Pete Seeger





Pete Seeger, nato il 3 maggio 1919 a Patterson, nello stato di New York, e morto nel 2014, è il più grande cantante folk statunitense.
È senz'altro, assieme a Woody Guthrie (con cui ha peraltro collaborato e cantato assieme fin dagli anni '40), il più noto folk-singer americano, ma è stato ed è tuttora un attivista politico dell'estrema sinistra americana ed uno dei massimi autori della folk music e della canzone di protesta degli anni '50 e '60.



Suo padre, Charles Seeger, era un musicologo di fama ed uno dei primi ricercatori impegnati nel campo della musica orientale; i suoi fratelli, Mike e Peggy, sono ugualmente musicisti e cantanti di fama. Nel 1943 Pete sposò Toshi-Aline Ohta, "la persona cui devo tutto nella mia vita", come ama ripetere ancora adesso.



Alla fine degli anni '30 risale il suo incontro con Woody Guthrie, che lo segnerà definitivamente e con il quale girerà tutta l'America profonda, negli anni '40, alla ricerca della vera anima popolare musicale del paese. Per fare questo, Seeger abbandonò gli studi di sociologia che stava svolgendo a Harvard.



Membro fondatore dei gruppi folk "The Almanac Singers" e "The Weavers" (quest'ultimo ebbe grande successo alla fine degli anni '50), Pete Seeger, per le sue idee, fu ben presto vittima del maccartismo che flagellò la cultura americana progressista durante gli anni '50.



Pete Seeger iniziò la sua carriera di solista nel 1958, infilando una dietro l'altra delle canzoni autenticamente immortali: If I had a hammer (scritta assieme a Lee Hays; in Italia è tristemente nota la frivola versione di Rita Pavone!), Turn! Turn! Turn! (adattata dal libro biblico dell'Ecclesiaste e successivamente rielaborata in chiave rock dal gruppo dei Byrds), We Shall Overcome (basata su uno spiritual, a sua volta divenuta un cavallo di battaglia di Joan Baez e di altri interpreti impegnati nelle battaglie per i diritti civili) ed in particolare Where have all the flowers gone, toccante canzone contro la guerra, anch'essa reinterpretata da artisti come Joan Baez, Marlene Dietrich e i Mamas and Papas.



Negli anni '60, Seeger scrisse la prima versione di un manuale divenuto un classico: How to Play the Five-String Banjo, un'opera che ha formato intere generazioni di banjisti.

Ecologismo e comunismo

Pete Seeger è da sempre stato impegnato come ecologista rigoroso e combattente per la tutela dell'ambiente. Nel 1966 fu tra i soci fondatori del "Clearwater Group", un'organizzazione che, da allora, lotta contro l'inquinamento delle acque del fiume Hudson e promuove la sua pulizia.

Pete Seeger è noto per essere, da sempre, un comunista; il che, negli Stati Uniti d'America, è notoriamente un problema di non poco conto. Gli sono stati affibbiati soprannomi come "Stalin's songbird" (l'usignolo di Stalin), ed altre cose del genere. Effettivamente, almeno negli anni '40 e '50, Seeger è stato uno strenuo sostenitore dell'Unione Sovietica. Dopo il XX Congresso del PCUS, durante il quale Nikita Khruščёv rivelò i crimini di Stalin e dello stalinismo, Seeger lasciò l'American Communist Party (di stretta osservanza sovietica) ma rimase comunque un comunista e un marxista.



La guerra nel Vietnam provocò in Pete Seeger un'autentica opposizione a tutto campo, che si concretizzò nel suo celebre e violento attacco televisivo alla politica di guerra del presidente Lyndon B. Johnson, avvenuto durante il popolare "Smothers Brothers Comedy Hour", dove Seeger cantò anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra vietnamita, Waist deep in the big muddy ("Giù fino al collo nel grande pantano"). La canzone fu tagliata una prima volta dai censori televisivi, e la trasmissione interrotta, ma Seeger comparve di nuovo la settimana dopo al programma e riuscì a cantarla per intero.



Come molti esponenti della vecchia sinistra americana, Pete Seeger non si trovò molto a proprio agio con il radicalismo culturale e politico degli anni '60, sfociato nelle rivolte studentesche che dagli USA si diffusero in tutto il pianeta. Non gli piacevano molto le tensioni generazionali fomentate dal movimento (registrò una volta una canzone intitolata Be kind to parents, "Siate gentili con i genitori"...) ed ammonì ripetutamente i giovani radicali ad evitare divisioni basate sui divari tra generazioni.



Nel prosieguo degli anni, ci fu da parte di Seeger un ripensamento profondo della sua attività politica; ciononostante, negli anni '70 e '80 continuò a sostenere ogni sorta di causa progressista, anche se si è dedicato prevalentemente a quelle di carattere ambientalista.





qui una bellissima versione dell'Internazionale cantata in francese e in inglese

Alessandro Portelli

Pete Seeger: la voce semplice della resistenza


Qualche tempo fa, capitai a casa di Dario Toccaceli, musicista e organizzatore culturale di lungo corso. Sentivamo dischi e parlavamo del più e del meno, quando gli capitò di dire che fra i nastri sparsi dentro casa sua dovevano esserci le uniche registrazioni esistenti dei due memorabili concerti che Pete Seeger aveva fatto nel 1977 a Novara e Torino. Mi resi conto subito che era un tesoro - non che lui non lo sapesse meglio di me, ma non aveva avuto occasione di pubblicarli. Per fortuna, era partita una collaborazione fra il manifesto e il Circolo Gianni Bosio, da cui erano usciti già tre CD. Fu subito chiaro che questo sarebbe stato il quarto. E infatti esce adesso, con titolo di Pete Seeger in Italia, aiutato anche dall’imprevista circostanza dell’omaggio reso da Bruce Springsteen a Seeger nel suo ultimo disco e nel suo prossimo tour - ed è, in assoluto, uno dei più bei dischi di questo grande protagonista della musica popolare e della cultura democratica americana.
Pete Seeger in Italia
, curato amorevolmente da Dario Toccaceli, presenta il meglio del repertorio di Seeger - da Which Side Are You On a Guantanamera, da John Henry a Darlin’ Corey, colto in un momento di piena maturità artistica, nel possesso completo dei suoi mezzi espressivi, in dialogo con un pubblico reattivo ed entusiasta. Davvero un grande disco, e possiamo essere fieri di averlo fatto noi.
Pete Seeger lo incontrai per la prima volta tanti anni fa, a una riunione della War Resisters League, la venerabile lega di resistenza antimilitarista di New York. Alla fine della riunione, mentre gli altri se ne andavano, rimise a posto le sedie, prese la scopa e, senza ostentata umiltà, pulì il pavimento. Era semplicemente un lavoro da fare: anche una sede abitabile fa parte degli strumenti di resistenza.
Ecco, semplicemente. Le prime volte che sentii la voce di Pete Seeger mi colpì proprio questo: la semplicità. Attenzione, è una semplicità sapiente: una voce calda che conosce i propri limiti, una musicalità profonda, un fraseggio eloquente e mai casuale, un dominio totale su una molteplicità di strumenti. Però, ti accorgi sempre che per Pete Seeger la canzone non è mai una vetrina per esibire la sua bravura con acrobazie vocali; piuttosto, la sapienza della sua voce diventa parte necessaria della canzone, del racconto cantato, e della storia di tutti quelli - operai, vagabondi, carcerati, militanti dei diritti civili, marinai, ribelli, pacifisti… - dalla cui vita vengono le canzoni che canta, o che hanno ispirato quelle che compone. Non c’è virtuosismo, né acrobazie vocali: l’arte di Pete Seeger è soprattutto quella di farci ascoltare quello che ci sta dicendo, e di farlo diventare nostro.
Anche per questo, i suoi dischi più memorabili sono dal vivo, in concerto. La presenza del pubblico non è mai limitata agli applausi alla fine di ogni pezzo, ma è sempre inclusa nell’esecuzione stessa delle canzoni - tanto che spesso la sua voce diventa solo parte di questa nuova voce collettiva. Fa ascoltare il pubblico che canta con lui, non per far vedere quanto è bravo e coinvolgente ma perché la sua comunicazione non è compiuta se le canzoni non vengono condivise, non diventano di tutti.
In una lettera rivolta “alla mia gente”, Woody Guthrie - che di Pete Seeger fu maestro, compagno e amico - diceva: “forse voi pensate che io sono l’artista, che io sono il poeta. Ma la mia voce non è che un’eco della vostra, le mie canzoni le ho prese al volo nell’aria in cui voi le avete cantate.” Far cantare il pubblico - cosa in cui è stato maestro prima di tutti - non serve a porsi come leader che trascina le folle, ma come un maestro capace di arricchirle e farle crescere e cambiare. Pete Seeger ci ricorda che la musica, e soprattutto la musica popolare, è di tutti e il suo modo non pretenzioso di porgerla incoraggia tutti a riprendersela, a farla propria - e magari a porsi il problema di rivendicare anche altri beni comuni.
E allora, se ad un certo punto - come in questo disco - si sente che la cinghia dello strumento gli è scivolata dalla spalla e si è dovuto fermare ridendo (e il pubblico ride con lui), questo serve a ricordare anche un’altra cosa: la musica non “è” ma “si fa”, ogni volta diversa, ogni volta qui ed ora, col rischio dell’imperfezione e con la speranza di fare una cosa viva. Una intuizione sapiente di Dario Toccaceli, per esempio, è quella di includere nel CD due performance diverse di alcune canzoni, compresa una Guantanamera ricantata con colleghi latinoamericani del calibro di Pablo Milanés; e allora basta vedere come cambia da un concerto all’altro Roseanne per seguire le tappe progressive della ricerca di rapporto con un pubblico che parla un’altra lingua.
Pete Seeger è un artista che più intrinsecamente americano, anzi New England, non si può. Ma ogni suo disco ci ricorda che è anche un artista generosamente internazionale, e coscientemente internazionalista. Zufola giocando una tarantella siciliana, musica siciliana nella Torino degli immigrati, come per ringraziare dell’ospitalità; accetta tranquillamente i limiti del suo spagnolo in Viva la Quince Brigada o Guantanamera, come pedaggio necessario per affermare la guerra civile spagnola o la rivoluzione cubana fanno parte della stessa lotta di libertà del movimento operaio di Which Side Are You On o del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti; che la tragedia di John Henry, ammazzato di lavoro, non è separata dalla tragedia di Victor Jara ammazzato dai fascisti nello Estadio Chile, e quando canta il prezioso blues I Don’t Mind Dyin’ non perde l’occasione di ribadire che tanto a Detroit quanto a Torino si fabbricano automobili.
Adesso Pete Seeger ha più di ottant’anni, la voce non è più ferma e sicura come la sentiamo in questo disco, ma le dita accarezzano ancora le corde degli strumenti.
In rete, circola la sua ultima incisione (http://www.afterdowningstreet.org\downloads\seeger.mp3). Introdotta e accompagnata dagli accordi del banjo, la sua voce non canta ma parla: “Che paese vi viene in mente quando sentite parlare di un governo che spia illegalmente i suoi cittadini, produce informazioni false, detiene prigionieri senza prove e senza difesa e processo, combatte guerre illegali basate sulle menzogne, uccide civili, tortura i prigionieri di guerra, usa armi illegali contro i civili, i giornali, gli ospedali? Per fortuna la nostra costituzione ha un rimedio: l’impeachment. Impeach George Bush, liberiamoci di lui.”
Il vecchio “war resister” è ancora sulla breccia e non ha fatto un passo indietro. Durante la guerra in Vietnam, patriottico e antagonista, cantava: “Se vuoi bene allo zio Sam, sostieni i ragazzi giù in Vietnam: riportali a casa!”.
Quella sera, dopo la riunione, Pete si domandava se lo strumento “folk” del futuro non sarebbe stato la chitarra elettrica. Adesso, durante un’altra guerra, questa canzone nata sul banjo di Pete Seeger ritorna con la voce e la chitarra di Bruce Springsteen.

da http://alessandroportelli.blogspot.com/

Paul Zollo

Pete Seeger o dello scrivere canzoni

Da un’intervista a Pete Seeger contenuta nel libro Songwriters, a cura di Paul Zollo, edito da minimum fax, e tradotto da Veronica Raimo e Francesco Pacifico.

Quelle di Pete Seeger sono le canzoni più accorate che un Paese abbia sentito, canzoni che sembrano risalire alla notte dei tempi, perché siamo cresciuti non solo ascoltandole ma anche cantandole, canzoni come “Where Have All the Flowers Gone?” e “If I Had a Hammer”. Seeger ha scritto canzoni che parlano di protesta e d’indignazione, come “Last Train to Nuremberg” e “Waist Deep in the Big Muddy”; canzoni che parlano di semplicità e d’amore, come “Turn, Turn, Turn” e “Rainbow Race”; e ci ha fatto conoscere intramontabili inni per l’umanità, come “We Shall Overcome”.
È nato nel 1919 a New York, terzogenito di Charles Seeger, musicologo, e Constance de Clyver Edison, violinista. Il suo amore per la musica folk risale all’età di sedici anni. Prese parte all’Ashe­ ville Folk Festival nel North Carolina, e da quel momento in poi smise di suonare canzonette con il suo banjo per dedicarsi al folk.
Avrebbe potuto seguire le orme accademiche del padre, e infatti frequentò Harvard per qualche anno, ma era impaziente di esplorare il mondo. Il suo obiettivo a quel tempo era di diventare un giornalista, non un musicista. Quindi abbandonò Harvard per intraprendere la sua carriera di scrittore, ma presto si rese conto di passare più tempo con il suo banjo che con la sua macchina da scrivere. L’incontro con un giovane songwriter di nome Woody Guthrie gli fece capire che avrebbe potuto continuare a collezionare fatti come un giornalista, ma per farli diventare qualcosa di più potente era meglio metterli in una canzone che in un giornale.
Pete attraversò l’America in treno e in autostop insieme a Woody, acquistando quella saggezza che non avrebbe mai potuto ottenere ad Harvard – come ad esempio sapere che il manico di un banjo si spezza molto facilmente se lo si usa per attutire la caduta da un treno in corsa. Imparò anche che cantare una canzone è uno dei modi migliori per guadagnarsi il pane quotidiano, e che il modo migliore per unire la gente è farla cantare tutta insieme, un talento che Seeger ha sempre posseduto in abbondanza.
Tutta la sua carriera testimonia il potere della canzone; molti dei suoi primi testi sono stati scritti per le associazioni operaie, con l’intento preciso di far aggregare le persone. Ma mentre gli operai si univano, i capi erano esasperati dalla verità sfacciata contenuta in canzoni come “Talking Union”, che era basata sul vecchio talking blues imparato da Woody.

Now you know you’re underpaid but the boss says you ain’t
He speeds up the work until you’re bound to faint
You may be down and out but you ain’t beaten
Pass out a leaflet, call a meeting, talk it over
Speak your minds
Decide to do something about it.1

Che si esibisse da solista o come membro di una delle due band di cui ha fatto parte (gli Almanac Singers e i Weavers), Pete ha sfruttato il potere della canzone per unire la gente in tantissimi modi diversi: dal cantare “We Shall Overcome” insieme a Martin Luther King e altri trentamila dimostranti in marcia da Selma a Montgomery, in Alabama, nel 1965, al cantare “Golden River” mentre discendeva l’Hudson con un gruppo di musicisti sulla potente barca a vela Cleanwater, un gesto che indusse la gente a collaborare alla pulizia del fiume. Ma mentre una parte della popolazione si sentiva più forte e più unita grazie a quelle canzoni, un’altra ne era spaventata e minacciata.
Quindi lo stesso tizio che era soprannominato “il diapason dell’America” e “un santo vivente” (da Bob Dylan) era anche denominato “antiamericano” e “usignolo di Chru∞∑ëv”. Seeger è stato messo sulla lista nera e tenuto lontano da radio e televisione per buona parte della sua carriera. Una volta che le sentinelle dei network avevano abbassato un po’ la guardia, tanto da lasciarlo suonare in televisione, lui si presentò allo “Smothers Brothers Comedy Hour” nel 1968 per cantare “Waist Deep in the Big Muddy”, un’accusa contro la politica di Johnson sul Vietnam («And the big fool says to push on» [“E l’imbecille dice di andare avanti”]). Gli Smothers persero subito il loro programma e Seeger fu tenuto alla larga dall’etere per altri dieci anni. È questo il potere della canzone.
Pete non si è mai lamentato per essere stato incluso nella lista nera. “Sono sempre riuscito a guadagnarmi da vivere”, ha detto. Al giorno d’oggi è ancora molto impegnato a guadagnarsi da vivere: andando in tour col figlio di Woody, Arlo Guthrie, incidendo album, tenendo una rubrica sulla rivista Sing Out!, tenendo lezioni all’ucla e in altri posti, navigando sulla Cleanwater, imparando, collezionando e scrivendo nuove canzoni, e mantenendo una fittissima corrispondenza con amici vecchi e nuovi in tutto il mondo.
Questa intervista è stata fatta in due momenti diversi. La prima parte è stata di mattina presto nella buia stanza d’albergo di Pete, vicino all’Ucla. Lui mi aveva detto che potevo accompagnarlo nella sua passeggiata mattutina se fossi arrivato al suo albergo per le otto. Preparato com’ero a intervistare questa leggenda vivente in movimento, sono stato molto contento quando ci ha ripensato e abbiamo chiacchierato seduti sul suo letto disfatto, con il banjo e la chitarra a dodici corde ai nostri piedi. Una settimana dopo, grazie alla sua indole generosa e giornalistica, ci siamo riparlati al telefono dalla sua casa nello Stato di New York.

Ti ricordi quando hai scritto la tua prima canzone?

Da bambino scrivevo poesie. Mio zio era un poeta, avevamo una tradizione poetica di famiglia. Mio nonno scriveva versi leggeri, mentre io e uno dei miei fratelli, di tanto in tanto, cercavamo di scrivere una poesia. Ma ho cominciato sul serio a scrivere canzoni solo quando ho incontrato Woody Guthrie. All’improvviso ho imparato qualcosa di terribilmente importante, vale a dire: non ossessionarti nella ricerca dell’originalità a tutti i costi. Se ti capita di ascoltare una vecchia canzone che ti piace e vorresti cambiarla un po’, farle qualche piccola modifica non è un delitto.
Vedevo Woody che lo faceva con una canzone dopo l’altra. Non c’è voluto molto perché lo sentissi cantare: (canta) “T come Texas, T come Tennessee…” Era l’autunno del 1940 e così io cantavo: (canta) «C for conscription, C for Capitol Hill, C for Congress, pass that goddamn bill…» [“C come leva obbligatoria, C come Capitol Hill, C come Congresso, fai passare quel dannato emendamento...”].
Quindi si potrebbe dire che quella è stata una delle mie prime canzoni. Ho usato la stessa melodia che Woody aveva preso da Jimmie Rodgers, e la stessa strofa di Jimmie Rodgers che avevo sentito cantare da Woody. E ci ho lavorato su.

Tu e Woody discutevate di songwriting?

No, non ne discutevamo in maniera teorica. Lo mettevamo direttamente in pratica. E non sempre ci trovavamo d’accordo. Io ero influenzato dalla musica caraibica, e nel 1942 avevo scritto una canzone su una donna che aveva un’associazione di lavoratori domestici ad Harlem, New York, usando una melodia di chiaro stampo caraibico. Woody era furioso. Disse: “Oh, questo non è il nostro tipo di musica. Falla cantare a quella gente una musica così, loro sanno come farlo”. Si è rifiutato di cantarla e alla fine io mi sono arreso… non era un granché come canzone. Ma questa è una cosa vera per la maggior parte delle canzoni che scrivi. Devi metterti in testa che anche se scrivi dozzine, se non centinaia di canzoni, sei fortunato se una su dieci merita di essere ancora cantata a distanza di un anno.

Woody era una persona felice?

Direi che fondamentalmente lo era. Era un tipo ottimista, positivo. Era in cerca del lato positivo delle cose, però nello stesso tempo non voleva ignorare quello negativo. Non era il tipo che vedeva sempre tutto nero. Ma Woody era un realista e non voleva far finta che non esistesse un lato triste. La grandezza dei suoi testi, credo, sta nel fatto che spesso nelle canzoni riusciva a unire queste due cose insieme. “So Long, It’s Been Good to Know You” contiene la tragedia del Dust Bowl,3 ma anche la comicità di quella situazione. L’innamorato canta: «Oh honey, I’m not talking about marriage, I’m saying, “So long, it’s been good to know you”» [“Oh, dolcezza, non sto parlando di matrimonio, sto dicendo: ‘Addio, è stato bello conoscerti’”]. “Si abbracciarono e si baciarono, sospirarono e piansero…” e così via, ma poi: “Addio, è stato bello conoscerti”. (Ride.)

Un’altra canzone di Woody che unisce tristezza e umorismo è “Tom Joad”. La leggenda vuole che tu gli avevi messo a disposizione una macchina da scrivere, lui ci ha lavorato tutta la notte scolandosi una brocca di vino, e il mattino dopo la canzone era finita. Ti sei meravigliato che fosse riuscito a creare un capolavoro in questa maniera?

Be’, meravigliato no. L’avevo già visto fare una cosa del genere. “Union Maid” è nata così. L’ho visto mettersi a sedere alla sua macchina da scrivere di mattina presto e fare tap-tap-tap sui tasti fino a quando una o due ore dopo aveva pronte cinque strofe. In realtà solo due meritavano di essere tenute.

Una volta ho letto che hai scoperto la musica folk a sedici anni.
Be’, le cose non sono così semplici. Dopotutto, quando avevo otto anni, cantavo gli inni natalizi, molti dei quali sono canzoni folk inglesi o francesi. “King Wenceslas” è una canzone folk svedese con parole riadattate. A scuola cantavo le canzoni folk che c’erano sul canzoniere scolastico: (canta) «The keeper did a’hunting go…» E così via. Molta gente ritiene che quello sia stato il primo tentativo di rendere più popolare la musica folk. Non ha funzionato, esattamente come non ha funzionato a mio avviso il secondo tentativo, fatto negli anni Sessanta. E non ha funzionato negli anni Venti.
Mio padre, negli anni Trenta, ha cominciato a ragionare sull’argomento insieme ad Alan Lomax, domandandosi: “Perché è fallito?” La conclusione a cui sono arrivati è che si sperava di far imparare la musica folk a scuola dalle pagine di un libro. Non si può. Perché bisogna ascoltare lo stile. Non bastava leggere la struttura di una melodia così com’era scritta sulla carta. In quel modo non si riescono ad afferrare tutte le sfumature più delicate. Ed era comprensibile che i bambini non fossero particolarmente attratti da una cosa del genere. Così negli anni Trenta mio padre e Alan Lomax hanno detto: “Insistiamo perché i ragazzi ascoltino la musica, tanto per cominciare, poi potranno scegliere da soli in che modo cantarla. E la maggior parte di loro vorrà probabilmente suonarla nel modo in cui l’ha sentita”.
Io ero uno di questi ragazzini. Avevo sedici anni quando mi hanno portato a un festival nel North Carolina. Quindi sono stato uno dei primi studenti yankee a innamorarsi della musica folk del Sud. E penso che per Bob Dylan e per molti altri sia stato lo stesso. Una cosa molto simile. Si sono detti: “Ehi, questa musica è fantastica! Per quale motivo io devo sorbirmi la merda che passa per radio? Questa è la cosa migliore che abbia mai sentito”.
Naturalmente poi si è visto cosa è successo negli anni Cinquanta e Sessanta. I produttori di musica commerciale sembravano possedere il tocco di Re Mida. Solo che non tutto si trasforma in oro, spesso si trasforma in spazzatura. E comunque vivere nell’oro non dà grandi soddisfazioni. La gente ha bisogno di cibo e di amore. Non ha bisogno d’oro.
Tin Pan Alley, 4 che per me rappresenta l’intero business della musica commerciale, tende spesso a dire: “Ehi, questa cosa si vende bene, promuoviamola”. Poi, quando la promuovono, si mettono lì a ragionare: “Cos’è che vende davvero bene? Sbarazziamoci di tutta quella roba che non vende bene”. E allora provano a eliminare le canzoni di protesta. Negli anni Venti hanno eliminato il sesso. Tutte quelle canzoni folk meravigliose che parlavano di sesso sono state censurate durante gli anni Venti sia in Inghilterra che da noi.
Quando nel 1964 andò in onda lo spettacolo della Abc “Hootenanny”, furono molto attenti a fare in modo che nella scaletta del programma non ci fosse nessuna canzone di protesta contro la guerra in Vietnam. È la stessa cosa di andare da un pittore e dirgli: “Signor Michelangelo, lei è un bravo pittore. Adoro il modo in cui disegna le rocce e gli alberi e via dicendo, e queste tonalità color carne sono stupende. Ma levi questa persona dalla croce. La metta in poltrona”.
Insomma, sono molto contento che ci siamo lasciati alle spalle questa “fobia da folk” del 1964, che la cosa abbia fatto il suo tempo. E quando la gente mi chiede: “Pensi che ci sarà un revival della musica folk?”, rispondo senza esitazione: “Spero di no”. Spero che si ritorni a una comprensione molto più profonda di che cosa è veramente la musica folk.
In primo luogo si tratta di un processo, e non di una data canzone o di un dato cantante. È un processo in cui delle persone qualunque prendono delle vecchie canzoni e se ne impadroniscono. Non si limitano ad ascoltarle, ma le cantano, le accompagnano e le trasformano.
I neri l’hanno sempre fatto, da quando sono arrivati in questo continente. Perché in Africa il processo del folk è fortissimo. Quando gli africani si sono ritrovati qui hanno semplicemente continuato a fare quello che avevano fatto per secoli e secoli. E quando hanno preso in mano tromba e clarinetto hanno creato il jazz, quando invece hanno preso la chitarra hanno creato il blues. Sono affascinato nel vedere che questo processo continua ancora.

grazie a minimaetmoralia.it

Andrea Silenzi

Addio a Pete Seeger

 

Pete Seeger, l'autore di "Turn, turn, turn" e "If i had a hammer" è morto all'età di 94 anni. Il cantautore americano, assieme a Woody Guthrie uno dei maggiori esponenti del folk americano, è deceduto in un ospedale di New York dopo una breve malattia.

Attivista politico, sostenitore dell'area più radicale della sinistra americana, era uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta. Dopo aver conquistato la fama assieme al gruppo The Weavers, fondato nel 1948, continuò come solista nel corso di una carriera lunga sei decenni. Ecologista, fu anche un paladino inarrestabile di tante battaglie in difesa dell'ambiente.

Pete (vero nome Peter) Seeger era nato a New York il 3 maggio del 1919, figlio del musicologo Charles Seeger, uno dei primi ricercatori nel campo della musica orientale. Cresciuto in una famiglia di artisti (anche i suoi fratelli Mike e Peggy erano musicisti e cantanti), nella seconda metà degli anni Trenta lascia l'università (aveva iniziato a studiare a Harvard) e inizia a suonare in maniera professionale abbracciando la strada del folk singer, influenzato sopratutto dal pioniere della riscoperta del blues e della musica popolare americana, Alan Lomax. Ma soprattutto, alla fine degli anni Trenta, incontra Woody Guthrie, con il quale intraprende un lungo viaggio attraverso l'America e durante il quale si confronta con l'anima più popolare della musica americana.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Seeger partecipa alla nascita di un'organizzazione chiamata People's Song Inc. (PSI), nata con lo scopo di diffondere le canzoni dei propri associati. Per trovare fondi, il PSI organizza spettacoli folk chiamati "hootenanny", che diventano poi molto celebri nei primi anni 60, in coincidenza con il grande revival del folk. La costante attività politica e la sua dichiarata fede comunista causano a Seeger numerosi problemi nell'epoca del maccartismo (viene anche condannato a un anno di prigione, ma trascorre solo pochi giorni in galera) senza peraltro frenarne l'attività.

Il successo arriva con il debutto dei Weavers, nel 1949, che diventano un elemento decisivo per il fenomeno del folk revival. Le sue canzoni si trasfromano in autentici inni pacifisti, spesso ripresi da altri artisti: a parte "We shall overcome", la vera colonna sonora delle marce per la pace per tutti gli anni 60, vanno ricordate "Where have all the flowers gone?", portata al successo nel 1962 dal Kingston Trio, e "Turn turn turn", che alla fine del 1965 trascina i Byrds ai primi posti delle classifiche. Rimane celebre il suo attacco al presidente Lyndon Johnson e alla sua politica militare durante il programma tv "Smothers Brothers Show" dove Seeger canta anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra nel Vietnam, “Waist deep in the big muddy“ ("Giù fino al collo nel grande pantano").

Le canzoni e l'impegno di Seeger hanno esercitato una grande influenza su molti artisti, da Bob Dylan e Joan Baez fina Bruce Springsteen. Proprio il Boss, nel 2006, ha inciso l'album "We shall overcome. The Seeger sessions", interamente dedicato alle canzoni del grande folksinger. Nel 1996, Seeger era stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel 1997 si era aggiudicato un Grammy. Nel 2009, in occasione del suo novantesimo compleanno, il Madison Square Garden ospitò un grande concerto in suo onore cui presero parte, tra gli altri, Eddie Vedder, Dave Matthews, Ani DiFranco e Bruce Springsteen. Sempre nel 2009, Seeger partecipò al Lincoln Memorial Obama Inaugural Celebration Concert, ancora una volta insieme a Bruce Springsteen.

la Repubblica, 28.01.2014