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Mauro Boncompagni
Carr e il romanzo storico |
«To write good history is the noblest work of man», «scrivere della buona storia è la più nobile occupazione dell'uomo» - così leggiamo nella Preface for Connoisseurs in Murder che Carr antepone al suo unico libro che sia anche la ricostruzione di un famoso delitto storico, The Murder of Sir Edmund Godfrey (Hyperion, 1975, p. 15).
Questa novelization fece la sua comparsa nel 1936; due anni prima Carr aveva pubblicato, con lo pseudonimo di Roger Fairbairn, un romanzo d'avventura e di intrighi politico-spionistico, Devil Kinsmere, ambientato in quella stessa Inghilterra post-cromwelliana del 1670 che fa anche da sfondo - con pochi anni in più di differenza - alle vicende narrate nel caso Godfrey. Si tratta, con tutta evidenza, di un periodo particolarmente gradito a Carr, non solo perché il lavoro del 1934 venne poi riscritto e ripubblicato col proprio nome (ma con un titolo diverso, Most Secret ) trenta anni dopo, ma soprattutto perché quello che rimane il più originale e corposo tra i romanzi storico-polizieschi dell'autore americano, The Devii in Velvet, si svolge nell'Inghilterra restaurata e stuartiana del 1675, in posizione quasi simmetrica tra il 1670 del primo romanzo e il 1678 del famigerato complotto papista, in cui è - come sanno gli storici - inserita la vicenda Godfrey.
Chiedere ad un tenace conservatore quale Carr perché amasse tanto parlare di questa particolare Inghilterra post-rivoluzionaria, che aveva fatto giustizia di imbarazzanti miti populistici ed era ritornata ad incipriarsi nuovamente le parrucche, è senza dubbio formulare una domanda importuna; meno importuno, forse, sarebbe chiedersi come nasca in Carr questa insistita attenzione alla storia, così incontenibile da dover essere travasata, ad un certo punto, direttamente all'interno delle strutture del romanzo poliziesco. Perché fu questa la via - diciamo pure, romanzata - attraverso la quale Carr cercò di avvicinarsi alla «più nobile occupazione dell'uomo». Chi conosce i primi romanzi di Carr, compresi quelli firmati Carter Dickson, sa benissimo quanto spesso l'autore americano abbia costruito le sue vicende facendo ampi ricorsi ad episodi storici, vuoi in chiave macabra (La casa stregata, II cantuccio della strega) vuoi come elementi di contrappunto allo snodarsi dell'azione principale (La vedova rossa).
La corte delle streghe, forse il più grande romanzo di Carr, certamente quello che meglio ne esprime le tendenze, è una sorta di palinsesto a doppio registro, di racconto insieme storico e contemporaneo nel quale passato e presente procedono in modo parallelo fino ad intersecarsi nello sconcertante finale. Un certo interesse per la storia, quindi - e sia pure in chiave talvolta esotica o folcloristica -, è un connotato che si ritrova già nelle prime opere di Carr e che è facilmente spiegabile con la volontà dello scrittore americano di ricreare le atmosfere del romanzo gotico, per le quali la sospensione magica fornita dal passato - specie se rivisitato in chiave «maledetta», con tutto il corteo di streghe, vampiri, assassini diabolici, ecc. - è ingrediente assolutamente vitale.
Ma quel che accade dal 1950 - anno in cui Carr pubblica La sposa di Newgate - in avanti è altra cosa ancora. A partire da questa data, infatti, Carr comincia a scrivere veri e propri romanzi storici, sia pure raccogliendo la narrazione intorno ad un enigma centrale che deve essere risolto. La storia non è più, qui, usata come materiale di contorno, come elemento per insaporire la vicenda e conferirle un alone di lontananza macabra o magica, ma diventa il cuore stesso degli eventi, il loro spessore e la loro consistenza. Tutto quel che accade in questi romanzi non è storico soltanto nel senso che essi - come è pur vero - siano ambientati in una particolare epoca, ma in quello, ben più decisivo, che il profumo della vicenda, il linguaggio dei personaggi, il loro modo di pensare e di muoversi nei luoghi che li circondano evocano già di per sé il passato, ne sono come radicalmente investiti, anche se Carr non ce lo dicesse o ci tenesse segreta la data in cui si svolgono i fatti. Più che contenuto della narrazione, la storia diventa l'orizzonte di pensabilità della vicenda. Nessuno dei dodici romanzi di questo genere, che Carr scrive dal 1950 al 1972, fa eccezione a questo discorso; e tutti, a prescindere dalla loro diversa qualità, se chiamati a verificarlo risponderebbero positivamente. Il modo in cui parlano e si muovono i personaggi della New Orleans del 1912, ricostruita in The Ghosts' High Noon, non è quello in cui potrebbero riconoscersi gli ufficiali della Francia napoleonica che fanno la loro comparsa in Capitan Tagliagola; così come grande è la differenza - di stile, di mentalità, di costume - che intercorre tra il Principe di Galles di ...Ma il terrore rimane e il Jonathan Whicher - modello storico del Sergente Cuff di collinsiana memoria - che ritroviamo in Scandal at High Chimneys.
I romanzi storici di Carr sono dunque, innanzitutto, evocazione di un'atmosfera, fragranza di un'epoca, sortilegio di un attimo fermato e sottratto alla consumazione del tempo appunto perché - faustianamente - «bello». Pur di recuperare il fascino di questa visione, diventano possibili persino i patti col diavolo (elemento per il quale Carr poteva anche tenere presente il Monaco di Lewis) e i viaggi a ritroso nel tempo, quasi che di fronte all'ostinata volontà di rivivere il passato il presente non potesse opporre resistenza alcuna. Carr ne sapeva qualcosa, visto che questa decisa conversione verso la storia si origina anche da precise circostanze biografiche. Si apra a p. 69 il recente H. M. e il fantasma di un amore, e si consideri rivolto a Carr il discorso inquisitorio con il quale Crystal apostrofa Cy Norton (una controfigura dello scrittore che amava spesso paludarsi, nei suoi romanzi, nelle vesti di giornalista o di storico): «Voi desiderate l'Europa, e particolarmente l'Inghilterra, come era prima della guerra. Ma i giorni del passato son volati via irrevocabilmente. E voi lo sapete e non riuscite a sopportarlo, e questa consapevolezza vi sta avvelenando la vita».
Proprio nel 1948, un anno prima che apparisse il romanzo da cui è stata tratta la citazione, Carr faceva ritorno in America portandosi con sé le proprie frustrazioni e - come Cy Norton - le proprie immedicabili nostalgie. L'Inghilterra post-bellica non era più quella nella quale Carr aveva trovato l'ispirazione per i suoi romanzi. Le case vittoriane con le loro magnifiche camere chiuse erano state spazzate via - idealmente o realmente - dal polverone della guerra; la stratificazione sociale, così perfettamente delineata negli anni Venti o Trenta, cominciava a conoscere alcuni violenti scossoni tellurici; i valori andavano modificandosi ed era sempre meno possibile scorgere in questa modificazione quegli elementari principi di lealtà, onore e giustizia ai quali Carr continuava a voler rimanere fermamente legato. Tutto quel background, insomma, sul quale Carr aveva fino allora costruito i suoi romanzi sembrava essersi polverizzato e dissolto nel nulla. Il bello è che non c'era modo di venire a capo di questo nuovo e più angosciarne delitto impossibile. Non è un caso che Merrivale arresti le proprie indagini al 1953 (ma l'ultima sua avventura veramente grande risale a quattro anni prima, al romanzo citato sopra); Fell, più volonteroso, prosegue rispetto al collega di quattordici anni, ma tutti i suoi casi dal 1958 al 1967 non sono che una pallida eco, un triste declino rispetto alle grandi imprese deduttive a cui ci aveva abituato negli anni Trenta e Quaranta.
Il ritorno al passato, l'immersione battesimale nel succo amniotico e purificatore della storia diventava allora per Carr una necessità non meno esistenziale che letteraria, non era altro che la possibilità di recuperare un mondo di esigenze, sensazioni e valori a cui il presente sembrava aver interdetto ogni aspirazione a trovare uno spazio e ad imporsi.
E se il romanzo storico, nel genere poliziesco, incontra oggi più di ieri il favore di autori e pubblico (e basterebbe qui pensare, tra i primi, a pochi nomi, i primi che vengono in mente, da Mignon G. Eberhart a William De Andrea, da Ellis Peters a Richard Grayson, da Peter Lovesey a George O'Toole), è forse perché quanto aveva pionieristicamente intuito Carr comincia a diventare sensibilità diffusa, e chi è insomma perfettamente consapevole che nell'età del disincantamento e della razionalizzazione le camere sono tutte aperte, difficilmente riesce a resistere alla tentazione di mettersi in viaggio con la macchina del tempo, per vedere se altrove ne resti qualcuna provvidenzialmente chiusa.
È un viaggio fascinoso, non privo di ironia e nostalgia: il suo punto d'approdo è un luogo che esiste soltanto in quanto può essere rivisitato, e come tale è incessantemente conteso tra un sorriso scherzoso che se lo lascia alle spalle (un po' come Stravinskij «rivisitava» il Settecento musicale) e un sentimento malinconico che sa che quanto più lo ama e quanto più gli si avvicina tanto più lo fa diventare irraggiungibile.
È in questo doppio, continuo movimento di avvicinamento e di allontanamento che si svolge quel gioco col passato a cui danno vita i romanzi storici di Carr; è un gioco sofisticato ed elegante, sottile e. disinvolto, talora un po' compiaciuto di sé - un gioco per futurologi distratti, trasformatisi in antiquari.
da Il Giallo Mondadori, n. 1821, 25.12.1983 |