Edgar Wallace
Una prolificità - come notava Alberto Del Monte (Il racconto poliziesco, Nuova Italia, 1975) - «inversamente proporzionale alla qualità dei suoi romanzi, caratterizzati dalla trasandatezza formale, dall'improbabilità degli intrecci, dalla gratuità delle soluzioni. Il Wallace rivela l'influsso del romanzo "feuilleton" e del "thriller" e adotta uno schema che si ripete monotonamente in quasi tutte le sue storie; c'è un antefatto che viene rivelato a poco a poco ma che viene spiegato solo alla fine; c'è un personaggio misterioso che però risulta essere un detective; v'è una ragazza che, o è inconsapevolmente una pedina del piano del criminale o provoca in lui una morbosa passione, che è rapita e la cui liberazione segna anche la soluzione della vicenda. Questo schema è variato di volta in volta con tutto il repertorio tematico delle "crime" e delle "mystery stories", ma rimane pressoché fondamentale e denuncia, nell'apparente varietà, l'uniformità dell'inventiva dello scrittore». Insomma, un furbacchione che - come avrebbe fatto più tardi Spillane, con analoghi esiti - dava al pubblico roba forte e senza sostanza. Per lui scrivere equivaleva semplicemente a realizzare un prodotto da vendere, tant'è che tutti i suoi veri interessi erano altrove: le corse dei cavalli, l'industria cinematografica, l'editoria "popolare". Che poi dentro un libro vi dovesse essere vita, era per lui del tutto trascurabile. Forse l'unica eccezione sono le storie de I Quattro Giusti (The Four Just Men): un gruppo di giustizieri, appunto, che non vanno troppo per il sottile nella lotta contro il crimine ma che perlomeno hanno una qualche motivazione etica per il proprio agire sbrigativo, e nelle loro vicende c'è sempre un quid di morale: di grande semplicità, si capisce, ma sempre meglio di niente. «Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto»: queste sagge parole di Gadda lo avrebbero visto sorridere con sufficienza: si sarebbe versato l'ennesima tazza di thè dicendo "Dunque, signorina, scriva..." Ma almeno un merito gli va riconosciuto: Wallace è stato lo sceneggiatore di quel capolavoro che fu King Kong (regia di Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack, 1933), con vari rifacimenti (1976, 1995), seguiti e imitazioni.
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