Alberto Burgos

Le Brigate Garibaldi



Premessa

Partigiano: letteralmente chi parteggia per un'idea, un partito. Per estensione il termine ha assunto un significato più specifico, e per partigiano comunemente s'intende un combattente armato che non fa parte di un esercito regolare ma di un movimento di resistenza e che solitamente si organizza in piccoli gruppi, detti anche bande.
In Italia con questo vocabolo ci si riferisce ai combattenti dela Resistenza, anche se, in realtà, questo termine fu poco usato durante il conflitto: i partigiani si facevano chiamare patrioti, e i nazifascisti li chiamavano banditen, entrambi usando una parola dal forte significato simbolico.

La lotta partigiana è quasi sempre una guerra per liberarsi da un'occupazione militare: durante la seconda guerra mondiale oltre alla Resistenza italiana (che pure fu la più forte ed efficace: i combattenti, e i morti, italiani sono superiori a tutte le forze resistenti europee prese nel loro insieme, ad eccezione di quelle jugoslave) vi furono importanti movimenti come ad esempio l'Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia, la Resistenza greca, il Maquis francese; in tempi più recenti, in Indocina, il Vietminh contro i francesi e i Vietcong contro gli USA, i mujhaidin afghani contro l'URSS. Ma vengono considerati movimenti partigiani anche quelli operanti in guerre civili e altri conflitti interni di uno stato: tali sono stati considerati quelli della guerra civile spagnola e della Lunga Marcia in Cina, anche se in effetti spagnoli e cinesi si strutturarono in veri e propri eserciti.

Un partigiano non è sempre riconoscibile come combattente perché solitamente non ha uniforme: se, dunque, caratteristica peculiare delle fomazioni partigiane - oltre al fatto che l'adesione alla lotta armata è assolutamente volontaria - è l'assenza, parziale o totale, di segni di riconoscimento, ciò è dovuto sostanzialmente alla carenza di mezzi (si pensi al peso decisivo che in un conflitto assume l'apparato industriale di un paese: d'altra parte uno dei motivi centrali per cui si fanno le guerre è proprio il business) e alle ovvie difficoltà logistiche di forze costrette ad azioni clandestine contro un esercito di occupazione. Diverso è il caso dei gruppi che si muovono nelle realtà urbane (v. più avanti GAP e SAP): se in montagna il partigiano può indossare un fazzoletto di riconoscimento o qualcosa di simile a una divisa (1) in città ciò equivarrebbe a un suicidio e quindi il partigiano, in assoluta clandestinità, è vestito come un qualsiasi civile.
Esattamente questo è il pretesto adottato dalle forze di occupazione per qualificare i resistenti semplicemente come "terroristi": tali, ad esempio, erano considerati i vietcong dalle forze armate statunitensi...

Per spiegare la durezza delle rapppresaglie da parte dei tedeschi, si è talvolta sostenuto che essa era l'inevitabile risposta ad azioni condotte da gruppi che non avevano in alcun modo il legittimo status di combattenti, e naturalmente tale tesi era pubblicizzata con insistenza dai comandi germanici, tanto che i partigiani venivano appunto definiti banditi.

Le cose stanno in modo assai diverso. Nell’ambito del Diritto Internazionale Umanitario, durante le operazioni di terra della seconda guerra mondiale la principale norma di riferimento è la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907, e in particolare il regolamento allegato alla quarta Convenzione “Leggi e usi della guerra terrestre.
All’art. 1 si definiscono come combattenti “l'esercito, ma anche le milizie ed i corpi volontari che riuniscono le seguenti condizioni:

    1. avere alla loro testa una persona responsabile;
    2. portare un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza;
    3. portare apertamente le armi;
    4. conformarsi nelle loro operazioni alle leggi e agli usi della guerra.


Dalla norma si evince come le formazioni partigiane italiane, pur non rispettando sempre il secondo requisito, dovessero considerarsi come legittimi belligeranti, soprattutto una volta organizzati sotto il comando del CLN, nonostante la mancanza del suddetto requisito venisse spesso considerata sufficiente al mancato riconoscimento dello status di combattente.
Subito dopo l’8 settembre, inoltre, poteva essere loro riconosciuto lo status in questione grazie all’art. 2 del medesimo regolamento: “la popolazione di un territorio non occupato che, all’avvicinarsi del nemico, prende spontaneamente le armi [...] senza avere avuto il tempo di organizzarsi conformemente all’art. 1, sarà considerata come belligerante qualora porti le armi apertamente e rispetti le leggi e gli usi di guerra."

Ma, si sa, gli eserciti di occupazione in genere non improntano certo le loro azioni secondo le norme del Diritto internazionale e usano tutta la potenza mediatica (di nuovo, gli USA sono i maggiori esperti in materia) della parola "terrorismo."

Dal 25 luglio all'8 settembre 1943

Le brigate Garibaldi furono, durante la Resistenza italiana, le formazioni partigiane promosse e organizzate dal Partito Comunista Italiano, alle quali, però, aderirono molti socialisti e senza partito, come era accaduto con la costituzione delle formazioni armate in difesa della Repubblica spagnola.
Il termine “brigata” fu correntemente adottato da tutte le formazioni di una certa consistenza numerica, praticamente sostituendo nell’uso il termine “banda”, fino a diventare sinonimo di “formazione partigiana”. Il nome richiamava le imprese di Garibaldi e dei suoi volontari, ma anche quelle più recenti delle Brigate Internazionali costituite in difesa della Repubblica spagnola durante la guerra civile del 36-39.
Le brigate Garibaldi facevano capo a un comando unico: Luigi Longo ("Gallo", comandante generale), Pietro Secchia ("Botte" o "Vineis", commissario politico), Giancarlo Pajetta ("Luca", vicecomandante).

Quando alla fine di agosto del 1943 si andò prospettando “la necessità urgente di organizzare la difesa nazionale contro l’occupazione e la minaccia di colpi di mano da parte dei tedeschi” la Direzione del PCI presentò al Comitato delle opposizioni un Promemoria in cui fra l’altro si riteneva indispensabile procedere “alla formazione e all’armamento di unità popolari che, ripetendo le gloriose tradizioni garibaldine del Risorgimento, diano alla guerra un chiaro e preciso carattere di liberazione nazionale.” (2) Qualcuno potrebbe obiettare che si trattò più che altro di una scelta propagandistica, ma non bisogna sottovalutare in alcun modo l’operosità intellettuale dell’antifascismo: per molti il confino fu - come si disse con orgoglio e senso dell’umorismo - una vera e propria “università”, in cui si leggevano Pisacane, Cattaneo, Mazzini, Labriola, De Sanctis, e dunque il richiamo a Garibaldi e alle camicie rosse non era un’operazione di facciata, ma una vera e propria dichiarazione d’intenti.

Dopo il 25 luglio "il governo dei 45 giorni" di Badoglio applica risolutamente una massima cara ai govenanti italiani, "Marciare contro il popolo come contro il nemico", e soprattutto su pressione della Corona, si reprimono duramente le manifestazioni popolari: gli operai delle Reggiane, con i loro 9 assassinati dai militi badogliani, furono probabilmente le prime vittime della lotta di liberazione, insieme ai 23 morti di Bari, (3) dove l'esercito attaccò frontalmente un corteo inneggiante alla fine del regime (ma in varie altre occasioni i reparti militari si rifiutarono di sparare sui dimostranti).
I partiti antifascisti, tuttavia, riescono ad acquisire rapidamente una notevole influenza e discutono animatamente sul da farsi. C'è chi come Duccio Galimberti dichiara subito che "la guerra continua, ma contro i tedeschi", chi invece, in particolare l'ala moderata dell'antifascismo, assume una posizione attendista, quasi si trattasse di una schermaglia politica, e non di una situazione che poteva precipitare da un momento all'altro.
Come infatti avevano previsto i comunisti (e come, del resto, era ben chiaro a tutta la classe operaia del Nord), sta per scattare il piano germanico (Operazione Alarico) di occupazione dell'Italia, e occorre prepararsi adeguatamente: ma neppure i più convinti sostenitori della lotta armata (Luigi Longo per il PCI e Ferruccio Parri per il Partito d'Azione) prevedevano quello che sarebbe realmente accaduto, che cioè il Re ed il governo avrebbero lasciato la nazione in mano ai tedeschi, senza dare alcuna direttiva, nè tantomeno preparando alcuna forma di contrasto: un'infamia ancora più grave di ciò che aveva fatto Mussolini, il quale, se non altro, si era assunto fino in fondo le proprie responsabilità.
L'assurdo è che il 25 luglio nella penisola vi erano poco più di 100.000 tedeschi, a fronte di una quantità ben maggiore di soldati italiani: certo, l'efficienza e la qualità erano nettamente a favore dei primi, ma un intervento energico e chiaro avrebbe potuto consentire di organizzare una difesa efficace. Invece, con un comportamento fin troppo tipico di certa mentalità italiana, si lasciarono passare le settimane senza fare nulla, mentre Hitler aveva fatto rapidamente affluire ai valichi alpini ben undici divisioni, una poderosa armata che si poteva agevolmente coordinare con quella che aveva riunito le 3 divisioni del sud con quelle delle isole. "Ogni giorno che passava non poteva significare altro che un aggravamento della situazione. Che cosa sperava dunque il governo Badoglio nel rinviae quella rottura ch'era diventata inevitabile fin dal 25 luglio? Confidava ciecamente nell'arrivo degli angloamericani che avrebbero sbarazzato in un batter d'occhio l'Italia dal pericolo di una dominazione tedesca. [...] Il governo Badoglio non può prendere alcuna determinazione chiara perché è preso nella morsa della più grave delle contraddizioni: raccogliere il voto popolare di por fine nel tempo più breve alla guerra fascista e al tempo stesso dover continuare, data la sua origine e i suoi compiti di classe, la politica di repressione e di reazione." (4) Insomma, con buona pace di chi mette in rilievo solo l'ignavia di Badoglio e del Re, fu sostanzialmente un elemento politico - il terrore di essere spazzati via dalla democrazia - che indusse i governanti ad un atteggiamento irresponsabile e criminoso.

E l'8 settembre sarà proprio la capitale a disvelare tutto ciò. Se al Nord la situazione era inevitabilmente dominata dai nazisti, essi a Roma non avevano speranze: due divisioni contro le quattro italiane, un intero corpo d'armata! Ma il Comando supremo ordina di ripiegare per proteggere la fuga di Sua Maestà... Qualche generale conserva un po' di buon senso, e di onore, e di fatto non rispetta l'ordine: il più agguerrito reparto germanico dell'Italia centrale, la 3a divisione di fanteria corazzata, subisce perdite pesantissime. Non solo, dunque, è possibile fronteggiare i tedeschi, ma i soldati italiani dmostrano concretamente che sono in grado di battersi e di vincere. Paradossalmente è proprio questo elemento che spaventa la Corona: farsi interprete dei diffusi sentimenti antihitleriani e chiamare il popolo alle armi significherebbe "dar ragione ai comunisti", quindi si preferisce confermare la scelta di abbandonare la capitale alla propria sorte, respingendo la ferma richiesta delle forze democratiche ( PCI, PSI, Pd'A, DC, PLI, DL) di organizzare la resistenza.
Preso atto di questo estremo atto di viltà, che darà il via libera all'occupante, "i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza."
Roma vede esaurirsi rapidamente l'eroica volontà di resistere, l'occupante dilaga, ma la Resistenza è appena cominciata.

Resistenza!

Nelle altre zone del Paese le forze armate italiane non hanno la consistenza dei reparti dislocati a Roma, e la mancanza di direttive (in realtà i generali comandanti le piazze di Milano, Torino, Genova, Trieste, diffondono vergognosi proclami a cedere le armi) provoca uno sbandamento generale, anche se non mancano importanti episodi: a Tarvisio il comandante della guarnigione della "Guardia alla Frontiera" rifiuta di consegnare le armi e per un giorno poco più di 200 alpini resistono a due battaglioni delle SS, lasciando sul terreno 21 caduti; i superstiti vengono deportati in Germania; a Piombino si costituisce un forte reparto composto da operai, soldati e marinai che annienta il nemico: seicento tedeschi vengono uccisi e duecento sono fatti prigionieri; a Bari un generale si trovò a combattere strenuamente a fianco dei suoi uomini per difendere il porto; a Salerno un altro comandante di divisione si rifiuta di arrendersi e viene fucilato; la Marina rifiuta compatta la resa e si dirige verso Malta, subendo perdite gravissime data l'assenza di qualunque copertura aerea. Sul comportamento di questa forza armata va osservato che non contò solo la tradizionale fedeltà alla monarchia: in genere i marinai erano decisamente più "professionalizzati" degli altri militari, avevano col mondo esterno maggiori contatti ed erano meno permeabili alla propaganda fascista: celebre rimane l'episodio dei marinai delle navi alla fonda nel porto di Gaeta che, all'indomani del 25 luglio, salutano col pugno chiuso il vaporetto che riporta sulla terraferma, finalmente liberi, i confinati di Ventotene.
Anche all'estero vi furono importanti momenti di reazione dei soldati italiani: non solo a Cefalonia, ma in Corsica, a Lero (nel Dodecanneso), in Tessaglia,


La costituzione del comando dei distaccamenti (5) garibaldini

La struttura classica presentava un comandante militare e un commissario politico, struttura questa che si replicava anche nelle squadre, i battaglioni e gli altri sottoraggruppamenti.
Associati alle brigate Garibaldi erano i gruppi di azione patriottica (GAP), che nelle città operavano azioni di sabotaggio e attentati contro gli occupanti nazifascisti.
Le brigate ricevevano in genere ordini dal rappresentante del PCI nel CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Il rappresentante del PCI era uno dei 6 membri del comando del CLN.
Nell'ambito delle forze militari della resistenza, le brigate Garibaldi costituivano il gruppo più numeroso e organizzato; sebbene legate al PCI, non bisogna ridurle a braccio armato del partito, impensabile anche a causa della clandestinità durata 20 anni.
Responsabile delle brigate Garibaldi era Luigi Longo, in seguito segretario del PCI.
Durante la prima parte della resistenza, 1943-44, fino alla svolta di Salerno di Togliatti, ci furono talvolta screzi con gruppi partigiani di diverso colore politico, ed anche nei confronti della popolazione civile.
Alla fine ufficiale della guerra 30 aprile 1945 gli alleati e il CLN ordinarono la consegna delle armi e lo scioglimente delle unità partigiane. Le Brigate Garibaldi non obbedirono in misura omogenea a questi ordini. Per alcuni elementi la guerra continuò, con un accentuato contenuto sociale e di classe.

I GAP

Formati dal comando generale delle Brigate Garibaldi alla fine del settembre 1943 i GAP, Gruppi d'Azione Patriottica, nacquero su iniziativa del PCI, sulla base dell'esperienza della Resistenza francese. Erano piccoli nuclei di partigiani, quattro o cinque uomini, un caposquadra, un vice caposquadra e due o tre gappisti. Tre squadre di quattro uomini costituivano un distaccamento, con alla testa un comandante e un commissario politico.

Solo i componenti di una stessa squadra dovevano essere a contatto fra loro. Bene addestrati, vivevano isolati in una clandestinità assoluta. La loro azione, fondata sulla convinzione della necessità di incalzare il nemico senza tregua, aveva compiti di sabotaggio e di azioni armate, tra cui l'eliminazione dei nazifascisti in ambito cittadino, soprattutto delatori, o noti torturatori .

La loro azione minava così i gangli vitali della macchina da guerra hitleriana. Nelle azioni più importanti doveva sempre essere presente il comandante o il commissario del distaccamento. I comandanti GAP di solito avevano esperienza militare, in quanto reduci della guerra civile spagnola, ex-militari dell'esercito italiano o con esperienze precedenti in terra di Francia.

SAP Squadre Azione Patriottica

Analoghe alle formazioni GAP erano le SAP, ovvero Squadre d’Azione Patriottica.

Formate nell’estate 1944 come formazioni di circa quindici-venti uomini ciascuna, nacquero per espandere la partecipazione popolare alla lotta; lo dimostra, fra l'altro, la composizione numerica maggiore delle squadre in rapporto ai GAP. Il numero di componenti del gruppo SAP non poteva garantire una struttura coesa come quella dei GAP, rendendo più carenti le garanzie di clandestinità ed esponendo quindi maggiormente il fianco a delazioni. All'inizio svolsero azioni di sabotaggio, fiancheggiando GAP e Brigate partigiane; divennero quindi formazioni di alto profilo militare fino alla quasi indistinguibilità dai GAP (in relazione anche all'evolversi sotto il profilo strettamente militare della lotta partigiana).




Note

(1) Così, ad esempio, recita la delibera (30.09.1944) del CLN della Zona Libera della Carnia con cui si istituisce il Corpo di Polizia, e analoghe disposizioni valevano, almeno in linea teorica, per le formazioni combattenti: "Uniforme - Dovrà essere adottata la foggia sportiva partigiana (pantaloni tipo militare e giubbotto di panno) con bracciale tricolore della G.P., con berretto tipo sciatore con un disco avente un P in campo giallo. I gradi saranno costituiti come segue: tre stellette militari su una striscia per l'Ispettore; tre senza striscia per l'aiutante, due per i Capi Sezione e una per i Capi Posto: tutte sul bracciale, in campo rosso sotto le iniziali G.P."
(2) Fondazione Istituto Gramsci, Archivio Partito Comunista, XVII, p. 21
(3) Cfr. A. Degli Espinosa, Il regno del Sud, Ed. Riuniti, 1971, p. 112
(4) R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, 1964, pp. 71-2
(5) A seconda dei periodi storici e delle tradizioni nazionali, le forze militari sono state suddivise secondo innumerevoli criteri: in genere nella fanteria la massima unità da guerra è il corpo d’armata, articolato gerarchicamente in divisioni, brigate, reggimenti, battaglioni, compagnie, plotoni. In merito al numero che, invece del nome, sovente veniva assegnato ad una formazione, fu Giancarlo Pajetta (Capo di Stato Maggiore - e di fatto Vice Comandante generale - delle Brigate Garibaldi e membro del Comando generale del Corpo Volontari della Libertà) che ebbe l'idea di non farlo corrispondere all'effettiva consistenza: in altre parole, chiamare "seconda" una brigata significava far capire al nemico che i partigiani ne avevano solo due, e quindi... Le formazioni partigiane, comunque, non rispondevano certo ai tradizionali criteri militari, anche perché sottoposte a continui