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                          Alexander   Höbel 
                             
                            Il PCI e il   1956 | 
                       
                     
                   
                 
 
  
                  
                      1. Il cinquantesimo anniversario del 1956 - anno   cruciale per la vicenda del comunismo storico novecentesco, con il XX Congresso   del PCUS, lo scioglimento del Cominform, le rivolte di Poznan e Budapest e   l’intervento sovietico in Ungheria - ha inevitabilmente riaperto il dibattito su   quegli eventi. O meglio, di due tipi di dibattito. Quello ideologico (nel senso marxiano di produttore di falsa coscienza), condotto in primo luogo   dai mass-media, egemonizzato dai critici acerrimi e dai demonizzatori   del comunismo, i quali si fanno forza anche delle autocritiche di importanti   esponenti dell’allora PCI; e quello più propriamente storico-politico,   frutto del lavoro di vari ricercatori a livello internazionale, oltre che della   passione critica di studiosi militanti e di alcuni dei protagonisti di   allora.
  
                    Soffermiamoci brevemente sul primo versante, molto   forte soprattutto sulla vicenda ungherese. È un tipo di discussione fatta   perlopiù di anatemi, giudizi morali e a volte moralistici, che non si cura molto   dei fatti in quanto tali né tanto meno del loro contesto, né   riporta nulla della nuova documentazione emersa nei più accreditati studi sulla   guerra fredda. Parliamo, ad esempio, dei verbali del Presidium del PCUS dei   giorni che precedono il secondo intervento sovietica, che dimostrano il peso   dell’attacco anglo-francese a Suez nel determinare il mutamento di linea del   gruppo dirigente del PCUS, facendolo optare per il ritorno dell’Armata Rossa in   Ungheria.
  
                    Naturalmente la stampa ricorda solo en   passant che negli stessi giorni Israele, Gran Bretagna e Francia   attaccavano l’Egitto, che aveva osato nazionalizzare il canale di Suez. Un   articolo di “Repubblica” pare ridurre quell’aggressione quasi a un fatto di   costume, di cui segnalare aspetti “singolari” come il piano di battaglia   disegnato su un pacchetto di sigarette, sottolineando altresì che l’Egitto era   per Israele un “avversario tenace e bellicoso”, decisamente pericoloso.   Toni ben diversi, dunque, rispetto a quelli usati per i fatti ungheresi.   Cosicché, mentre si sollecitano e si raccolgono le autocritiche degli   ex-dirigenti comunisti, è piuttosto improbabile che si chieda a qualcuno dei leader politici occidentali di allora di “autocriticarsi” per Suez.   Eppure non pochi uomini politici e intellettuali occidentali appoggiarono   l’attacco, compresi molti democratici e progressisti (presidente del Consiglio   francese era il socialista Guy Mollet). Il governo italiano, che aveva giudicato   la nazionalizzazione del Canale un atto ‘illecito’ e ‘chiaramente ostile nei   confronti di tutto il mondo occidentale’, non approvò la guerra, ma il ministro   Martino alla Camera espresse comprensione verso Israele, che aveva dovuto   reprimere ‘le forze più bellicose e intransigenti dei paesi vicini’, aggiungendo   di non aver ‘potuto approvare le ultime decisioni anglo-francesi’ non in base a   un giudizio di merito, ma per non ‘menomare l’autorità delle Nazioni Unite’.
  
                    E qui veniamo a quella che si potrebbe definire la   “asimmetria delle critiche e delle autocritiche”, che rimanda a   un’asimmetria complessiva nell’informazione e nell’analisi che i mass-media impongono rispetto alla guerra fredda, e in generale al   Novecento e al tremendo scontro di classe su scala mondiale che lo ha   caratterizzato: i “buoni” sono collocati da una parte, i violenti e gli   antidemocratici dall’altra. Dimenticando che, proprio in nome dell’anticomunismo   e della “difesa della democrazia” e della “libertà” (o, come si dice più   sinceramente, “del nostro stile di vita”), si sono giustificate decine di golpe e dittature militari promossi o sostenuti dagli USA, e si sono   perpetrati una quantità di crimini orrendi, che vanno da guerre spaventose come   quella del Vietnam fino alla strategia della tensione che ha insanguinato il   nostro paese, passando per il milione di comunisti uccisi in Indonesia   dopo il colpo di Stato del 1965: un vero e proprio genocidio.   Di quest’ultimo è da poco ricorso l’anniversario: qualcuno se n’è   ricordato?
  
                    Nessuno chiede conto di tutto ciò ai politici che   sostenevano lo schieramento atlantico. E qui c’è l’asimmetria, abilmente   costruita e consolidata dai mass-media e da un revisionismo storico che   mette sullo stesso piano le foibe e la Shoah. Asimmetria per cui i   comunisti si autocriticano da 50   anni, gli ex-comunisti da almeno 15, ma non si cessa di chiedere loro pentimenti   e abiure, ma nessuno ha mai chiesto, ad esempio, a un ex dirigente della DC, di   autocriticarsi per la guerra del Vietnam, in cui gli USA massacrarono la   popolazione per circa dieci anni con bombe e napalm, mentre Moro, che   era un cattolico democratico, esprimeva “comprensione” per l’alleato   statunitense, nel quadro degli equilibri della guerra fredda, e tutti i partiti   filo-occidentali - pur con significativi distinguo - furono sulla stessa linea.   Il silenzio su questi eventi rende   dubbia - oltre che unilaterale e incompleta - l’abbondanza di commenti, servizi   giornalistici, inchieste, sui fatti ungheresi e le relative “responsabilità del   PCI”. 
                    
  
                    2. Di questo tipo di dibattito, che rimanda alla   battaglia per l’uso pubblico della storia, non si può non tenere conto, e   occorre un rinnovato impegno su questo terreno. C’è, però, anche un secondo tipo   di confronto, non pregiudiziale e non strumentale, che tenta di entrare   maggiormente nel merito delle questioni. Esso riguarda tutti i nodi del   1956, dal significato storico del XX Congresso alle nuove contraddizioni   (economiche, ideologiche ecc.) che esso apre, dalla natura della rivolta   ungherese all’intervento militare sovietico. A tale proposito, la questione   posta da Rossana Rossanda non può essere elusa:
  
                    Non è vano - scrive   Rossanda - chiedersi che cosa sarebbe avvenuto ‘se’ nel 1956 il rapporto segreto   di Kruscev fosse stato recepito come un goffo ma serio segnale, ‘se’ il PCUS e   gli altri partiti lo avessero elaborato invece che sfuggito, ‘se’ pochi mesi   dopo avessero inteso la rivolta di Poznan, e poi quella di Budapest, e infine   ‘se’ […] la seconda non fosse stata repressa dall’intervento militare   sovietico.
  
                    La possibilità, cioè, di andare verso un   socialismo che desse più spazio alla partecipazione attiva delle masse e più   ascolto ai loro bisogni - pur nella complessità della pianificazione e in una   situazione di difficoltà economica oggettiva - non va sottovalutata.   E tuttavia, oltre alla questione della realizzabilità di tale prospettiva nel   contesto dato, non si può negare che, soprattutto nel caso ungherese, accanto   alle forze riformatrici, fossero “scese in campo” anche forze apertamente anti-sistema: il simbolo della rivolta - la bandiera con lo stemma   della Repubblica tagliato - e gli obiettivi del ritiro di ogni presenza militare   sovietica sul territorio nazionale e della fuoriuscita dal Patto di Varsavia,   paiono confermarlo. E in questo quadro va considerato che, negli equilibri ferrei della guerra fredda, a   nessuna forza “anti-sistema” era consentito di accedere al potere, nell’uno come   nell’altro campo: non al PCI in Italia, perfino dopo la sua accettazione della   NATO; e tanto meno ai rivoltosi ungheresi, che volevano la neutralità del Paese   (decretata da Nagy il 1° novembre), il che significava un vero e proprio   terremoto negli equilibri tra i due campi.   È stato scritto a tale riguardo:
  
                    Proviamo ad immaginare cosa   sarebbe successo in Italia se il PCI, anziché attenersi alla logica di Jalta   avesse trasformato lo sciopero di protesta seguito all’attentato di Togliatti in   un movimento insurrezionale e in una rivoluzione socialista. C’è qualcuno, sano   di mente, convinto che gli americani avrebbero osservato impassibili un simile   evento senza usare i loro cingolati?
  
                    Quanto al PCI, la Rossanda afferma che esso nel   1956 avrebbe potuto “mettersi ragionatamente contro il gruppo dirigente   dell’URSS e dare una sponda a quanto di popolare e fin socialista c’era nel   dissenso”.   Dal canto suo, Mario Pirani contesta   il “ritardo” del PCI nel compiere lo “strappo” dall’Unione Sovietica - e nello   specifico la mancata condanna dell’intervento in Ungheria - come cause del   mancato accesso delle sinistre al governo del Paese,   Ha scritto invece lo storico Martinelli:
  
                    ‘Ritardo’ […] è   evidentemente un termine non scientifico, assai poco idoneo a dar conto […] di   fenomeni e processi reali: i quali, com’è noto, non sono meramente e unicamente   riconducibili a scelte politiche soggettive. ‘Ritardo’ rispetto a che cosa? La   storia del PCI non è […] la storia di scelte da valutare – in rapporto a uno   svolgimento finalistico e lineare – giuste o sbagliate, ma un complicato   percorso in cui giocano un peso essenziale eventi, realtà, fattori interni e   internazionali talvolta imprevedibili, tali da limitare di molto la libertà di   scelta […] dei dirigenti.
  
                    Sullo stesso inserto del Manifesto in cui è   comparso l’articolo della Rossanda, Valentino Parlato ha sostenuto una posizione   opposta:
  
                    Nel 1956 quella del PCI e di   tutti noi che restammo nel PCI fu una scelta obbligata e giusta, anche nel medio   periodo. […] c’era la guerra fredda e […] il mondo era diviso in due secondo   l’accordo di Yalta. […] dopo il primo intervento i sovietici si ritirarono e […]   il secondo brutale intervento ci fu quando Nagy […] annunciò l’uscita   dell’Ungheria dal patto di Varsavia […]. Non mi convince neppure la tesi   dell’‘occasione perduta’ da parte del PCI. A mio parere il PCI […] si sarebbe   spaccato. […] Invece, forse proprio per quell’‘occasione perduta’, già le   elezioni del 1958 segnarono un consolidamento del PCI. Il quale […] con il suo   VIII Congresso segna la fine dello stato guida e del partito guida e avvia […]   la via italiana al socialismo.  
                       
                    C’è poi un altro punto, che si dimentica sempre.   Il movimento comunista è per sua natura internazionalista. Anche al di   là della guerra fredda, è del tutto ovvio che il PCI avesse un legame organico   col paese in cui era in corso il più importante tentativo di costruire una   società socialista, e cercasse di mantenerlo in tutti i modi, sia pure in chiave   critica e cercando di avviare in Occidente un processo che sarebbe stato   necessariamente diverso. Secondo lo storico D. Blackmer, nel 1956 “l’alternativa   di separare il PCI dal movimento internazionale non esisteva come possibilità   pratica”; il PCI “non poteva fare un simile passo senza virtualmente   autodistruggersi”.
  
                    È evidente, dunque, che su queste questioni   esistono, a sinistra e tra gli studiosi, posizioni diverse, e che pertanto il   dibattito resta aperto. Anche all’interno dell’Archivio storico del movimento   operaio - la struttura di cui questa collana editoriale è emanazione - i giudizi   sul 1956 e il ruolo del PCI sono diversi, e la pubblicazione di questo volume ha   stimolato una discussione non formale né sterile, ma anzi ricca di stimoli e   sollecitazioni, che ha migliorato il presente lavoro. Tra l’altro, è parso   chiaro che la rivolta ungherese è stata un evento complesso, per cui appaiono   fuorvianti sia la definizione di “controrivoluzione”, emersa nei primi giudizi   dati dal PCI, sia quella di “rivoluzione”, oggi ampiamente in auge. Si   è trattato piuttosto di un fenomeno articolato ed eterogeneo, in cui erano   presenti diverse componenti: quella studentesca e intellettuale, di orientamento   prevalentemente nazionalista; quella operaia, di impostazione consiliare (e   dunque socialista, sindacalista-rivoluzionaria o addirittura comunista di   sinistra); e infine quella costituita dai residui dei vecchi ceti dominanti, con   l’appoggio della Chiesa, apertamente reazionaria.   L’antisovietismo, tuttavia, e/o l’ambizione di liberarsi della tutela dell’URSS,   appare l’elemento comune che poi ha determinato l’intervento.
  
                    Nel suo emendamento a una bozza di comunicato   comune col PCF, Togliatti parla di “movimento popolare” e dell’intervento   sovietico come di una “dura necessità”, incontrando l’opposizione dei francesi,   che parlano di “controrivoluzione” e intervento come “dovere di classe”. Il   comunicato comune non si farà, e anche da questa contrapposizione esce   confermata una posizione del PCI più dialettica rispetto a quella di altre forze   comuniste, anche rispetto ai “fatti d’Ungheria”.
  
                    Negli scritti di Togliatti sull’argomento -   accanto a un netto schieramento “di campo” e alla convinzione che la rivolta, se   non fermata, avrebbe avuto effetti disastrosi per la revanche delle   forze reazionarie e l’indebolimento del “campo socialista” - troviamo elementi   di critica forte al gruppo dirigente ungherese; troviamo cioè la consapevolezza   che se la situazione era giunta a tale grado di tensione, significava che   qualcosa si era rotto nel rapporto tra partito e masse, e che ben prima che si   arrivasse a tanto occorreva correggere, rettificare, migliorare. E dunque bene   faceva il PCI a porre al centro della “via italiana” il rapporto dialettico   democrazia-socialismo, rilanciata proprio nel 1956 assieme al “policentrismo”   del movimento comunista internazionale. Tutto ciò costituisce il retroterra   comune a tutto il gruppo dirigente. D’altra parte, sui fatti d’Ungheria si apre   un dibattito ricco e aspro, con prese di posizione di aperto dissenso come   quella di Di Vittorio o di molti intellettuali, di cui pure nel presente volume   si dà conto. Certo, tali posizioni rimangono minoritarie e vengono emarginate,   ma pure hanno avuto il loro peso politico nella vicenda del PCI e della sinistra   nel suo complesso. 
                    
  
                    3. Nel 1956, peraltro, non c’è solo l’Ungheria. Il   XX Congresso provoca nel gruppo dirigente del PCI una riflessione sulla figura   di Stalin e sulla storia dell’Unione Sovietica, che è tuttora di grande   interesse. In particolare la porta avanti Togliatti, e nei suoi scritti di quel   periodo che qui riproponiamo - l’intervista a “Nuovi Argomenti” in   primis - si ritrovano elementi di analisi su ciò che non ha funzionato   nell’esperienza sovietica, sul come, quando e perché hanno cominciato a   prodursi quelli che definisce “fenomeni di burocratizzazione, di violazione della   legalità, di stagnazione, e anche, parzialmente, di degenerazione, in differenti   punti dell’organismo sociale”,   attirandosi la critica di Chruščëv; elementi di analisi che consentono di   affrontare il tema nel merito, al di là degli attacchi pregiudiziali o   complessivi e delle difese acritiche. Si può certo osservare che tale   elaborazione non ha ricevuto poi uno sviluppo sistematico a livello di partito:   e questo rimane un limite; e tuttavia in occasione del XXII Congresso del PCUS   (1961) e poi col Memoriale di Jalta Togliatti tornerà su questi temi, e più in   generale tutta la sua elaborazione degli ultimi anni è centrata sul problema   della “rivoluzione in Occidente” e sul nesso fra trasformazioni socialiste,   programmazione e sviluppo democratico.
  
                    Quanto allo “stalinismo”, Togliatti rifiuta questa   categoria. All’VIII Congresso del PCI - dopo aver ricordato lo sforzo immane   successivo alla Rivoluzione d’Ottobre per porre le basi della società   socialista, e il fatto che questa “ha dimostrato la capacità di scoprire […] i   propri difetti, di criticarli con coraggio e di accingersi a correggerli” -   afferma:
  
                    Per questo noi non   accettiamo l’uso del termine di ‘stalinismo’ e dei suoi derivati, perché porta   alla conclusione, che è falsa, di un sistema in sé sbagliato, anziché spingere   alla ricerca dei mali inseritisi, per cause determinate, in un quadro di   positiva costruzione economica e politica, di giusta attività nel campo dei   rapporti internazionali e di conseguenti, decisive vittorie. Errano coloro che   ritengono che quei mali fossero inevitabili. Ancora più gravemente coloro che su   di essi cercano di fondare una vana critica distruttiva.
  
                    Del tutto diversa la posizione del leader socialista Nenni, che parla di difetti del sistema e non nel   sistema, ma anche dei firmatari della lettera dei 101 o di dirigenti del   PCI come Giolitti; non a caso alcuni di loro confluiranno nel PSI. Anche per la   sinistra italiana nel suo complesso, dunque, il 1956 costituisce un tornante di   eccezionale importanza. Riguardo al PCI, il suo VIII Congresso, alla fine   dell’anno, ribadisce con Togliatti che “non vi è né Stato guida, né partito guida”, e   sancisce la sistemazione e il   rilancio della “via italiana al socialismo”, che costituisce comunque un   passaggio essenziale della sua storia, già in nuce nella svolta del   1944 e da cui sono derivati molti degli sviluppi successivi.
  
                    Con questo volume cerchiamo dunque di documentare   come il PCI si è rapportato al “terribile 1956”, e di restituire spunti ed   elementi di analisi che possono essere interessanti e util ancora oggi. Tornare   da un lato ai fatti di quell’anno, e dall’altro ai documenti,   all’elaborazione dei protagonisti di allora, può servire inoltre ad avvicinarsi   a una comprensione maggiore di quelle vicende e a una loro visione più storica e   meno “ideologica”. È questo l’intento a cui è ispirato il presente   lavoro.
  
                    Accanto alla   documentazione, è inevitabile che emerga un livello di giudizio, parziale e   temporaneo. Occorrerà quindi proseguire la ricerca e la discussione, col   conforto - è auspicabile - anche di nuovi materiali documentari provenienti da   archivi poco esplorati o fino a poco fa non accessibili.
  
                    
                     
                     M. Kramer, The “Malin Notes” on the Crises in   Hungary and Poland, 1956, “Cold War International History Project   Bullettin”, 1996-97, nn. 8-9.
  
                       A. Stabile, Suez, la guerra di Dayan su un   pacchetto di sigarette, “la Repubblica”, 9 ottobre 2006.
  
                       Cfr. G. Calchi Novati, Mediterraneo e   questione araba nella politica estera italiana, in Storia dell’Italia   repubblicana, vol. 2, tomo I, Torino, Einaudi, 1995, pp. 222-227. La   redazione de “Il Mondo”, di area radical-democratica, si spaccò. Il “Corriere   della Sera”, per bocca dell’editorialista Augusto Guerriero, si rammaricò che   l’azione bellica non fosse giunta fino alla ‘liquidazione’ e alla resa di   Nasser. Lo stesso Mollet esprimerà un parere analogo (D. Sassoon, Cento anni   di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del XX secolo, Roma,   Editori Riuniti, 1997, p. 260).
  
                       Cfr. W. Blum, Con la scusa della   libertà, Milano, Marco Troppa Editore, 2002; Id., Il libro nero degli   Stati Uniti, Roma, Fazi Editore, 2003. Quanto all’Europa occidentale, si   veda D. Ganser, Gli eserciti segreti della NATO. Operazione Gladio e   terrorismo in Europa occidentale, prefazione di G. De Lutiis, Roma, Fazi   Editore, 2005.
  
                       Allo stesso modo, sono sospette le aspre   condanne di tali fatti da parte di chi, oggi, rimane indifferente dinanzi alle   aggressioni all’Iraq o al Libano, ai civili uccisi ogni giorno in Afghanistan o   in Iraq, alle “esecuzioni mirate” e ai raid contro i palestinesi, ad   aberrazioni come Guantanamo o Abu-Ghraib, o magari le giustifica in nome della   “lotta al terrorismo”.
  
                       R. Rossanda, Un “Se” che è utile porsi,   “il manifesto”, 22 ottobre 2006
  
                       Paradossalmente, sarà proprio nel blocco   sovietico che infine forze anti-sistema come Solidarnosc in Polonia potranno   accedere al potere, col benestare dei gruppi dirigenti polacco e   sovietico.
  
                       S. Ricaldone, Budapest 1956:   l’Europa ad un passo dal conflitto nucleare. Pentimenti e ipocrisie di   postcomunisti cinquanta anni dopo, in www.resistenze.org.
  
                       Rossanda, Un “Se” che è utile porsi,   cit.
  
                       Si veda ad es. M. Pirani, L’occasione persa   dal PCI, “la Repubblica”, 3 ottobre 2006.
  
                       R. Martinelli, Introduzione a Quel   terribile 1956. I verbali della Direzione comunista tra il XX Congresso del PCUS   e l’VIII Congresso del PCI, a cura di M.L. Righi, Roma, Editori Riuniti,   1996, p. XLVIII.
  
                       V. Parlato, Troppo comodo pentirsi, 50 anni   dopo, “il manifesto”, 22 ottobre 2006.
  
                       D.L.M. Blackmer, Continuità e mutamento nel   comunismo italiano del dopoguerra, in Il comunismo italiano in Italia e   in Francia, a cura di D.L.M. Blackmer e S.G. Tarrow, Milano, Etas libri,   1976, p. 98.
  
                       Un ritratto collettivo dei rivoltosi è in G.   Dalos, Ungheria, 1956, Prefazione di G. Crainz, Roma, Donzelli, 2006,   pp. 67-81. Dalos riporta anche le cifre delle vittime degli scontri armati dal   23 ottobre alla fine dell’anno: 2652 morti, di cui 669 soldati sovietici   (ivi, p. 152).
  
                       P. Togliatti, Rapporto e conclusioni all’VIII   Congresso nazionale del PCI (Roma, 8-14 dicembre 1956), in Id., Opere   scelte, cit., p. 797. Anche nel 1964, all’apice della sua riflessione   critica, Togliatti ribadisce che in una certa fase della vita dell’URSS si era   prodotta “non soltanto una deformazione - una degenerazione, abbiamo detto noi -   del potere, ma l’assenza di una qualsiasi forma di potere e di controllo   democratico”. E tuttavia dalle denunce dei guasti prodotti occorre risalire agli   “errori politici” che ne furono alla base e alle “cause di questi errori”, per   capire meglio e “non consentire ai nostri avversari di buttare nell’informe   calderone del cosiddetto ‘stalinismo’ tutti i momenti positivi della storia del   primo Stato proletario” (P. Togliatti, Per l’unità del movimento operaio e   comunista internazionale, rapporto alla sessione di CC e CCC del PCI del   21-23 aprile 1964, in Il Partito comunista italiano e il movimento operaio   internazionale 1956-1968, a cura di R. Bonchio, P. Bufalini, L. Gruppi, A.   Natta, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 214). 
  
  grazie a www.resistenze.org 
                        
                         
                                                
                        
                      
                    
                      
     | 
    Massimo Caprara * 
       
      Il PCI e il   1956 | 
   
 
«Svelto. È urgente. Ti vuole Togliatti». Il deputato comunista che era sceso di corsa dagli uffici del Gruppo parlamentare comunista alla Camera, a Montecitorio, mi raggiunse nel Transatlantico ormai deserto la sera del 2 novembre 1956, quando sull'Italia passava il rumoroso ponte aereo di sostegno allo sbarco inglese all'istmo di Suez.  
  «Convoca il direttivo del Gruppo. Giuliano Paletta (1915-1988) - piú giovane dei fratello Giancarlo (1911-1990) - è incaricato di parlare domani in Aula per noi» mi avvertì Togliatti al telefono. Poi, dopo una pausa, senz'attendere risposta, precisò: «Sono entrati a Budapest». «Accidenti», mi scappò detto. «Ma sono i nostri» replicò il capo del Partito. «Li comanda il generale d'armata Lascenko», tagliò corto Togliatti e troncò bruscamente la telefonata.  
  La sua precisazione corresse la mia errata sensazione che a invadere l'Ungheria fossero le truppe della Nato, irrompendo da quei confini austriaci che l'Unità in quei giorni assicurava ultrapieni d'armi a disposizione del Cardinale Josef Mindszenty, Primate d'Ungheria, arrestato dal regime comunista e poi rifugiatosi nell'ambasciata degli Stati Uniti. Era l'inizio dell'indimenticabile 1956.  
  «Viva l'Armata Rossa», concluse nel suo intervento Giuliano Pajetta urlando contro il liberale Gaetano Martino, il Ministro degli Esteri del governo di Antonio Segni. «Noi non possiamo ignorare la funzione dell'esercito sovietico liberatore» disse Pajetta in modo provocatorio, accendendo le proteste di democristiani, liberali e della destra della Camera italiana. Scoppiò un tumulto.  
  Dei fatti, Togliatti già sapeva. Un messaggio personale gli era stato già fatto recapitare dall'Ambasciata sovietica di via Gaeta, a Roma, con la firma del membro del Politburo Dimitri Trofimovic Svepilov e, inoltre, tra il 22 e il 24 ottobre egli aveva effettuato un viaggio lampo in macchina sino a Pola per incontrarvi i dirigenti del partito jugoslavo, Tito e Miciunovich, latori di una comunicazione riservata dell'Armata Rossa e del Comando delle truppe del Patto di Varsavia.  
  A Budapest, il popolo organizza violente manifestazioni contro il comunismo e il governo autoritario. Imre Nagy, capo legittimo del governo ungherese, viene accusato dai russi d'aver perduto il controllo della situazione e legalizzato l'insurrezione dando pubblica fiducia ai suoi capi e in particolare al cosiddetto teppista, Pal Maleter, il capo della rivolta.  
  La sera dei 6 novembre avvicinai Togliatti alla Camera. Di malavoglia egli mi disse, irritato: «È tutta colpa di quegli agitatori qualunquisti del Circolo Petöfi di Pest e dell'influenza esercitata dal filosofo Georgy Lukacs, comunista per modo di dire», sibilò con astio. «Lo rimanderemo a scrivere i suoi libri a Vienna, come ha fatto per tanto tempo» aggiunse. Ci incamminiamo lentamente verso la buvette di Montecitorio. «Per Nagy tira ormai un'aria funesta». Togliatti parlò con sicurezza distaccata.  
   
  Da Budapest, il corrispondente dell'Unità, Orfeo Vangelisti, trasmetteva in quei giorni che «gruppi di facinorosi, seguendo evidentemente un piano accuratamente studiato, hanno attaccato la sede della radio e del Parlamento. Gruppi di provocatori in camion hanno lanciato slogan antisovietici apertamente incitando a un'azione controrivoluzionaria. In piazza Stalin, i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua di Stalin». Il grande moto ungherese veniva così ridotto e manipolato dall'organo di stampa del PCI.  
  Dopo un grande comizio di Imre Nagy, questi veniva arrestato dalle truppe russe e rumene a Budapest e sostituito da Janos Kadar a capo del Governo. In una affollatissima conferenza stampa, nel pianterreno dell'edificio extraterritoriale dell'Ambasciata americana, il Card. Mindszenty aveva detto a proposito dell'intervento delle truppe del Patto di Varsavia: «Lo condanno in maniera incondizionata» e aggiunto: «Anche se Kadar faceva parte del governo Nagy, io considero governo legale solo il governo Nagy. Kadar è stato insediato dagli stranieri».  
  A Roma usciva sull'Unità un articolo di fondo intitolato « Da una parte della barricata a difesa dei socialismo» sul quale si scriveva: «I ribelli controrivoluzionari hanno fatto ricorso alle armi. La rivoluzione socialista ha difeso con le armi se stessa, com'è suo diritto sacrosanto. Guai se così non fosse». Da Mosca arriva una dichiarazione attribuita a Krusciov che inveisce contro i disordini: «A komunistse tam rezhut» («In Ungheria scannano i comunisti»). 
  Il PCI è in subbuglio. Nella Direzione, Amendola definisce l'intervento «un dovere di classe». Un'assemblea di studenti iscritti alla Federazione giovanile comunista di Roma vota all'unanimità un documento di sostegno «al processo di democratizzazione e a quei movimenti che si stanno manifestando in questo senso in Ungheria e che dovranno portare a un socialismo costruito nella democrazia e nella libertà». L'Unità lo respinge, l'Avanti! lo pubblica. 
  A Milano, un folto e combattivo gruppo di intellettuali, comunisti e non, approva un documento critico analogo. Rossana Rossanda e Giangiacomo Feltrinelli hanno l'incarico di andare all'Unità e di chiederne la pubblicazione. Davide Laiolo, il direttore dell'edizione di Milano, li affronta aspramente e li aggredisce urlando. Rifiuta la mozione e dichiara che finché rimarrà lui, «una spazzatura simile non comparirà mai sulle colonne del giornale».  
  
Ma la novità più esplosiva verrà dalla sede della CGIL, la Confederazione del lavoro con milioni di iscritti, con sede in corso d'Italia a Roma. «L'intervento sovietico contraddice i principi che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali e viola il principio dell'autonomia degli Stati socialisti», si legge nel testo votato all'unanimità. Prima firma: Giuseppe Di Vittorio, segretario generale. È un comunista di antica data.  
  Io arrivo proprio mentre Di Vittorio scende dalla macchina sotto il portone delle Botteghe Oscure. Fa appena in tempo a dirmi che è stato convocato d'urgenza dalla Direzione. Entro con lui nel locale della segreteria, l'ufficio di Togliatti, che subito gli dice: «Il documento della CGIL va ritirato. Devi essere tu a correggere la posizione. Lo farai nel prossimo comizio». Poi aggiunge seccamente: «A Livorno, domenica ventura». «Ma è un comizio sindacale unitario non del partito» dice Di Vittorio.  
  «Meglio», replica il segretario comunista. Uscendo, Di Vittorio è fiaccato, stravolto. Ha gli occhi rossi. «Che avrei potuto fare? Mi hanno, tutta la direzione, messo clamorosamente di fronte all'alternativa: o il comizio o fuori dal partito. Che farei io, Di Vittorio, senza il partito? Forse non sono già più Peppino Di Vittorio». La domenica successiva andò a Livorno, parlò e rinnegò se stesso.  
  Imre Nagy, attirato fuori dalla legazione jugoslava dove si era rifugiato, fu deportato, proditoriamente processato e impiccato dai russi nel 1958.  
  Nonostante simili gravissimi eventi, io allora non uscii dal partito. Uscii invece nel 1968, dopo l'invasione russa di Praga, quando fui radiato dal PCI. Non mi assolvo. Porto il peso dei miei errori e della colpa della mia ideologia. 
grazie a: Il Timone, Anno VII - Gennaio 2006 
* M. Caprara è stato dal 1944 per circa vent'anni, segretario di Palmiro Togliatti e come tale ha vissuto dall'interno gli avvenimenti fondamentali della storia del PCI, avendo anche l'occasione di incontro e di contatti con i leader del Comintern: da Stalin a Tito, Chruscev, Breznev, Linpiao, Che Guevara.  
  È  stato sindaco di Portici negli anni '50  e successivamente consigliere comunale di Napoli sino al 1997.  
  Deputato alla Camera per vent'anni, dal 1953 segretario del gruppo comunista, membro del Ccomitato Centrale, responsabile regionale per la Campania, venne radiato dal Partito Comunista nel 1969 insieme al gruppo del Manifesto, dei quali è stato uno dei fondatori. 
  Da allora Caprara, pur praticando l'impegno politico, non ha più preso tessere di partito, preferendo il riesame della sua esperienza di militante e la testimonianza critica e sofferta della vicenda del PCI e di quelli stranieri. Giornalista professionista, primo redattore capo di Rinascita, diretta da Togliatti, è stato in molti paesi, dalla Cina al Cile, come inviato de Il Mondo, l'Espresso, Tempo Illustrato. Negli anni '80 è stato direttore responsabile del quotidiano Il Diario con edizioni a Napoli e Caserta. Ha diretto successivamente il mensile l'Illustrazione Italiana sino al 1997 ed è stato collaboratore fisso de Il Giornale.  
  
      | 
    Giuseppe Chiarante
       Il '56 di un irregolare  | 
   
 
1. Ho vissuto quel momento cruciale nella storia
  del PCI e dell'intero movimento comunista che fu il 1956 - un
  anno di svolta per tutta la storia del Novecento - con una collocazione
  politica e forse anche per questo con reazioni emotive e con
  un punto di vista critico sensibilmente diversi da quelli espressi
  nei loro interventi su questa rivista (anch'essi, del resto,
  non poco diversificati) da Pietro Ingrao e Rossana Rossanda. 
  Nel 1956 - infatti - io non ero ancora iscritto al PCI, anche
  se ormai mi ci sentivo molto vicino; venivo da una formazione
  e da un'esperienza politica e culturale in campo cattolico e
  solo nel 1958 avrei preso la tessera di comunista. A causa di
  questa diversa collocazione   è comprensibile che vi fosse
  in me, di fronte al XX Congresso del Partito comunista dell'Unione
  Sovietica e alle forti reazioni da esso suscitate fra i comunisti
  italiani, un certo maggiore distacco: anche se naturalmente partecipai
  con interesse e passione al dibattito che quel congresso aprì in
  tutta la sinistra. 
  Ma il punto sostanziale è un altro: è che diverse
  (in qualche caso anche rispetto ai giudizi richiamati da Ingrao
  e da Rossanda) furono le analisi e le valutazioni che io diedi
  di molti dei fatti di quell'anno e diverse furono le indicazioni
  politiche che ne derivai. Mi sembra perciò che possa essere
  di qualche interesse - nel quadro di quel maggiore impegno di
  ricerca e di dibattito sulla storia del movimento comunista che
  era nei propositi iniziali di questa rivista, ma che ritengo
  sia da sviluppare con più determinazione - riprendere
  quelle analisi e valutazioni e soprattutto gli argomenti (a
  mio avviso ancor oggi sostanzialmente validi) su cui esse erano
  fondate. Vi sono infatti molti aspetti di quell'intricato nodo
  che fu il '56 che è necessario - a me pare - cercare di
  esaminare in modo più approfondito. 
  
2. Ho già detto, ma è   opportuno precisarlo meglio,
  che le rivelazioni del XX Congresso e del secondo rapporto Krusëv
  (il cosidetto 'rapporto segreto') furono da me accolte con grandissimo
  interesse, ma in modo molto meno traumatico di quel che inevitabilmente
  accadeva per chi veniva da una consolidata milizia comunista.  
  Per me, più giovane e con una diversa formazione culturale,
  cresciuto in un differente ambiente politico, il modo di considerare
  l'URSS e i suoi problemi era stato - sin dagli inizi del mio
  impegno pubblico, alla fine degli anni quaranta - certamente
  assai meno coinvolgente e più problematico: non era mai
  diventato, in sostanza, un elemento costitutivo della mia scelta
  politica. Anche per me, senza dubbio, l'Unione Sovietica era
  il grande paese della prima rivoluzione anticapitalistica e della
  lotta vittoriosa contro il fascismo e il nazismo. Al tempo stesso,
  però, mi colpivano negativamente i problemi e gli interrogativi
  connessi al modo di esercizio del potere di Stalin e del gruppo
  dirigente stalinista.  
  Non va infatti dimenticato che - a parte i testi della propaganda
  anticomunista, dai quali cercavo di non farmi condizionare perché già   era
  in me molto netto l'orientamento a sinistra - circolavano largamente
  in Italia nell'immediato dopoguerra anche le opere di Trockij e di altri autori della corrente trockista (alcune tradotte nella
  nostra lingua sin dagli anni del fascismo) e proprio questi libri
  furono tra le mie prime letture sulla rivoluzione del '17, sui
  suoi sviluppi, sulla degenerazione autoritaria della società sovietica
  sino al terrore dei secondi anni trenta. Ricordo, in particolare,
  la grande emozione che mi provocò, appena fu pubblicato
  da Mondadori, il romanzo Buio a mezzogiorno di Arthur
  Koestler: una ricostruzione romanzata (ma neppure troppo) della
  tragica vicenda di uno dei maggiori dirigenti bolscevichi che
  furono vittime dei grandi processi del '36-'37. 
  Anche per questo se a vent'anni, nel '49-'50, la mia scelta politica
  si orientò verso la sinistra democristiana che faceva
  riferimento a Dossetti (il gruppo di «Cronache
    Sociali» e
  l'ala sinistra del Movimento giovanile) ciò non fu solo
  per il condizionamento di un'educazione familiare cattolica e
  di un ambiente politico democristiano e cattolicissimo quale
  quello di Bergamo, dove allora vivevo; ma fu anche per le profonde
  incertezze, per i dubbi, per le riserve suscitate in me dalla
  riflessione su quegli aspetti della società   sovietica.  
  E quando invece, durante la prima metà degli anni '50,
  attraverso una crescente partecipazione alla battaglia politica
  nella Dc e fuori dalla Dc, venni maturando un distacco sempre
  più profondo dalla linea conservatrice del gruppo dirigente
  democristiano e un interesse crescente per le posizioni del PCI,
  in questa evoluzione dovetti fare i conti, dentro di me, con
  una valutazione della realtà dell'Unione Sovietica che
  non ignorava gli aspetti drammatici e negativi di quell'esperienza. 
  Il mio progressivo accostamento al Partito comunista fu perciò una
  scelta culturalmente 'laica': che si fondava, prima di tutto,
  su una valutazione del ruolo fondamentale che il PCI svolgeva
  nella lotta per difendere e ampliare la democrazia italiana -
  contro minacce autoritarie e pericoli regressivi - e per il rinnovamento
  sociale, civile, culturale del paese; e si basava inoltre sulla
  valutazione che, nonostante gli errori e gli orrori dell'autoritarismo
  e delle repressioni, l'URSS non solo aveva contribuito a sconfiggere
  nazismo e fascismo, ma continuava a svolgere sul piano mondiale,
  di fronte alla superpotenza americana, una funzione di equilibrio
  che rappresentava un punto di riferimento essenziale per la lotta
  di liberazione dei popoli coloniali e per tutti i movimenti popolari
  anticapitalistici e antimperialisti. 
  Per questo, quando giunsero le notizie sulle denunce del XX Congresso
  e soprattutto sulle rivelazioni del 'rapporto segreto' certamente
  fui colpito dall'importanza politica degli avvenimenti: ma fui
  assai meno sorpreso di quanto dimostrassero non solo la base
  ma anche tanta parte della dirigenza del PCI. Mi colpì sfavorevolmente,
  soprattutto, lo stupore e l'indignazione di molti intellettuali.
  Erano persone colte, che non solo - come giustamente ricorda
  anche Rossanda - avevano avuto la possibilità di leggere
  i libri che io avevo letto, ma che in molti casi avevano visitato
  sia i paesi cosidetti socialisti sia quelli occidentali e avevano
  probabilmente anche avuto accesso a informazioni riservate di
  cui io non disponevo. Come era dunque possibile che non avessero
  mai avuto nemmeno un dubbio sui famosi processi del '36 e '37,
  e che non avessero mai messo in conto, nella loro scelta di comunisti,
  che l'URSS era stata ed era 'anche questo'? Ricordo, in particolare
  che assistetti allibito a un'assemblea al cinema Verbano di Roma
  (probabilmente in preparazione dell'VIII Congresso del PCI) nella
  quale si susseguirono veri e propri comizi contro i 'crimini
  del tiranno' da parte di dirigenti del settore culturale che
  fino a pochi mesi prima non avevano lesinato le parole per elogiare
  il 'genio' di Stalin. Naturalmente oggi mi rendo conto, a distanza
  di 45 anni, che le ragioni di questi comportamenti erano più complesse
  di quel che allora a me poteva sembrare: facevano parte di quel
  dramma della reticenza, o della 'doppia verità', che ha
  pesato negativamente anche su un grande partito, autonomo e fortemente
  democratico, quale indubbiamente fu il PCI.  
  Ma al di là della maggiore o minore sorpresa di fronte
  a certi toni del dibattito apertosi nel PCI, ciò che mi
  colpì più negativamente fu che nell'impostazione
  del XX Congresso le spiegazioni date da Krusëv circa gli errori
  di Stalin ('il culto della personalità') erano indicative
  di un'estrema povertà di cultura politica e rivelavano
  in modo molto preoccupante - come i fatti avrebbero presto confermato
  - l'assenza di un progetto di riforma della società e
  dello Stato che potesse davvero aprire nuove prospettive all'URSS
  e alle società dell'Est. Come si poteva dunque immaginare
  - come molti in Italia e in Occidente sembravano invece attendersi
  - che nell'URSS si sviluppasse, su quella linea, una 'riforma
  democratica'? Furono giudizi che esposi anche sulla stampa: e
  fu in rapporto a queste prese di posizioni, assai differenti
  dagli schemi di analisi più diffusi, che, benché fossi
  ancora giovanissimo, mi fu chiesto da Alberto Carocci di rispondere,
  su «Nuovi Argomenti»,
  alle Nove domande sullo stalinismo che diedero occasione
  alla famosa intervista di Togliatti.
  Credo che in quel mio intervento, per reazione a tante prese
  di posizione dominate dall'emotività, esagerai in una
  valutazione dell'esperienza staliniana in chiave di realismo
  politico. Ma la conclusione era che una fase si era chiusa, che
  l'URSS sia pure a carissimo prezzo aveva svolto la sua funzione
  storica, e che il compito di aprire nuove strade tornava ormai
  al movimento operaio occidentale. 
   
   
  3. Ma per spiegare più compiutamente il giudizio che mi
  parve allora di dover formulare sulla svolta di Krusëv e sul
  XX Congresso, è necessario compiere un passo indietro. 
  Nel periodo immediatamente successivo alla morte di Stalin, avvenuta
  nel marzo 1953, ero stato fortemente interessato dai segnali
  di revisione della politica staliniana che venivano dal nuovo
  gruppo dirigente sovietico e in particolare dal governo capeggiato
  da Malenkov. Quei segnali erano indirizzati in un senso che mi
  sembrava univoco: allentamento della stretta repressiva e abbandono
  dei metodi del terrore (già nel corso del 1953 furono
  decine e forse centinaia di migliaia, in base alle più recenti
  ricerche, i prigionieri politici che riottennero la libertà);
  nuovi indirizzi
  di politica economica diretti all'obiettivo, dallo stesso Malenkov
  definito 'indispensabile', di assicurare maggiori investimenti
  nell'industria leggera per aumentare la produzione di beni di
  consumo; interventi per migliorare le condizioni di vita dei
  contadini allegerendo il peso fiscale e aumentando il prezzo
  di acquisto dei prodotti agricoli. 
  Contemporaneamente Malenkov dava avvio a una politica di apertura
  e di distensione nei rapporti Est-Ovest: in un rapporto al Soviet
  Supremo dell'agosto 1953 aveva lanciato la formula della possibilità di
  una 'coesistenza pacifica' con i paesi dell'Occidente capitalistico
  e in un discorso del 13 marzo 1954 aveva enunciato una tesi del
  tutto nuova per i dirigenti sovietici, ossia che «una nuova
  guerra mondiale», combattuta con i «nuovi strumenti
  bellici» dell'età atomica, avrebbe provocato «la
    fine della civiltà   nel mondo». Era la tesi
  che quasi simultaneamente veniva lanciata anche in Italia da
  Togliatti, nel discorso del 12 aprile 1954 al Comitato centrale
  del PCI, successivamente pubblicato sotto il titolo Per
    un accordo tra comunisti e cattolici per salvare la civiltà umana. 
  La svolta di Malenkov non aveva inoltre mancato di riflettersi
  sulla situazione interna dei paesi dell'Europa dell'Est: che
  si erano anch'essi avviati, in maniera più o meno marcata
  a seconda degli equilibri politici, su una linea riformatrice.
  Di particolare rilievo erano state le ripercussioni in Ungheria,
  dove era stato accantonato l'uomo - cioè Rakosi - che
  aveva imposto al paese una linea dispotica e repressiva; ed era
  salito al governo, già nell'estate del 1953, il maggior
  esponente dell'ala liberal, che era Imre Nagy. 
  Quest'insieme di fatti sembrava indicare, e fu questa la linea
  interpretativa che a me allora parve e pare ancora la più convincente,
  che il gruppo di Malenkov si proponesse - senza però porre
  in modo esplicito e tanto meno in termini di denuncia ideologica
  la questione dello stalinismo - di avviare nei fatti un'apertura
  e una revisione che fossero diretti, nell'URSS e negli altri
  paesi dell'Est, ad attenuare tensioni e contraddizioni e a recuperare
  fiducia e consenso: in particolare rendendo meno rigido il regime
  politico interno (il cosidetto 'disgelo') e promuovendo uno sviluppo
  economico che comportasse, per la popolazione, costi più 'tollerabili'. È ovvio
  che a tale svolta corrispondesse, in politica estera, uno sforzo
  per superare le asprezze della 'guerra fredda': ciò avrebbe
  reso possibile - mi pareva - una ripresa anche del confronto
  e del dialogo tra le forze democratiche che avevano collaborato
  nella guerra antifascista e che la rottura del '47 aveva spinto
  su fronti contrapposti. Al riguardo mi aveva particolarmente
  colpito la prontezza con cui Togliatti aveva
  preso occasione dall'apertura di Malenkov per lanciare l'appello
  - già ricordato - a «un'intesa tra comunisti e cattolici» sul
  tema della pace e contro lo sterminio atomico. 
  A distanza di anni è certamente difficile dire (la ricerca
  storica sui contrasti al Cremlino dopo la morte di Stalin ha
  dato qualche conferma, ma non ha ancora fatto piena chiarezza)
  quanto fosse fondata quell'interpretazione della linea di Malenkov.
  Ancor più arduo è ipotizzare a quali sviluppi essa
  avrebbe potuto condurre. È probabile che senza una rottura
  più netta con l'età dello stalinismo fosse illusorio
  sperare di mobilitare nuove energie e di rinnovare incisivamente
  l'economia e la gestione del potere. Ciò   che è certo è,
  però, che l'attacco di Krusëv a Malenkov si fondò su
  motivazioni e soprattutto su uno schieramento di forze che determinarono
  l'interruzione - in campi decisivi - di quell'esperimento cautamente
  riformatore; e anche di qui derivò il carattere contraddittorio
  della svolta del XX Congresso e soprattutto delle sue conseguenze. 
  Quando infatti Malenkov, l'8 febbraio del 1955, fu costretto
  a dimettersi da presidente del Consiglio, fu chiaro agli osservatori
  più attenti (e ricordo che anch'io ne fui fortemente colpito)
  che l'attacco di Krusëv, allora segretario del partito, era
  stato condotto su più fronti e con argomenti e
  appoggi molto diversificati. Se è vero, infatti, che egli
  cercò di addebitare a Malenkov passate e presenti responsabilità per
  le cattive condizioni dell'agricoltura sovietica (eterno punto
  dolente della polemica politica in URSS) e se è vero che
  riuscì a metterlo seriamente in difficoltà facendo
  emergere una sua più o meno diretta connivenza nella cosidetta
  'vicenda di Leningrado' (cioè nella stretta repressiva
  che poco prima della morte di Stalin aveva colpito il partito
  di quella città), è anche vero, però, che
  solo attraverso un'alleanza con forze decisive del vecchio blocco
  di potere Krusëv riuscì a raccogliere la maggioranza
  per scalzare il suo avversario dalla presidenza del Consiglio. 
  L'attacco a Malenkov fu infatti condotto proprio mettendo un
  discussione, in molti casi, le principali novità della
  sua svolta politica: criticando per esempio lo spostamento di
  risorse a favore dell'industria leggera e della produzione di
  beni di consumo, considerato come una 'deviazione di destra',
  che poneva in discussione il tradizionale dogma della priorità   dell'industria
  pesante e che soprattutto metteva in pericolo la sicurezza militare
  del paese; respingendo la sua tesi circa il carattere catastrofico
  di un conflitto nucleare, che fu quasi irrisa sul «Kommunist» del
  marzo 1955 (cioè   subito dopo la sua caduta) come uno «spauracchio
  imperialista» diretto a nascondere che in realtà una
  guerra avrebbe segnato la fine non della civiltà ma del
  'sistema capitalistico putrescente'; infine addebitando più o
  meno esplicitamente alla sua politica l'indebolimento del controllo
  dell'URSS sui paesi satelliti. 
  A dare la vittoria a Krusëv fu, dunque, uno schieramento molto
  eterogeneo, tutt'altro che compattamente innovativo. Certo ne
  facevano parte settori politici e intellettuali che chiedevano
  una scelta più risoluta e soprattutto più esplicita
  nel senso della destalinizzazione. Ma su alcuni temi, come quello
  della guerra atomica, contro Malenkov si era schierato anche
  Molotov. E soprattutto nella nuova maggioranza aveva un peso
  decisivo il blocco militare-industriale: non a caso la caduta
  di Malenkov fu accompagnata dall'ascesa a ministro della Difesa
  del generale Zukov, che in quel momento era l'esponente di punta
  delle forze armate. 
  Ma il carattere contradditorio dell'attacco di Krusëv fu reso
  particolarmente evidente dalle ripercussioni sull'Europa orientale.
  Il caso più significativo fu quello dell'Ungheria. Qui,
  come ho già ricordato, la 'piccola svolta' di Malenkov
  aveva portato all'ascesa al potere di Imre Nagy; ma la vittoria
  di Krusëv ebbe come immediata conseguenza il ritorno di Rakosi
  che pose fine alla linea di distensione politica e di riforme
  economiche avviata da Nagy e riportò in auge i vecchi
  metodi autoritari e repressivi. Ma proprio perché in Ungheria
  la svolta riformatrice era andata più avanti e aveva acceso
  più speranze, qui il brusco ritorno al passato provocò un
  trauma catastrofico. Si crearono così le condizioni per
  il movimento antisovietico dell'estate-autunno 1956. Un movimento
  che troppo tardi si cercò di contenere richiamando al
  potere Nagy e che alla fine Mosca schiacciò, quando ormai
  la situazione era irrecuperabile, con l'intervento armato e con
  una repressione sanguinosa. Non è un caso che - come recentemente
  ha rivelato la pubblicazione dei verbali del Presidium del PCUS
  - fu proprio Krusëv, spalleggiato da Zukov e da quasi tutti
  gli altri membri del massimo organo del partito, a proporre di
  far intervenire a Budapest l'esercito russo per 'soffocare la
  rivolta': mentre Malenkov, benché politicamente ormai
  sconfitto, fu tra i pochi (l'oppositore più esplicito
  fu Mikoyan) che sollevò   riserve e perplessità. 
   
   
  4. Forse proprio perché avevo dedicato molta attenzione
  alle novità seguite alla morte di Stalin e alle diverse
  posizioni che si delineavano nella lotta di potere in corso a
  Mosca, nella 'svolta' del XX Congresso e soprattutto nel 'rapporto
  segreto' vidi non già la reale apertura di una prospettiva
  di democratizzazione e di riforma, ma piuttosto la decisione
  di usare un problema drammaticamente reale (la reazione alle
  durezze e alle tragedie dello stalinismo, ai suoi metodi di gestione
  del potere, ai tanti sacrifici imposti al paese) per sconfiggere
  gli avversari interni e soprattutto per rimettere in moto la
  società sovietica attraverso un appello alla mobilitazione
  rivolto direttamente alla base del partito in nome della lotta
  contro le degenerazioni del 'culto della personalità'.
  Ma era un appello che non si fondava su un progetto che fosse
  realmente in grado di andare oltre l'attivismo volontaristico
  e di delineare un'effettiva trasformazione, in senso più dinamico
  e democratico, del sistema politico e delle strutture produttive. 
  Mi parve chiaro, in sostanza, che era illusorio pensare che su
  questa linea fosse possibile imprimere alla realtà sovietica
  un nuovo slancio propulsivo, tale da rompere i vincoli di una
  società autoritaria, burocratica e centralizzata: c'era
  anzi il rischio - come in effetti fu - di alimentare una speranza
  cui sarebbe seguita una pericolosa delusione. Certo, fermenti
  innovatori anche di rilievo non mancarono di manifestarsi in
  URSS dopo la svolta del '56: e non solo ad opera di gruppi di
  intellettuali, di scienziati, di economisti, ma anche per iniziativa
  del partito e del governo, per esempio con la proposta di riforma
  della scuola su base 'politecnica', col tentativo di dare un'autonoma
  rappresentanza politica ai contadini, coll'apertura in politica
  estera ai paesi non allineati dello schieramento di Bandung.
  L'URSS era ancora, pur fra mille contraddizioni, un paese vivo;
  e non quella società congelata che sarebbe diventata dopo
  l'avvento di Breznev. Ma non a caso quei fermenti innovatori
  si andarono rapidamente spegnendo. In realtà sin dal XX
  Congresso la povertà culturale e politica della proposta
  di Krusëv stava a significare che l'Unione Sovietica era difficilmente
  riformabile. Era un paese che aveva dato quel che era possibile,
  con l'industrializzazione a tappe forzate e con la vittoria sul
  nazismo: ma il costo umano e sociale era stato altissimo, aveva
  svuotato e soffocato capacità ed energie, e il compito
  dell'innovazione storica doveva passare ad altri, soprattutto
  alla sinistra occidentale. Il problema del socialismo tornava
  cioè ad avere il suo punto focale - come già l'analisi
  di Marx aveva sottolineato - nei «punti più alti
  del sistema». 
  Per questo, di fronte al dibattito che sul XX Congresso e sulle
  sue conseguenze si accese nel PCI e nella sinistra italiana,
  mi sembrò certamente del tutto sbagliata la reazione conservatrice
  di chi respingeva la necessità di una svolta; ed anche
  la linea che criticava, come troppo concessiva, la politica della
  'coesistenza pacifica'. Ma mi parve illusoria, su un altro piano,
  anche la posizione - assai diffusa - che praticamente si risolveva
  nel sollecitare dall'URSS un maggior coraggio riformatore: o
  nel senso, praticamente impensabile, di un accostamento a soluzioni
  tradizionalmente socialdemocratiche o, all'opposto, nella direzione
  di un 'di più di socialismo', inteso come realizzazione
  di una società   profondamente innovativa, realmente imperniata
  su principi di libertà e di eguaglianza. Nell'uno e nell'altro
  caso si chiedeva alla società sovietica uno sforzo di
  rinnovamento che essa non aveva più la capacità di
  esprimere: e che in ogni caso era impossibile sulla linea di
  Krusëv e dei burocrati e tecnocrati che attorno a lui si raccoglievano.
  Davvero vi era motivo di pensare che forse sarebbe stata più ragionevole
  - almeno così pareva a chi non nutriva illusioni sull'URSS
  e su una sua possibile palingenesi - la linea di prudente e moderato
  riformismo su cui si era incamminato Malenkov. 
   
   
  5. Per questo complesso di motivi parve a me che la posizione
  più rispondente ai reali problemi che si ponevano nel
  '56 ai comunisti in Italia e in Occidente fosse (a parte l'incredibile
  silenzio di qualche mese sul 'rapporto segreto' che pure gli
  era stato dato in lettura la sera stessa della seduta del Congresso
  del PCUS a porte chiuse) quella assunta, indubbiamente con troppe
  reticenze e esitazioni, proprio da Togliatti,
  a partire dall'intervista a «Nuovi
    Argomenti». 
  Quella di Togliatti era infatti una posizione
  che, certo, sosteneva la necessità di un'analisi critica
  che andasse ben più a fondo delle superficiali considerazioni
  sul 'culto della personalità' (o anche delle deprecazioni
  dei crimini di un solo uomo) per cercare invece di cogliere le
  radici degli errori all'interno delle linee di sviluppo della
  società sovietica e del suo sistema di potere. Ma, pur
  sottolineando il dovere dei dirigenti sovietici di impegnarsi
  per primi in questa analisi, le conclusioni politiche riguardavano
  soprattutto il ruolo del PCI e del comunismo occidentale. Era
  questo il senso della proposta non soltanto della 'via italiana',
  ma - ancor più - del 'policentrismo'. Una proposta che
  - come sottolinea nel suo intervento Ingrao - fu la più avanzata
  formulata in quei mesi; e che si rivolgeva in particolare agli
  altri partiti dell'Europa occidentale, per sollecitare da tutti
  una politica più autonoma, fondata sui valori e sulla
  pratica della democrazia e adeguata ai problemi e alle condizioni
  di società complesse quali erano quelle dell'Occidente
  più sviluppato. 
  In tal modo, al di là dei limiti della sua cultura storicistica
  (e della tendenza giustificazionista che in essa era implicita)
  Togliatti giungeva
  a porre, in quel momento, problemi anche teorici di revisione
  sostanziale del cuore stesso della dottrina leninista: in particolare
  della tesi secondo la quale l'apparato dello Stato borghese «deve
  essere dalla classe operaia spezzato e distrutto, sostituito
  dall'apparato dello Stato proletario, diretto dalla classe operaia». 
  Si trattava della tesi, già presente nell'ortodossia della
  Seconda Internazionale, che stava alla base della teoria della
  'dittatura del proletariato' e del verticismo autoritario che
  aveva aperto la strada alle degenerazioni dello stalinismo. Il
  segretario del PCI rimetteva esplicitamente in discussione tale
  dottrina quando, nel rapporto del 24 giugno '56 al Comitato centrale,
  non solo notava che «questa non era
    la posizione originaria di Marx e di Engels: fu la posizione
    cui essi giunsero dopo l'esperienza della Comune di Parigi»; ma circa la validità di
  principio di quella tesi aggiungeva: «quando
    noi affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo
    non solo sul terreno democratico, ma utilizzando le forme parlamentari, è evidente
    che correggiamo qualche cosa in questa posizione??». Non
  si trattava, in realtà, di una modesta correzione: bensì della
  ricerca di un superamento delle forme di lotta e di governo adottate
  in URSS da Lenin e poi da Stalin per riproporre il tema gramsciano
  dell'egemonia e di un diverso rapporto tra società e Stato. 
  È   noto però che la proposta del 'policentrismo» fu
  quasi subito stroncata non solo dalla polemica esplicita sia
  dell'altro principale partito comunista dell'Occidente (il PCF,
  allora fedelissimo a Mosca) sia dell'ancor più   importante
  partito cinese, che prese allora una posizione conservatrice,
  diversa ed opposta a quella che avrebbe assunto al momento della
  Rivoluzione culturale maoista; ma, soprattutto, dall'ostilità dei
  dirigenti del PCUS. Lo stesso Krusëv intervenne con una
  lettera del 30 giugno '56 a Togliatti per respingere
  le analisi circa le 'degenerazioni' della società sovietica
  contenute nell'intervista a «Nuovi
    Argomenti»;
  e rilanciò   successivamente la tesi del 'primato' del
  modello sovietico, affermando in più   di un discorso
  che 'le particolarità nazionali?.. non infirmano in nulla
  le leggi fondamentali della rivoluzione socialista' e che anzi «ponendo
  l'accento su queste vie particolari si reca il maggior pregiudizio
  alla causa dell'edificazione del socialismo».  
  Erano affermazioni che mettevano in evidenza come mancasse, nella
  piattaforma del XX Congresso, una potenzialità   effettivamente
  innovatrice nella considerazione della nuova realtà mondiale
  e in particolare delle effettive condizioni in cui poteva svilupparsi
  l'iniziativa dei partiti comunisti e delle altre forze di sinistra
  nei diversi paesi. Alle posizioni sovietiche si allinearono subito,
  nel '56, pressochè tutti i partiti comunisti dell'Occidente
  e Togliatti si vide di fatto costretto a ripiegare
  dalla tesi del 'policentrismo' a quella della 'via italiana',
  certamente più difendibile, ma anche più modesta
  e limitata. 
 
  
Con questo ripiegamento, e con l'accettazione della linea sovietica
  sull'Ungheria, le speranze aperte in Italia dal grande dibattito
  del '56 si spegnevano (mi sembra questo il succo degli interventi
  di Ingrao e di Rossanda) in una sorta di rassegnazione che significava
  rinuncia a riaprire un confronto e una ricerca di fondo sulle
  ragioni per cui il movimento comunista, proprio quando era giunto
  a governare un terzo del mondo, si andava insabbiando in una
  crisi destinata a restare senza uscite. E infatti proprio gli
  anni immediatamente successivi al '56 tornarono ad essere - fino
  al '63 o '64 - anni di silenzio, o quasi, sui problemi che pure
  andavano determinando una stagnazione via via più pericolosa
  così nell'URSS come nelle altre società dell'Est. È vero
  che proprio quello fu il periodo (e ciò poteva trarre
  in inganno) in cui l'URSS pareva celebrare, con il primato nelle
  imprese spaziali e con il dispiegamento della sua potenza militare,
  il massimo dei suoi successi. E tuttavia a un'attenzione più vigile
  non poteva sfuggire (giacché i sintomi non mancavano:
  basta pensare alla tragedia del dissodamento delle terre vergini,
  o al bluff di Krusëv circa il prossimo superamento degli
  Stati Uniti nella produzione pro capite di carne e di burro o
  all'ulteriore avvitamento burocratico segnato dalla sostituzione
  di Krusëv
  con Breznev) che in realtà la decadenza era cominciata. 6. Sono dunque d'accordo con Ingrao e con Rossanda (al di là della
  diversità di valutazione sul XX Congresso, che mi portarono
  a una differente ricostruzione di quella vicenda) sul fatto che
  per il PCI abbia rappresentato una grave occasione perduta la
  rinuncia a un più radicale approfondimento, teorico e
  politico, dei problemi che emergevano dalle vicende del '56.
  Un approfondimento che in ogni caso non avrebbe potuto significare
  - anche su questo sono d'accordo - una repentina e traumatica
  rottura, che la guerra fredda rendeva impossibile; ma che avrebbe
  dovuto svilupparsi in un complessivo ripensamento critico dell'idea
  di società   socialista e della strada e dei metodi con
  cui operare per realizzarla.  
  Dove invece mi sembra che sia Ingrao sia Rossanda siano ingenerosi
  innanzitutto verso se stessi, è nella radicale sottovalutazione
  della portata del processo di rinnovamento - di cui pure furono
  tra i protagonisti - che si sviluppò nel PCI a partire
  dal 1956 nel quadro della strategia, ancorché limitata,
  della 'via italiana al socialismo'. Gli anni che seguirono quella
  data furono infatti tutt'altro che infecondi per i comunisti
  italiani (al contrario di quel che si può dire per il
  PCF, che iniziò da allora la sua decadenza). Furono invece,
  in Italia, gli anni in cui il PCI ricostruì e ampliò la
  sua presenza nella classe operaia e fra i ceti medi, a partire
  da un'analisi innovatrice sulle trasformazioni in atto nella
  struttura produttiva e sociale; fu alla testa della lotta contro
  i tentativi di svolta a destra, sino allo scontro vittorioso
  del 1960 con il governo Tambroni; diede nuovo slancio e nuovo
  respiro alle amministrazioni locali dirette dalle sinistre; si
  impegnò a fondo sui temi di riforma della società e
  dell'economia, sulla base della proposta delle 'riforme di struttura'
  e attraverso il confronto critico con il nuovo esperimento politico
  che si annunciava all'insegna del centro-sinistra. 
  Senza questo processo di rinnovamento (che significò anche
  recupero e valorizzazione di ciò   che di autonomo e di
  originale stava alle radici del comunismo italiano, a partire
  da Gramsci e dalla sua ricerca) non si potrebbe in effetti capire
  come mai la fine degli anni cinquanta, gli anni sessanta, i primi
  anni settanta furono per il PCI un periodo di ininterrotta ascesa
  e di crescente incidenza sulla realtà italiana. Va anche
  aggiunto che il rinnovamento non avrebbe assunto questo respiro
  e questo carattere se nella fase di avvio e di impostazione non
  vi fosse stata - accanto alla leadership di Togliatti,
  che fu garanzia di autonomia e autorevolezza - anche la presenza
  di un'intelligente sinistra comunista, di cui proprio Ingrao
  e Rossanda furono tra i principali esponenti. Senza questo contrappeso
  infatti, rispetto alla posizione della destra comunista, (che
  si impegnò seriamente nel rinnovamento del partito proprio
  sull'onda del XX Congresso, ma connettendolo fin d'allora a una
  cultura e a una linea socialdemocratica) la 'via italiana' si
  sarebbe probabilmente risolta in una subalternità al centro-sinistra
  dei primi anni sessanta, senza dar vita a quell'originale esperienza
  di sinistra che ha caratterizzato la storia politica e sociale
  italiana in quei decenni. 
  Certo, è indubbio che sulla possibile fecondità di
  questa esperienza hanno continuato a pesare due limiti di fondo.
  Il primo è il freno costituito (ritorna a questo proposito
  la questione del '56, e su questo punto Ingrao e Rossanda hanno
  certamente ragione) dal mancato approfondimento della critica
  alle società socialiste realizzate sul modello sovietico
  e, di conseguenza, dalla permanenza di un cordone ombelicale
  mai del tutto tagliato, neppure con lo strappo di Berlinguer. 
  Il secondo limite - non meno importante - sta nel sostanziale
  isolamento dell'esperienza dei comunisti italiani: isolamento
  mai completamente superato, neppure quando si cercò di
  rilanciare, con l'eurocomunismo, una parola d'ordine anche più forte
  ed esplicita di quella del policentrismo. La conseguenza è evidente:
  se si era rivelata impossibile (teoricamente e praticamente)
  la costruzione del 'socialismo in un solo paese' in una realtà delle
  dimensioni dell'Unione Sovietica, come era possibile pensare
  che si potesse rinnovare il fondamento e la strategia del movimento
  comunista restando chiusi nell'ambito di un piccolo paese come
  l'Italia? Anche per questo la crisalide che era presente negli
  aspetti di originalità e di autonomia della politica dei
  comunisti italiani non riuscì mai a trasformarsi in farfalla
  e a spiccare il volo: e finì perciò   coll'essere
  travolta dalla crisi più generale del movimento comunista. 
  Ma non per questo va dimenticata (e va anzi analizzata a fondo)
  l'esperienza realizzata in Italia dal PCI: che non solo è stata
  parte fondamentale - senza la quale tutto sarebbe incomprensibile
  - della vicenda della democrazia italiana nel secondo Novecento,
  ma rappresenta un capitolo particolarmente significativo della
  storia della sinistra europea. 
grazie a: la Rivista del Manifesto, marzo 2001 
 
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