David Goodis David Goodis (Filadelfia, 1917 - 1967), conosciuto anche con gli pseudonimi David Crewe, Logan Claybourne e Lance Kermit, in Italia è poco noto anche col suo vero nome. Sì, è passato sui Gialli Mondadori, ma come tanti altri, e certo senza il rilievo che avrebbe meritato. Forse perchè tra gli scrittori di noir è tra i più noir, e dunque leggermente indigesto rispetto ai gusti da lieto fine di un pubblico avvezzo ad essere rassicurato. Un allegrone come il suo maestro Woolrich, insomma, da leggere solo quando si è di buon umore, ma da leggere (se riuscite a trovarlo).
Dai suoi libri sono stati tratti numerosi film:
Strano e molto simile il destino di certi grandi autori. Emblematici, Patricia Highsmith e David Goodis, legati in patria, dove si sa nessuno è mai profeta, a una fortuna più cinematografica che letteraria, l'una costretta a emigrare nella cultura europea per darsi una voce, l'altro emarginato sulle pagine grezze dei pulp, e poi scoppiato, se pur con ritardo, come fenomeno letterario, in Francia. Due grandi, accomunati, oltre che da queste amare vicissitudini, da un colore, il nero. Un colore, ripeto, il nero, con il quale, se pur con paradigmi diversi, hanno coniugato, assieme ad altri altrettanto grandi autori, opere secondo una tematica costante, precisa, ossessiva e ossessionante, fornendo la possibilità di una connotazione di genere il più possibile ricino all'esattezza e stabilendo, per il genere stesso, dei confini meno sfumati e meno confusi di quelli preesistenti. Ma lasciamo Patricia Highsmith ai suoi incubi e alle sue lumache e veniamo a David Goodis (1917-1967) che, tutto sommato, è quello maggiormente sottovalutato, frainteso e penalizzato. Una cosa balza all'evidenza non appena ci si propone di approfondire il fenomeno Goodis. I testi di saggistica e di critica letteraria americani, anche quelli strettamente legati al genere, o lo ignorano o riportano brevi, schematiche, limitative e soprattutto acritiche annotazioni. E come avrebbe potuto, del resto, il poeta dei perdenti, il cantore dei falliti, farsi amare in una terra, l'America, che ha il culto dell'eroe vincente? ("Sventurata" direbbe Brecht "perché ha bisogno di eroi"). In Italia, (dove Goodis è stato pubblicato, in parte, negli anni Cinquanta nella collana di gialli mondadoriana) i trattati che riguardano la narrativa "gialla", gli dedicano poche righe, mettendo in risalto soprattutto la sua produzione cinematografica. E in alcuni casi, creando persino un po' di confusione. "E proprio con Dashiell Hanimett" cita una delle più attendibili fonti "... che nasce quella vera e propria scuola del giallo realistico che verrà chiamata hardboiled, il romanzo nero americano che ha per sfondo la violenza e l'azione e che comprenderà nelle sue file autori del calibro di Chandler, Dewey, Day Keene, Ross Macdonald, Goodis, Brett Halliday e altri..." C'è un po' di tutto in questa nomenclatura, ci sono lontananze infinite che separano i mondi degli autori citati, ma soprattutto c'è il solito equivoco di sovrapporre l'hard boiled ai noir. Non esiste certamente da parte di chi scrive la presunzione di dare una sigla definitiva a questo genere, cosa per altro quasi impossibile, perché, in campo letterario, le distinzioni non sono mai tanto nette e tanto precise. Né del tutto obiettive. Però, già riferendoci alla citazione riportata sopra, possiamo dire che non sempre violenza e azione sono connotazioni del "nero", perché dove c'è il "nero" c'è spesso più che altro rassegnazione, disperazione, autodistruzione, non voglia di lottare bensì di cedere, di lasciarsi andare. Come insegna Woolrich, come insegna David Goodis. Il quale, come abbiamo detto, scoppia come fenomeno letterario in Francia, dove l'entroterra culturale, ancora imbevuto di filosofia esistenzialista, è senz'altro più permeabile al suoi malesseri, al suo dolore di vivere. Allo scrittore americano, in mancanza di dati precisi, in quanto Goodis, nella sua vita, ha fatto il possibile e l'impossibile, per passare inosservato, gli stravaganti francesi hanno sempre fornito una biografia fantasiosa e molto letteraria, oltre che in gran parte inesatta, che lo vuole bello e dannato, che lo fa aggirare, di notte, travestito da barbone, in quei luridi vicoli, che tanto bene descrive, in preda a deliri alcolici; che lo fa compagno di vizi di gentaglia da bassifondi. Una sorta di Dorian Gray, insomma. Ma non è così, non è mai stato proprio così. E lo conferma una recente biografia dello scrittore, pubblicata in Francia, dal titolo Goodis: la vie en noir et blanc, e firmata da Philippe Garnier, frutto di accurate indagini, ricerche nella città natale dello scrittore, Philadelphia, e di colloqui e interviste con persone che lo hanno conosciuto o che in qualche modo hanno avuto a che fare con lui. Ciò che ne emerge è lo sconcertante ritratto di un eccentrico, di un solitario ma non certo di un alcolizzato (pare che fosse addirittura astemio), né di un lupo marinaro dei bassifondi. Racconta, per esempio Garnier, che quando Goodis viveva a Los Angeles, durante il periodo della sua connection con Hollywood, quando quindi guadagnava parecchio, abitava in casa di un amico, un avvocato, Alien Norkin, che gli affittava non una stanza ma un piccolo e scomodo divano per quattro dollari la settimana. Geneticamente incapace di spendere, Goodis "indossava i miei vecchi abiti" riferisce lo stesso Norkin "e quando diventavano troppo logori, li tingeva di blu. Alla fine, tutto il suo guardaroba era blu...". Un bambino mai cresciuto? Forse, visto che a quarant'anni viveva ancora con la madre e che le sue preferenze sessuali andavano alle donne grasse, opulente... alle balie, insomma. Un bambino comunque che non credeva nel mondo, non credeva nella felicità e nemmeno nella gioia. Un bambino adulto che, come racconta l'avvocato Norkin, ogni sera, prima di coricarsi, si inginocchiava davanti al suo divano e diceva le preghiere. O che era capace di passare una giornata intera senza fare nulla, inerte, amorfo, "in attesa" spiegava "che il mondo ritrovi la sua anima". E il mondo senz'anima è quello in cui trascinano la loro esistenza i protagonisti di Goodis, gente comune, catapultata dal destino, dal caso, da agghiaccianti coincidenze sull'otto volante della disgregazione fisica e morale. Uomini e donne alla deriva della vita, di loro stessi, rintronati dalla fatica, avviliti dalla miseria, storditi dall'alcool. Vagabondi, larve di un passato migliore che continua a opprimere come una maledizione il presente, randagi delle periferie, abitatori e strimpellatori di bettole. Poliziotti paranoici, o corrotti, o vittime essi stessi. Donne che "da tempo hanno perso le forme assieme alle speranze" merce gratuita per cinque minuti di amore, di oblio dei diseredati, mogli esacerbate che dalle luride cucine inveiscono contro mariti inetti, alcolizzati sconfìtti da una miseria che si è ingoiata anche sentimenti, affetti, passioni. E, sullo sfondo, il vicolo, ricettacolo di umori e odori, agonizzante nell'afa estiva o nella morsa del gelo invernale, ma anche sicuro asilo di tutte le disperazioni. Il vicolo che si fa persona, che diventa protagonista e che, come Vernon Street, con quella macchia rossastra di sangue essiccato sulla grigia pietra, che brilla sotto il raggio della luna, assurge a simbolo dell'impossibilità dell'innocenza in un mondo che tutto sporca, che tutto contamina. Un mondo rapace dove nessuno è in fondo responsabile del proprio destino perché è sempre e solo il destino stesso che decide. Un mondo, infine, che nega il riscatto, la speranza, la possibilità di una giustizia e persine il dolce-amaro sapore della vendetta. Anche il mondo di Chandler era un mondo corrotto, ma in questo mondo, il grande scrittore aveva fatto transitare l'eroe romantico, il paladino della giustizia che combatteva i mali della società con una sorta di furore mistico, anche se mascherato da cinismo. Nell'arte occorre sempre un principio di redenzione, sosteneva Chandler ed è proprio questa, forse, la vera linea di demarcazione tra l'hardboiled e il noir. Anche nel peggiore dei mondi Chandler aveva acceso la fiaccola della speranza. Nel suo mondo, David Goodis l'ha spenta. da Gian Franco Orsi - Lia Volpatti, C'era una volta il giallo. 3. L'età del sangue, Alacran, 2007, pp. 136-140
David Goodis nasce nel 1917 a Filadelfia, quattordici anni dopo un altro maestro del noir, Cornell Woolrich. Come Woolrich, vive al margine, facendo il possibile e l’impossibile per passare inosservato. Lo hanno descritto come un bello e dannato, alcolizzato, barbone che si aggira di notte per i bassifondi e i vicoli della sua città. Altri lo hanno descritto come un eccentrico, solitario, tirchio e addirittura astemio. Ma per lo più queste descrizioni sono romanzate. Certo, Goodis era un bambino mai cresciuto che a quarant’anni, come Woolrich, viveva ancora con la madre. Morì nel 1967, un anno dopo la madre, a quarantanove anni, nella totale indifferenza. Se Woolrich è il cantore dell’angoscia, possiamo affermare che Goodis è quello del fallimento, come dimostrano i titoli dei suoi romanzi: Street of No Return, Street of the Lost, Down There, The Wounded and the Slain, Dark Passage. Anche la parola nero viene usata nei titoli dei suoi romanzi: Black Friday, Black Pudding. I suoi personaggi sono spesso persone socialmente degradate, alle quali non è data nessuna possibilità di salvezza se non l’oblio tra le ombre: “Era giunto nel Quartiere Malfamato sette anni prima, comparendo dal nulla come tutte quelle altre ombre a due gambe. Con fatica, e non senza arrancare, aveva fatto il suo ingresso in quel mondo per assicurarsi un posto alle mense dei poveri che stavano fuori dalle missioni, e aggiungersi a quell’assurda parata di larve umane che circolavano su e giù per River Street. Senza niente in tasca, e nessuna espressione negli occhi, si era arruolato nella società poco invidiabile degli sbandati e dei derelitti, gettandosi su ogni vecchio materasso che gli capitasse a tiro, mangiando qualsiasi cibo che potesse scroccare, mettendosi addosso ogni sorta di straccio che raccattava qua e là.” [1] “Era come una voce che gli sussurrasse che il Quartiere Malfamato non era poi il luogo ideale per nascondersi. Era quel tipo di posto che si prendeva costantemente gioco di un povero sempliciotto. Il vagabondo faceva del suo meglio per rifuggire da ogni contatto col mondo, ma in un modo o nell’altro il mondo riusciva sempre a farsi sentire. Il mondo continuava a gettare l’esca finchè qualcuno non abboccava, e prima o dopo, inevitabilmente, l’amo incontrava la sua preda e la lenza veniva tirata su.” [2] E la preda è quasi sempre un uomo semplice, per non dire banale, che non possiede un fisico “grazie al quale superare le difficoltà”, con poche aspirazioni tranne quella di una vita tranquilla accanto ad una donna innamorata. Questo è il tipico personaggio di Goodis il quale, spinto da un destino avverso, si ritrova a fare il vagabondo, l’alcolizzato, spesso con un passato coronato di successi, che pesa come un macigno sul presente. Una scena molto forte, un pestaggio subito da Whitey, il protagonista di Strada senza ritorno, un cantante pronto a lanciarsi verso una sfolgorante carriera. Ma il cinismo di Berta e di Goodis non poteva finire in un semplice pestaggio, ma va ben oltre, togliendo a Whitney il cantante la cosa per lui più preziosa: “Ora stai bene attento” continuò Berta. Teneva il manganello da entrambe le estremità. “Voglio fare un altro tentativo. Voglio dirti quello che ti capiterà se non fai il bravo bambino. Sarà brutto, figliolo. Questa volta mirerò alla gola.” Una donna senza pietà, come senza pietà è il noir. Qui non c’è la speranza di un riscatto, la speranza nella giustizia o almeno di una vendetta. Qui non c’è speranza. Quella speranza che Chandler e gli autori di hard-boiled avevano acceso anche nel peggiore dei mondi, dove avevano fatto transitare l’investigatore-paladino della giustizia contro i mali della società. Nel noir, nei mondi di Goodis, la fiaccola della speranza è spenta. I finali sono tutti senza lieto fine, senza possibilità di lieto fine: E questo universo senza riscatto è accompagnato da un sottofondo musicale triste, fatto di sax e pianoforte, da una tromba che echeggia tra i tavoli di un night club, in altre parole il jazz. Sì, perché la musica, e in particolare il jazz, e quasi una presenza costante nei romanzi di Goodis e nel noir in generale. Protagonisti dei romanzi di Goodis sono spesso musicisti falliti come Whitney di Street of no return o Edward Webster Lynn di Down There ai quali solo la musica può donare qualche attimo di dimenticanza, di riconciliazione con se stesso. Musica che ha il potere di far dimenticare la tristezza del “fottutissimo mondo”: “Avevi una voce che sembrava provenire dalle altezze della luna, dicevano, o dalle profondità del mare. Si alzava di tono e si abbassava, poi si rialzava nuovamente. Una voce che tirava su anche te, quando la sentivi. Era come se potesse farti diventare completamente triste e felice, ma sempre elevandoti; e allora non ti restava altro che chiudere gli occhi, chiudere gli occhi senza più badare a questo fottutissimo mondo, solo restartene seduto ad ascoltare quella voce.” [7] Non solo musica suonata dal vivo ma anche un disco, di quelli in vinile appoggiati lentamente sul grammofono, posando delicatamente la puntina sui primi solchi che producono fruscii all’inizio del brano: O semplicemente accendendo la radio può partire un’orchestrina che suona jazz, un jazz nero come la notte:
[1] David Goodis, Strada senza ritorno, Mondadori, Milano, 2000, pag. 11. (Ed. orig.: David Goodis, Street of no Return, Fawcett, New York, 1954). grazie a: thrillermagazine.it/ |