«Fuori otto!», grida un ufficiale tedesco. Dal gruppo di soldati e ufficiali italiani si alzano in dieci, venti. Per andare a morire. L'ufficiale nazista allora urla: «Ho detto otto, non venti. Che razza di disciplina avete nel vostro esercito?». Gli altri siedono di nuovo in attesa di essere massacrati come tutti gli altri. È la terribile storia della divisione Acqui (qui un saggio di Giorgio Rochat; v. anche divisioneacquicefalonia.it) e dei suoi uomini che si trovavano sull'isoletta greca di Cefalonia, in quel del 1943, nei giorni del «tutti a casa», quando tutti credevano che, dopo tante sofferenze, la guerra sarebbe finita. Per loro, per quelli della «Acqui», fu invece solo l'inizio. Poi, il successivo martirio. Mille storie personali da raccontare, mille tragedie, tanto sangue, tanto orrore, la ribellione di un nuovo esercito con fondamenta democratiche è la nascita della Resistenza contro i nazisti e i loro camerati fascisti. Ci sono poi altre storie intorno alla vicenda della «Acqui». Storie che riguardano partigiani greci e uomini della popolazione civile che furono impiccati o fucilati solo per aver aiutato e protetto i soldati italiani superstiti e feriti. Il massacro dei soldati e degli ufficiali italiani avviene a Casetta Rossa e a San Teodoro. È il racconto dei pochi superstiti e del cappellano militare don Romualdo Formato che vide tutto e che continuò ad urlare disperato, per ore: «Basta, basta! Non avete ancora ucciso abbastanza?» Ma quelli lo spinsero da una parte e continuarono. Sì, i superstiti videro e, dopo, raccontarono. Raccontarono del colonnello d'artiglieria Romagnoli che, dopo avere affidato a don Romualdo un biglietto per la moglie e la figlia, portò la mano al cappello, salutò tutti e si avviò con la pipa in bocca al muro della «casetta rossa» dove buona parte della divisione «Acqui» venne massacrata. I superstiti videro anche il capitano Carrocci, ufficiale d'ordinanza del generale Antonio Gandin, comandante della divisione, inforcare gli occhiali e prendere posto per morire. Il colonnello Fioretti, invece, si piazzò davanti al plotone d'esecuzione e aspettò la scarica tenendo in mano una fotografia dei suoi bambini. Il capitano Gasco dei carabinieri, insegnante di filosofia al Liceo Alfieri di Torino, disse ai colleghi: «Come faranno a vivere senza di me i miei cinque figli!» Dopo un attimo di silenzio si avviò al muro per farsi ammazzare. A fianco a lui, il comandante della Marina Mastrangelo e il capitano Castellani, prelevati dall'ospedale, a stento riuscirono a reggersi in piedi. Erano feriti, ma si tennero appoggiati l'uno all'altro fino al momento della scarica. Fu un massacro infame, la vergogna della «grande Germania» nazista che riuscì a sterminare, in un paio di giorni, 400 ufficiali e oltre 6.000 soldati in divisa, colpevoli soltanto di non aver ceduto le armi ai tedeschi e di essersi battuti in nome dell'Italia. Altri 2.000 uomini prigionieri, verranno caricati su alcune motovedette che saranno fatte passare in una zona di mare ilnteramente minata. Così, anche quei duemila, morranno saltando sulle mine. Tutto avvenne in un momento tragico per il nostro paese. Quando, cioè, dopo il crollo del fascismo, la fuga del Re, di Badoglio e degli stati maggiori a Sud, tutto finì nel caos per migliaia di soldati italiani spediti in Grecia, in Polonia, in Francia, in Albania e in Urss. La divisione «Acqui», in quei giorni, occupava le isole greche di Cefalonia, Zante, Corfù, Itaca, Kaoo e altre zone. L'otto settembre, dopo la firma dell'armistizio con gli alleati, Badoglio dirama il celeberrimo e ambiguo messaggio con il quale ordina ai soldati italiani di non battersi più contro gli alleati, ma avverte che le truppe "dovranno reagire ad ogni attacco, da qualunque altra parte provenga." I soldati italiani in Grecia e in mezza Europa, si domandarono, a quel punto, chi era l'amico e chi il nemico, ma non avranno mai risposte certe. Dovranno decidere da soli. I tedeschi, anche in Grecia, imporranno subito alla «Acqui», di consegnare le armi o accettare di arruolarsi con Hitler. È a questo punto che il generale Gandin, chiederà a tutti agli uomini della «Acqui» di votare se cedere ai tedeschi o combattere. Fu una iniziativa senza precedenti nell'esercito italiano. D'altra parte, molti soldati della «Acqui» avevano già fatto sapere che non si sarebbero arresi mai, mai. In particolare gli uomini della batteria comandata dal capitano Amos Pampaloni, apriranno subito il fuoco contro delle chiatte tedesche che tentano di sbarcare soldati nell'isola. Quasi tutti sceglieranno la ribellione e la battaglia. Durerà sette giorni. Gli italiani non hanno aerei né navi a protezione e subiscono, notte e giorno, continui bombardamenti. Sanno che dall'Italia non arriveranno mai aiuti. Sull'isola, intanto, sono arrivati i rinforzi tedeschi. Alla fine gli italiani dovranno arrendersi. Subito comincia la strage. Il generale Gandin che ha comandato «i banditi», viene subito subito passato per le armi. Poi, toccherà a tutto il resto della divisione; via via che i varii presidi si arrendono. È una infamia orrenda. Ovunque, nell'isola, ci sono cataste di morti. C'è chi, per sfida e rabbia, si fa fucilare cantando. Come alcuni napoletani che, fino all'ultimo, strillano una loro celeberrima canzone. Altri gridano «Viva l'Italia!» e altri ancora urlano «Viva la libertà» o «Abbasso i nazisti.»
Popolazione greca e partigiani, aiutano e nascondono i feriti e superstiti. A due passi da Argostoli, la capitale, il capitano Pampaloni viene fucilato, ma rimane vivo anche se ferito gravamente. Lo nascondono e Pampaloni tornerà vivo in Italia. I tedeschi catturano il giovane che lo ha aiutato. È Angelo Costandakis, figlio del pope di un villaggio vicino. Lo portano sotto un olivo, lo fanno iìnginocchiare con le mani legate e corrono a chiamare il prete per l'assistenza religiosa. ll prete è il padre del giovane. Si accosta al figlio con l'ostia consacrata ma è colto da un terribile tremore. Lo aiutano. Tuttì sentono il ragazzo che dice: «Padre ti ricordi quando ho combattuto contro gli italiani che invadevano il nostro paese? Ero soldato, sono stato un eroe e mi hanno decorato. Ora mi impiccano per avere aiutato gli stessi italiani. È strano, vero?» Il povero padre mette la sua croce pettorale al collo del figlio. Poi si allontana. Il ragazzo, dopo pochi istanti, viene impiccato. Sulla pianta, ancora oggi, i paesani hanno lasciato appeso quel crocifisso, per ricordare come morì un ragazzo greco che aveva aiutato gli italiani. grazie a: l'Unità 9 aprile 2005
Ufficiali caduti in combattimento 65 Sottoposti ad esecuzione sommaria sul campo di battaglia 189 Fucilati a San Teodoro 136 Sottufficiali e soldati Caduti in combattimento 1.250 Sottoposti ad esecuzione sommaria sul campo di battaglia 5.000 Scomparsi in mare in seguito all’affondamento di tre navi 3.000 La
divisione "Acqui"
sull'isola di Cefalonia contava circa 11.500 uomini.
(da La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, a cura di Giorgio Rochat e Marcello Venturi, Mursia) 13 settembre Nel pomeriggio, finalmente, arriva da Brindisi, dove si era trasferito il Comando Italiano, un radiomessaggio che diceva di considerare i tedeschi come nemici. Il messaggio spedito a Corfù il giorno 11 solo il 13 viene conosciuto a Cefalonia e questo sarà determinante per la vicenda. Al fine di sondare in profondità la volontà dei soldati, il generale fa preparare e diramare un ordine per un “referendum” tra le truppe nel quale ci sono tre possibilità di esprimersi: 1) con i tedeschi, 2) cessione delle armi, 3) contro i tedeschi. 14 settembre Nelle prime ore del giorno giunge al Comando Divisione il risultato del referendum del Generale Gandin: combattere. Viene consegnata la risposta italiana: “La Divisione Acqui non cede le armi. Si attende risposta.” É l’ultima notte di pace, carica però di angoscia: davanti ora c’è il nemico tedesco, senza più indugi In quest’ultima notte di quiete è come se la Acqui si caricasse sulle spalle le pene ele paure dell’Italia intera: tutto consiglierebbe di abbassare il capo, invece gli undicimilasettecento italiani pronunciano un “no” che diventa il primo mattone della rinascita. Pochissimi di loro la vedranno. 15 settembre Iniziano i combattimenti e in una prima fase gli italiani hanno ragione delle forze tedesche che fronteggiano efficacemente, facendo anche numerosi prigionieri. Nel frattempo, però, arrivano i rinforzi il battaglioni della divisione Edelweiss e della 104a Cacciatori, reparti di disciplina dell’esercito tedesco. La strategia tedesca era di usare piccole unità mobili mentre gli italiani, come già in Africa, formano unità statiche in posizione di difesa. E vi è la possibilità da parte tedesca di disporre dell’appoggio del X° corpo aereo di stanza sulla terraferma, mentre gli Italiani non possiedono forza aerea per contrastarli.
Introduzione
L'8
settembre 1943 l'Italia pagò fino in fondo il prezzo
della guerra voluta, condotta e persa senza attenuanti dal
regime fascista.La guerra italiana 1940-1943 Per vent'anni il regime fascista aveva proclamato che il suo primo obiettivo, la sua missione storica era fare dell'Italia una grande potenza grazie alla mobilitazione di tutte le energie nazionali. Lo aveva ribadito con una propaganda martellante e articolata, che dalle scuole e dalle organizzazioni giovanili fasciste raggiungeva e inquadrava gran parte della popolazione. La trionfale conquista dell'Etiopia e la proclamazione dell'Impero nel 1936 sembrarono confermare il successo della politica di Mussolini. La realtà era ben diversa: l'Italia era un paese semi-industrializzato e povero, che poteva competere con le maggiori potenze soltanto a livello di propaganda. Nella seconda metà degli anni Trenta, mentre la guerra mondiale si avvicinava e Germania, Gran Bretagna e Francia dedicavano somme colossali al riarmo, i bilanci delle forze armate italiane diminuivano in termini reali, perché le limitate risorse disponibili venivano spese in Etiopia e in Spagna per la ricerca di un prestigio illusorio, molto piú alto e fragile delle reali possibilità del paese. Nel 1939-1940, quando le aggressioni tedesche scatenavano il conflitto mondiale, Mussolini dovette convenire con i suoi capi militari che l'Italia non era in grado di affrontare una guerra all'altezza delle ambizioni e della propaganda del fascismo. Il dittatore tuttavia non poteva restare fuori del conflitto mondiale senza perdere la faccia e mettere in discussione il ruolo e il consenso del suo regime. Con l'appoggio dei capi militari ripiegò quindi su un rischioso gioco d'azzardo: puntò tutto su una rapida e definitiva vittoria di Hitler (il grande successo tedesco contro la Francia sembrava determinante) e il 10 giugno 1940 decise l'intervento italiano nel conflitto in tempo utile per salire sul treno dei vincitori e reclamare la sua parte di bottino. Si noti che le forze armate italiane, pur non potendo competere con quelle tedesche o britanniche, erano in grado di giocare un ruolo di rilievo in una guerra di coalizione. Tuttavia l'"Asse" italo-tedesco non fu mai una vera alleanza, con un impiego concordato delle risorse e una pianificazione comune delle operazioni, perché Hitler e i suoi generali non intendevano spartire con l'Italia il loro successo, né il dominio sull'Europa, mentre Mussolini non poteva accettare il ruolo subordinato che gli veniva riservato. Decise quindi che l'Italia doveva condurre una "guerra parallela" (la definizione è di Mussolini) a quella tedesca, mirando soltanto a costituire una propria sfera di influenza nel Mediterraneo. In questa prospettiva l'obiettivo dato alle truppe italiane in Africa settentrionale era di penetrare in Egitto non per battere le forze britanniche, ma per poter reclamare il possesso del paese dopo la vittoria tedesca sulla Gran Bretagna. Quale grado di superficialità e avventurismo avesse questa politica fu dimostrato dall'aggressione italiana alla Grecia il 28 ottobre 1940, scatenata per sostenere gli interessi italiani nei Balcani sul presupposto che i greci non si sarebbero battuti, mentre invece si difesero con grande energia e valore infliggendo alle nostre truppe una serie di dure sconfitte e ritirate.
Il saggio di Enzo Collotti in questo volume ripercorre con una puntuale documentazione uno degli aspetti più significativi della guerra "subalterna": l'incapacità del regime fascista di difendere le sue posizioni in Jugoslavia ed in Grecia dinanzi alla protervia con cui la Germania sosteneva i suoi interessi economici e politici. 165000 soldati italiani impiegati nell'occupazione di vasti territori balcanici e nella logorante repressione della resistenza popolare contavano bèn poco dinanzi alla superiorità militare ed economica tedesca ed al bisogno assoluto che Mussolini aveva dell'appoggio di Hitler per tenere in piedi la sua dittatura. Il fallimento della guerra fascista non deve far dimenticare che le forze armate italiane continuarono a battersi per tre anni al limite delle loro possibilità. Il regime si rivelava incapace di mobilitare le forze morali e materiali della nazione, ma supplivano valori tradizionali come patriottismo e senso del dovere, obbedienza dei soldati e forza dell'istituzione É noto il buon comportamento nel 1941-1943 delle forze motocorazzate italiane in Africa settentrionale, che potevano contare su mezzi non troppo inferiori a quelli tedeschi e inglesi. Dovrebbero però essere piú studiate le vicende delle divisioni nei Balcani nel 1940-1943, che rappresentavano all'incirca la metà delle grandi unità dell'esercito. Il saggio di Giorgio Rochat in questo volume narra sinteticamente la storia della divisione Acqui, una divisione di fanteria "media " per efficienza e vicende fino all'estate 1943, con le carenze di addestramento e inquadramento caratteristiche dell'esercito italiano, che pure si portò bene nella guerra contro la Grecia e nella successiva occupazione delle isole ioniche. Il saggio vale come rivendicazione di queste pagine dimenticate della guerra italiana e come ricordo appunto del carattere "medio" della Acqui, che nel settembre 1943 decise di combattere contro i tedeschi, mentre gran parte dell'esercito si arrendeva o disperdeva, non perché fosse un'unità sceltissima e particolarmente motivata, ma perché le circostanze le permisero di scegliere una resistenza, che invece negarono alle altre divisioni dell'esercito (come verrà in seguito illustrato). La crisi del 1943 Nella primavera 1943 la situazione italiana era irrimediabilmente compromessa. La battaglia di Stalingrado aveva rovesciato l'andamento della guerra in Russia e tolto ai tedeschi la possibilità di disporre di forze adeguate nel Mediterraneo, dove gli anglo-americani avevano ormai una superiorità schiacciante. E i grandi scioperi operai di Torino e Milano nel marzo 1943 avevano dimostrato che la dittatura non era più in grado di imporre consenso né repressione. La guerra fascista finiva in un disastro (il 10 luglio gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia senza quasi incontrare resistenza dalle forze italiane), il primo passo per uscirne era la liquidazione di Mussoliní, che di questa guerra era responsabile e simbolo, tanto che gli anglo-americani dichiaravano di non voler trattare con lui. Il re ed i capi militari, con l'appoggio dei gerarchi fascisti meno ciechi, si convinsero perciò a destituirlo il 25 luglio, suscitando grandi manifestazioni di giubilo della popolazione e l'indolore squagliamento delle organizzazioni fasciste che avevano perso ogni credibilità.< Il secondo passo era la resa agli anglo-americani. Il nuovo governo retto dal maresciallo Badoglio aprì trattative segretissime e ricche di equivoci (Badoglio si illudeva di ottenere una resa condizionata e un appoggio contro i tedeschi). Il 3 settembre fu firmato a Cassibile, vicino a Siracusa, l'armistizio che divenne pubblico e operante la sera dell'8 settembre, poche ore prima dello sbarco anglo-americano a Salerno. Si trattava di una resa senza condizioni che però implicava il riconoscimento e la continuità del regno d'Italia e del governo Badoglio e lasciava aperta la porta ad una collaborazione nella guerra contro la Germania. Restava il terzo passo, il più costoso: la rottura dell'alleanza con la Germania. Nessuno poteva illudersi che Hitler avrebbe permesso un'uscita consensuale dell'Italia dal conflitto: oltre alla difesa del prestigio del Reich e al desiderio di vendetta contro l'alleato che si arrendeva, giocavano concreti interessi economici e militari, che imponevano alla Germania di fermare quanto più a sud possibile l'avanzata anglo-americana in Italia e di mantenere il controllo dei Balcani. E i rapporti di forza complessivi stavano dalla parte tedesca: gli anglo-americani (diminuiti dalla sottrazione di truppe e materiali per la preparazione dello sbarco decisivo in Francia nel 1944) impegnavano tutte le loro risorse nel successo dello sbarco di Salerno e dell'occupazione dell'Italia meridionale, senza riserve per altri teatri per loro di secondario interesse. I tedeschi invece erano in grado di concentrare temporaneamente le truppe necessarie per obiettivi assolutamente vitali come il disarmo delle forze armate italiane, il ricupero dei loro materiali, l'occupazione della pianura padana e il dominio dei Balcani, con un'accurata preparazione iniziata sin dalla fine di luglio. Le forze italiane nei Balcani, nella Francia meridionale e nell'ltalia centro -settentrionale, quasi tutte di mediocre preparazione e orientate a compiti statici di presidio e occupazione, per di più del tutto impreparate ad un rovesciamento di alleanze, erano quindi destinate a essere sopraffatte da quelle tedesche e avviate in massa alla prigionia. Era appunto il prezzo della guerra fascista che forze armate e paese dovevano pagare, un prezzo davvero pesante. Non era però scritto che dovesse essere pagato in modo così disastroso e umiliante. Il re, Badoglio, i generali Ambrosio e Roatta, che in quei giorni costituivano il ristretto vertice decisionale (gli esponenti politici erano stati emarginati, al punto che gli stessi ministri del governo Badoglio furono dimenticati a Roma senza istruzioni), ossessionati dalla conservazione del segreto sulle trattative di resa e peraltro già paghi del riconoscimento che a loro veniva dalla firma dell'armistizio, lasciarono senza alcuna direttiva le forze armate e il paese in un momento così drammatico e si preoccuparono soltanto della loro salvezza personale. La disordinata fuga del 9 settembre verso Pescara e poi i porti pugliesi delle più alte autorità e di un centinaio di cortigiani e generali, tutti dimentichi delle loro responsabilità verso il paese ed i soldati, costituisce la pagina più brutta della guerra italiana e la dimostrazione del degrado morale delle alte gerarchie in vent'anni di dittatura. La sorte delle truppe dislocate all'estero e nell'Italia centro- settentrionale era comunque segnata, ripetiamo, ma un re, un capo del governo e un comando supremo consapevoli del loro alto ruolo si sarebbero assunta la responsabilità di emanare direttive senza equivoci per una situazione così imprevista e drammatica. Le forze armate avrebbero obbedito in stragrande maggioranza ad un ordine chiaro del re, fosse quello di arrendersi ai tedeschi senza una resistenza priva di speranze o quello opposto di combattere fino all'ultima cartuccia per cadere con onore. Il proclama diffuso da Badoglio la sera dell'8 settembre i limitava invece ad annunciare la fine delle ostilità contro gli anglo-americani e a disporre che le forze armate reagissero "ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza". In sostanza, la decisione tra resa o resistenza ai tedeschi veniva lasciata ai vari livelli di comando delle forze armate, ossia a generali abituati ad una obbedienza apolitica, che di punto in bianco dovevano decidere sotto la loro responsabilità se aprire il fuoco sugli alleati di tre anni di guerra. Una situazione che spiega perché tanti comandanti naufragarono tra incertezze e temporeggiamenti, finendo col cedere alla pressione tedesca. Soltanto vari giorni dopo l'armistizio e la fuga da Roma Badoglio e Ambrosio pensarono a emanare ordini chiari di resistenza, che però potevano valere soltanto per la divisione Acqui e pochi nuclei i valorosi, perché ormai delle forze armate italiane restavano soltanto le centinaia di migliaia di prigionieri avviati al duro destino dei lager tedeschi. L'8 settembre nei Balcani Il quadro generale del disastro dell'8 settembre 1943 è noto. In questo volume lo riprende per i Balcani Enzo Collotti nel saggio già citato, che accenna anche alla nuova sistemazione del dominio tedesco nella penisola dopo il crollo italiano, mentre Luciano Viazzi presenta una vivace narrazione della sorte delle unità italiane in Grecia e in Albania dopo l'8 settembre. Queste drammatiche vicende sono ancora oggi insufficientemente conosciute: lo smarrimento e la passività di gran parte dei comandanti, lasciati senza direttive dinanzi alla immediata e decisa aggressione tedesca, provocò la resa e lo sfasciamento della maggioranza delle unità. Viazzi illustra efficacemente quali fossero le difficoltà e i costi della resistenza che, con uno straordinario scatto di dignità e patriottismo, alcune unità vollero condurre, in un ambiente ostile, con rapporti diversi e difficili con le forze partigiane. Vicende che tornano a tutto onore delle unità di un esercito che le aveva abbandonate e che non seppe riconoscerne adeguatamente il sacrificio negli anni seguenti. Vicende che inseriamo in questo volume perché costituiscono lo sfondo di quelle altrettanto onorevoli e tragiche della divisione Acqui nelle isole di Cefalonia e Corfù, che in una situazione diversa e senza essere al corrente di quanto accadeva sul continente, compì la stessa scelta di resistere all'aggressione tedesca.
La divisione "Acqui" a Cefalonia e Corfú Cefalonia e Corfú sono parte della catena delle isole ioniche, che comprende, da nord a sud e su un arco di 250 km, Corfú, Paxos, Leucade (che gli italiani chiamavano col vecchio nome veneziano di Santa Maura), Cefalonia e la vicina Itaca, infine Zacínto, tutte occupate da forze italiane. Di queste Paxos, Itaca e alcune isole minori avevano soltanto piccoli nuclei di uomini con compiti di presidio e vigilanza antisommergibili, senza alcuna possibilità di opporre resistenza ai tedeschi. A Santa Maura erano stanziate truppe della divisione Casale (con due batterie da 75/13 del 33° reggimento artiglieria della Acqui), che non potevano non seguire la sorte del grosso della loro divisione (anche perché l'isola è in realtà attaccata alla costa greca) e infatti si arresero il 10 settembre dopo un breve scontro a fuoco, in cui caddero il colonnello comandante il 12° reggimento fanteria e due suoi ufficiali. Sappiamo ben poco di quanto accadde a Zacinto, e neppure a che unità appartenesse il suo presidio, forte almeno di 4.250 uomini. Per una sfortunata coincidenza, perché il trasporto era già in corso al momento dell'armistizio, proprio all'alba del 9 settembre due piroscafi sbarcarono a Zacinto reparti germanici di entità imprecisata, comunque sufficienti a ottenere la rapida resa del presidio. In sostanza, si combatté soltanto a Cefalonia e Corfú, presidiate dalla divisione Acqui. Questi combattimenti e la successiva vendetta tedesca sono narrati due volte in questo volume, da Mario Montanari sulla base delle fonti italiane, essenzialmente le memorie e le relazioni di alcuni superstiti (i carteggi dei comandi italiani andarono dispersi), e da Gerbard Schreiber sulla base della documentazione tedesca, che comprende i "diari" di tutti i comandi coinvolti. Abbiamo scelto di presentare due ricostruzioni degli stessi avvenimenti, di parte diversa, ma animati dallo stesso scrupolo di verità e di rispetto per i caduti, per sottolineare la drammaticità della vicenda della Acqui e per evidenziare la difficoltà di ogni ricerca storica. Come il lettore potrà verificare, i due saggi concordano sui punti essenziali, ma divergono in molti dettagli, cosa del tutto normale tenendo conto della diversità delle fonti e dei margini di incertezza propri del lavoro dello storico. Questi stessi avvenimenti ripercorre poi il saggio di Marcello Venturi attraverso le memorie e le testimonianze dei superstiti, con una straordinaria documentazione della drammaticità degli avvenimenti del settembre 1943. Le cifre esatte delle perdite italiane non potranno mai essere ricostruite per la scomparsa della documentazione dei comandi della Acqui. In sintesi, a Cefalonia c'erano poco piú di 11.500 militari italiani, di cui 525 ufficiali, in gran parte dell'esercito, con alcune centinaia di marinai e di guardie di finanza e pochi avieri. La cifra non è documentata come vorremmo, ma accettata da tutte le fonti italiane. Alla fine di settembre restavano in vita 5.000 militari italiani, come attestano concordemente i rapporti dei comandi tedeschi sull'isola, quindi le vittime della repressione tedesca furono intorno a 6.500, píú di quanto abbiano finora detto le fonti italiane (che invece esagerano il numero dei morti in mare nel corso del successivo trasporto dei prigionieri verso Atene). La loro ripartizione è per forza di cose approssimativa: le fonti italiane dicono di 65 ufficiali e 1.200 soldati caduti durante i combattimenti (in massima parte uccisi man mano che venivano sopraffatti, perché i tedeschi non facevano prigionieri), quindi i trucidati quando ormai i combattimenti erano cessati dovrebbero essere circa 5.000. Il 24 settembre vennero poi fucilati il gen. Gandin e 186 ufficiali, altri 7 il 25, e 17 marinai furono assassinati il 28, dopo che avevano collaborato ad affondare in mare i corpi degli ufficiali fucilati. Altri dati precisi non ci sono, anche il numero degli ufficiali sopravvissuti è incerto (una sessantina, piú i pochi rifugiatisi tra i partigiani o nascosti dalla popolazione). Su questi avvenimenti manca una documentazione fotografica: un fatto quasi unico nella storia della guerra, come nota Nicola Labanca riferendo in questo volume sulle sue accurate ricerche. La tragedia si consumò nel giro di pochissimi giorni, quasi di poche ore, dopo che i prigionieri (e i morti) italiani erano stati spogliati di ogni oggetto di valore. Per quanto riguarda Corfú, le fonti concordano nell'indicare un totale di 600-700 morti nei combattimenti (in gran parte trucidati dopo che si erano arresi), piú alcune decine di ufficiali fucilati dopo la fine delle ostilità. I prigionieri furono tra 9.000 e 10.000. Rinviamo ai saggi di Montanari e Schreiber in questo volume. La sorte dei sopravvissuti I superstiti di Cefalonia vennero trattati con estrema durezza nei primi giorni, come illustrano le testimonianze. Poi furono in gran parte avviati verso il porto di Atene e i campi di lavoro forzato del Reich, con piú trasporti che G. Schreiber ha ricostruito nei dettagli sulla documentazione della marina tedesca. Il 28 settembre il primo piroscafo, Ardena, carico di prigionieri oltre ogni limite di sicurezza (secondo precisi ordini di Hitler e del gen. Lanz) affondò su una mina poco a sud di Argostoli, a 800 metri da riva. Si salvarono tutti e 60 i tedeschi imbarcati, ma soltanto 120 degli 840 prigionieri chiusi nelle stive. Il 13 ottobre un secondo piroscafo, Marguerita, fu affondato in alto mare da una mina con la morte di 544 dei 900 prigionieri imbarcati (e di 5 dei 25 tedeschi). Riuscirono invece a raggiungere il porto di Atene altri quattro piroscafi con quasi 4.500 uomini, partiti da Argostoli tra il 13 ottobre e il 2 novembre, e due motovelieri con 102 uomini a fine anno. Un terzo e ultimo affondamento si ebbe il 6 gennaio con un numero imprecisato di morti, certamente meno di cento, poiché si trattava del motoveliero Alma di limitate capacità di carico. In totale i prigionieri partiti da Cefalonia furono 6.316, i morti durante i trasporti 1.264; tenendo conto dei prigionieri affondati con l'Alma, i totali salgono a circa 6.400 e 1.350. Di questi 6.400, circa 2.550 provenivano da Zacinto, gli altri, poco meno di 4.000, da Cefalonia; fu probabilmente tra questi ultimi che si ebbero tutti i morti in mare. Sappiamo ben poco di quanto accadde a Corfú. Secondo le fonti tedesche ci fu un primo trasporto di 1.588 prigionieri italiani verso Atene il 30 settembre. Il 10 ottobre la motonave Mario Roselli, con a bordo 5.500 prigionieri italiani, fu gravemente danneggiata da un attacco aereo mentre era ancora in porto e poi l'indomani affondata nel corso di un grosso bombardamento aereo, che fece anche gravi danni alla città e morti tra i prigionieri italiani a terra. Quelli che erano a bordo della nave poterono buttarsi in mare per raggiungere la riva a nuoto, ma circa 1.300 morirono per le bombe o annegati per la consueta mancanza di mezzi di salvataggío. Pochi giorni dopo un altro piroscafo riuscí a portare ad Atene 2.000 prigionieri. Gli altri furono verosimilmente condotti sul vicino continente con motovelieri e mezzi di fortuna. Non abbiamo altre notizie su quanto avvenne a Corfù fino alla liberazione. A Cefalonia rimase poco piú di un migliaio di prigionieri, inquadrati in compagnie lavoratori e come manovalanza nelle batterie costiere. Le poche notizie che abbiamo dicono di lunghi mesi di fatica, di fame, di isolamento, con un regime disciplinare pesante, ma non piú terroristico. La popolazione, che con gli italiani aveva avuto buoni rapporti, era terrorizzata, con una forte componente di collaborazionisti. I partigiani erano pochi e prudenti, intenti soprattutto a recuperare armi per la guerriglia che continuava sul continente. All'inizio del settembre 1944 le forze tedesche sgombrarono Cefalonia, dove subito si contrapposero vivacemente le formazioni partigiane dell'ELAS, di orientamento comunista, e la missione militare del governo monarchico greco, sostenuta dagli inglesi. I militari italiani furono riuniti in un "Raggruppamento banditi Acqui", agli ordini del cap. Renzo Apollonio e forte di circa 1.300 uomini, in parte provenienti dal continente, che si appoggiò alla missione del governo greco ed agli inglesi. Il 12 novembre il grosso del raggruppamento, armato e inquadrato, si imbarcò per l'Italia, salvo un centinaio di uomini che partirono volontari per combattere sul continente con i partigiani comunisti, sulle cui successive vicende non abbiamo notizie. Fu piú lunga la tragica odissea dei circa 2.500 prigionieri giunti sul continente, che si confonde con quella dei 600.000 militari italiani catturati dai tedeschi all'8 settembre che preferirono la prigionia alla collaborazione con i nazifascisti. Non possiamo perciò che rinviare agli studi sulla deportazione militare nel Reich, ricordando però che tra questi reduci della "Acqui" la morte continuò a falciare con larghezza. In via di larga approssimazione, dei 5.000 militari della "Acqui" sopravvissuti ai massacri del settembre 1943 meno di 3.500 tornarono in patria. Su Cefalonia non tornò la pace. Le vicende della lunga guerra civile greca si ripercossero aspramente sull'isola, portando all'eliminazione o all'esilio della maggior parte dei partigiani comunisti. Una cinquantina di costoro resisteva ancora in armi sulle montagne nel settembre 1948 quando la prima missione italiana poté visitare l'isola. Negli anni seguenti la lunga e dolorosa opera di recupero dei resti dei caduti non fu facilitata dal fatto che la popolazione sembrava ricordare gli italiani soltanto come nemici e occupanti, anche perché la vittoriosa resistenza contro l'aggressione italiana del 28 ottobre 1940 (tuttora in Grecia giorno di festa nazionale) veniva celebrata come la più bella pagina del conflitto. Il tempo ha cancellato le ferite della guerra e ne ha facilitato l'oblio, la popolazione di Cefalonia accoglie cordialmente i turisti italiani e tedeschi che scoprono le straordinarie bellezze dell'isola. Chi cerca le tracce del massacro di 6.500 soldati italiani trova facilmente il bel monumento ai caduti della divisione Acqui nei pressi di Argostoli, ma poi è respinto dalla fitta vegetazione, dalle nuove strade asfaltate, dalle costruzioni moderne che hanno sostituito i vecchi abitati di impronta veneziana distrutti dal terribile terremoto del 1953. Per andare oltre e ritrovare i luoghi e la memoria dei combattimenti e delle stragi ci vogliono la pazienza e l'amore di cui Christoph Schminck-Gustavus dà prova nell'ultimo saggio di questo volume, dedicato alla memoria della divisione Acqui nell'isola che vide la sua resistenza e il suo massacro. Ci sia lecito chiudere con questi versi in dialetto friulano del fante Olinto G. Perosa:
Nus
puartin |