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Giuseppe Lippi
Carr e il fantastico |
Montague Rhodes James, un famoso autore inglese di storie di fantasmi, teorizzando sul proprio genere disse una volta: «Talora è necessario avere una via d'uscita per una spiegazione naturale, ma dovrei aggiungere: che questa porta sia abbastanza stretta perché non ce se ne possa servire» (1). Rovesciando questa frase si ottiene la ricetta di quasi tutto il fantastico di John Dickson Carr. Ecco che cosa avrebbe detto il nostro autore: «Talvolta è necessario avere una via d'uscita per una spiegazione soprannaturale, ma dovrei aggiungere: che questa porta sia abbastanza stretta perché non ce se ne possa servire».
Ma stando così le cose, non se ne dovrebbe concludere che John Dickson Carr sia «estraneo» al fantastico? Certo, egli ci lascia intravedere il miraggio di una spiegazione che non è di questo mondo, ma poi, nella maggior parte dei casi, la mette da parte a favore di soluzioni più «razionali». (È un po' il gioco che facevano anche le prime autrici gotiche, Anne Radcliffe e Clara Reeve, e il giallo ha parentele indubbiamente non trascurabili con il gotico).
In realtà, concludere che John Dickson Carr sia un autore «ai margini» del fantastico (come fa ad es. Teo Mora in un avvincente e pionieristico articolo su questo tema apparso quattro anni fa) (2), non mi sembra una soluzione soddisfacente. Dico subito perché: non bisogna confondere «fantastico» con «soprannaturale». L'osservazione, che poi è lo spunto per una solida teoria strutturale di un genere letterario, si deve a Tzvetan Todorov, che nel suo citatissimo studio sulla Letteratura fantastica così definisce il genere: «In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli, né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l'avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un'illusione dei sensi, di un prodotto dell'immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l'avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote (...).
«Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l'una o l'altra risposta, si abbandona la sfera del fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo strano o il meraviglioso. Il fantastico è l'esitazione provata da un essere che conosce soltanto le leggi naturali, di fronte a un avvenimento apparentemente soprannaturale» (3).
Benché, per una serie di ragioni, questa definizione sia poco popolare tra gli appassionati di horror, fantasy e affini, bisogna riconoscere che possiede una coerenza estranea a tutti gli altri tentativi fatti in questo senso. Certo, come ogni definizione ha i suoi limiti, ma per il momento funziona egregiamente. Ora, se si adotta il punto di vista di Todorov (che poi non è solo di Todorov), è evidente che molti romanzi di John Dickson Carr rientrano nella categoria del fantastico, e che altri ancora rientrano in quelle affini dello «strano» e del «meraviglioso». Essi, infatti, sono costruiti sul classico meccanismo dell'esitazione: questo delitto è opera del diavolo? Dei fantasmi? Sembrerebbe proprio di sì, ma forse c'è un'altra spiegazione... L'esitazione è matenuta fino all'ultima pagina, quella delle rivelazioni, e a volte anche oltre: infatti le spiegazioni, in Carr, sono ambigue e talora volutamente «aperte». L'esempio ideale è dato dal romanzo La corte delle streghe (The Burning Court, 1937), in cui esistono ben tre possibili soluzioni, una delle quali implica il soprannaturale.
Ma si possono fare altri esempi. In Il mostro del plenilunio (It Walks By Night, 1930, che è anche il suo primo romanzo) Carr introduce la figura di un licantropo; in Lettore, in guardia! (The Reader Is Warned, 1939) Sir Henry Merrivale deve sbrogliare un'intricatissima matassa e vedere se è effettivamente possibile uccidere una persona a distanza, senza nemmeno toccarla.
In un acuto saggio dedicato a Carr, lo scrittore francese Thomas Narcejac analizza il tema centrale dei suoi romanzi, quello della «camera chiusa», e giunge a queste conclusioni: «La stanza chiusa rappresenta il simbolo del mondo corporeo, con tutte le sue leggi materiali e la sua logica "a tre dimensioni": ma ugualmente si producono in essa eventi che mettono in scacco questa logica in un certo senso profana, e che si possono spiegare soltanto con un'altra logica, più flessibile, più comprensiva, che tiene conto giustamente della dimensione trascendente delle cose e degli esseri» (4).
Dunque, anche nei suoi mysteries più «razionali» e più scientifici, Carr si serve di un simbolo (la stanza chiusa) che di per sé è apportatore di trascendenza, cioè di una visione super-razionale del problema. Del resto, in poche ma finissime righe, Narcejac illustra il perché psicologico e storico di questa scelta: «Poiché siamo in Inghilterra... il soprannaturale è comunemente riconosciuto come "l'altra faccia" della natura, o, se si preferisce, come la natura liberata dallo spazio e del tempo (...). Lo spiritismo è passato di qui. Non si può sottovalutare l'enorme importanza che lo spiritismo aveva presso gli anglosassoni all'epoca in cui nacque il romanzo poliziesco: è sufficiente ricordare che Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes, era anche un cultore convinto dello spiritismo (...). Dall'evento materiale a quello immateriale, dal corpo fisico al corpo "astrale", dallo psichismo incarnato a quello disincarnato, lungo una linea che va dal meno evoluto al più evoluto, non c'è soluzione di continuità. Tutto il terrestre si ritrova contenuto e sublimato nello spirituale [corsivo nostro]».
Ma non basta. Prosegue Narcejac: «Come Freeman si ingegnava a dimostrare l'onnipotenza della deduzione, così Carr si diverte a negarne l'efficacia. Vuol essere il mago della ragione umiliata; cosa che non gli impedisce, con l'aiuto di due dei suoi detective preferiti, Gideon Fell e Sir Henry Merrivale, di proporre soluzioni accettabili a chiunque sia in grado di riflettere. Ai suoi occhi, tuttavia, ragione e buon senso non sono affatto compatibili: se la spiegazione scientifica (prodotto della ragione) entra in conflitto con i dati immediati della conoscenza (buon senso), se da un lato bisogna ammettere che la stanza è sempre rimasta chiusa, e dall'altro non si può fare a meno di constatare che in essa è avvenuto qualcosa d'insolito, nasce fatalmente, nella mente stessa, contraddizione e dolore. Il fantastico è la nevrosi dell'intelligenza...
«John Dickson Carr ha dunque un'idea della spiegazione del mistero molto diversa da quella di Ellery Queen. Per Queen, in ultima analisi, la realtà è del tutto intelligibile. Per Carr, invece, la realtà è enigmatica e ammette contemporaneamente i due tipi di soluzione: l'una, che si propone unicamente di collegare le apparenze in un sistema coerente, senza pretendere di penetrare fino in fondo la natura delle cose; l'altra, che si limita a constatare i fatti così come appaiono, perfettamente consapevole che il mistero costituisce l'essenza del mondo» (5).
Ecco perché non mi sento di relegare Carr «ai margini del fantastico», ma invece di considerarlo una figura completa anche sotto quest'aspetto. Del resto, negli ultimi anni sono usciti alcuni volumi che dovrebbero fugare ogni dubbio in proposito. Fa spicco I delitti del diavolo, uscito nel 1981 nella Biblioteca del Giallo Mondadori e comprendente un romanzo e due racconti; ma anche quel piccolo gioiello che è La fiamma e la morte (Fire, Burn! del 1957), in cui l'immagine poliziesca sposa un tipico tema della fantasia com'è quello dei viaggi nel tempo.
Siamo dunque in pieno fantastico. Ma l'importante, a mio avviso, è insistere su questo punto: Carr accede al fantastico esaltando la «ragione». È proprio la ragione (o la sua «nevrosi») a imbandire in lui i più succulenti festini dell'aldilà...
(1) M. R. James, «Introduction» a Ghosts and Marvels, a cura di V. H. Cpllins, Oxford University Press, 1924. Cit. in Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica (Introduction à la littérature fantastique, 1970), Garzanti, Milano, 1977 e 1981, pag. 29.
(2) Teo Mora, Tre autori ai margini del fantastico: Gaston Leroux, John Dickson Carr, Yambo, in «Alternativa», nn. 1/2, 1980, Omegna (NO).
(3) Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica (Introduction à la littérature fantastique, 1970), Garzanti, Milano, 1977 e 1981, pag. 28.
(4) Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco (Une machine à lire: le roman policier, 1975), Garzanti, Milano, 1976, pag. 110.
(5) Thomas Narcejac, Il romanzo poliziesco, cit., pagg. 109-110,118-120. |