romanzi, la cosiddetta "serie nera", da The Bride Wore Black (La sposa era in nero), a Black Alibi (L'alibi nero) e Rendezvous in Black (Appuntamenti in nero). Woolrich sapeva usare con abilità i meccanismi della paura e del suspense, creando un clima di angoscia dove sublimava i suoi tormenti personali. Al contrario di altri suoi contemporanei non amava il poliziesco. I suoi personaggi non sono detective o poliziotti, ma individui fragili, ossessionati, vittime di minacce sconosciute, spesso immersi in contesti ai limiti del fantastico. Woolrich non si mette dal punto di vista dell'investigatore, ma da quella degli uomini e delle donne comuni, dei piccoli criminali o di chi ha disturbi mentali. Per questi uomini e donne, l'avvenimento più banale può trasformarsi improvvisamente in un dramma o rivelarsi tragicamente profetico. Le loro vite sono dominate dal caso, la morte è dietro l'angolo e li costringe talvolta a spasmodiche corse contro il tempo. Stimato a Hollywood, non divenne mai un esponente del bel mondo hollywoodiano. Restava rintanato nella sua stanza d'albergo, non cercava i suoi partner in feste danzanti di Beverly Hills, ma tra i marinai di passaggio. Le sue ossessioni non le esibiva, non ne faceva spettacolo. I tempi sono cambiati. Oggi per vendere un autore noir è necessario trovargli una biografia maledetta o almeno bizzarra. Vediamo scrittori esibire il proprio alcolismo, impugnando sempre una birra, altri dare pubblicità ai propri drammi familiari, altri ancora vendere la propria immagine di ex detenuti che hanno sfiorato il braccio della morte o di ex terroristi in procinto di rocambolesche fughe. Woolrich era ben diverso da questi approdi della società dello spettacolo. Era maledetto davvero, inviso e agli editori e non vezzeggiato, sofferente e tormentato, costretto a rendere clandestina la propria sessualità. Veramente da maledetto è stata anche la sua fine. Solo, orfano della madre che adorava, senza una gamba e costretto sulla sedia a rotelle, malato, alcolista, in volontaria prigionia tra le pareti di un hotel. Quando è morto nel 1968, nessuno si ricordava nemmeno che fosse vivo. Non partecipava a festival cinematografici, non riceveva premi letterari. Quella sua ritrosia, quella sua distanza dalle "luci della ribalta" lo hanno oscurato ai più. Eppure le sue storie (il cui numero è colossale) restano immortali. grazie a: http://www.thrillermagazine.it/ |