Elmore Leonard
Leonard, infatti, gioca continuamente sugli stili e sul linguaggio, con due capisaldi: dialoghi tra i migliori in assoluto di tutta la letteratura poliziesca ed un senso dell'umorismo eclettico e irresistibile, per certi versi simile a quello di Westlake. Un'atmosfera angosciosa viene interrotta bruscamente da una battuta esilarante, una situazione tranquilla vira con spiacevole rapidità sul noir più crudo, i ruoli sono mescolati ai limiti del possibile, l'azione e la deduzione si intrecciano con astuzia e ritmo. Un grande scrittore, a cui il cinema ha pagato molti diritti d'autore senza peraltro rendergli giustizia: gran parte dei lavori cinematografici sono mediocri, a eccezione dei western Quel treno per Yuma (Delmer Daves, 1957, e poi James Mangold, 2007) e Io sono Valdez (di Edwin Sherin, 1960), e dello splendido thriller di Quentin Tarantino Jackie Brown (1997), con una brava Pam Grier; molto divertente Get Shorty (1995); non male anche Oltre ogni rischio (1988). Un'ottima serie (2010 - 2015) sulle vicende del marshal Raylan Givens: Justified. Insomma, un vero peccato che pochi registi siano riusciti ad attingere con intelligenza a Leonard, una miniera di situazioni originali e dialoghi brillanti, che sembrano andare istintivamente verso il cinema di qualità: storie argute, semplici senza essere scontate, personaggi disegnati con ironia, ritmo musicale e coinvolgente che non ha bisogno di effetti speciali. Autore molto prolifico, citiamo solo i romanzi polizieschi:
Classe 1925, quarantaquattro libri (e una manciata di racconti) in più di mezzo secolo di attività: nel 1951 Leonard pubblica su rivista il suo primo racconto, un western, e per almeno un decennio esplora questo filone scrivendo romanzi violenti e fondamentalmente anti-razzisti (cfr. Arriva Valdez, Longanesi, da cui è stato tratto il film Io sono Valdez, con Burt Lancaster, del ’71). Ma alla fine degli anni Sessanta il Nostro si dedica ai romanzi di ambientazione criminale, e a partire da Il grande salto (’69, Einaudi 2004) immette nella propria narrativa il carattere anarchico e fondamentalmente misogino di autori pulp come Day Keene e Gil Brewer – senza naturalmente dimenticare la lezione degli amatissimi Steinbeck e Hemingway. Se la crime fiction descrive una cultura e una società in cui potenzialmente chiunque è un criminale, i romanzi di Leonard raccontano di un’America diventata una democrazia del desiderio e del consumo, in cui i personaggi sono alla compulsiva ricerca della Grande Svolta, del colpo della vita, disposti a tutto pur di raggiungere il gradino più alto della scala socioeconomica. I profitti illeciti hanno criminalizzato uomini d’affari, politici e tutori della legge insieme, e Leonard riduce la distanza morale tra buoni e cattivi alternandone il punto di vista. Narrazioni frammentarie, ellittiche, i suoi crime novels costituiscono una mappatura (più o meno consapevolmente) anche politica dei meccanismi di causa-effetto della violenza, esplorazioni sulla natura universale della corruzione e sulla relativizzazione della moralità, in cui è in atto uno scontro di (sub)culture in cui la logica del potere dominante si basa sulla manipolazione delle immagini mediatico-culturali. Inevitabilmente è la metropoli il grande fondale della narrativa di Leonard: in particolare Detroit (52 gioca e muori, ’74, Sperling & Kupfer ’91 e Sfida a Detroit, ’80, Mondadori ’90/Interno giallo ’93) e Miami (Costa dorata, ’80, Mondadori ’91/’93 e Dissolvenza in nero, ’83, Sperling & Kupfer ’89/’92). Inoltre, se col passare degli anni le sue storie violente ed eccentriche si sono spostate nei territori della comedy of manners, subendo l’influenza diretta del mondo del cinema (Get Shorty, ’90, Mondadori ’97, precedentemente come La scorciatoia, Interno Giallo ’91) anche i personaggi femminili si sono fatti sempre più volitivi, intraprendenti e di grande presenza fisica: Carmen Colson in Il corvo (’89, Interno Giallo ’90/Mondadori ’94), Kathy Diaz Baker in Il massimo della pena (’91, Interno Giallo ’93) Jackie Burke in Jackie Brown (’92, Net, ’04) e Karen Sisco in Fuori dal gioco (Out of Sight, ’96, Baldini & Castoldi ’98). Se ancora all’inizio degli anni Ottanta Leonard viene considerato “il romanziere sconosciuto più popolare d’America”, è solo a metà del decennio che arriva il vero successo commerciale, quando Casino (Sperling & Kupfer, ’86) entra nella classifica dei best-seller del “New York Times”, fino alle produzioni cinematografiche di Get Shorty, Out of Sight e Jackie Brown nella seconda metà degli anni Novanta. A tutt’oggi una certa élite hollywoodiana si contende i diritti dei suoi romanzi: John Malkovich Freaky Deaky (che Leonard considera il suo miglior romanzo, per ora inedito in Italia - ma sappiamo che Wu Ming 1 sta lavorando alla traduzione per Einaudi), i fratelli Coen quelli di Cuba libre (Tropea, ‘98), Kathy Bates Che razza di coppia (Tropea, 2001), Danny De Vito Quando le donne aprono le danze, dall’omonima raccolta di racconti (Einaudi, 2006). “New York Times” pubblica le “Elmore’s Rules of Writing”, un decalogo costellato di “never” (mai: “cominciare un libro parlando del tempo”, “usare un verbo diverso da ‘disse’ quando scrivete un dialogo”, “usare un avverbio per modificare il significato di ‘disse’”), “avoid” (evitate: “il prologo”, “descrizioni dettagliate dei personaggi”) e “leave out” (eliminate: “tutte le parti che i lettori tendono a saltare”). Decalogo che si riassume nell’ormai celebre chiosa finale: “Se ho la sensazione che quello che ho scritto sia troppo ‘scritto’, lo riscrivo” (cfr. “Le dieci regole di scrittura di Elmore Leonard”, traduzione di Marta Salaroli, in Courmayeur Noirinfestival 2006, catalogo della rassegna). Insomma, un diktat semiserio per sancire la preminenza dello showing rispetto al telling, una vera e propria dieta narrativa per evitare narcisismi e autoindulgenza. All’inizio dello scorso dicembre, in una Courmayeur insolitamente piovosa, incontro Elmore Leonard nel suo albergo. Il giorno precedente ha ricevuto il “Raymond Chandler Award”, il premio che tutti gli anni il Noir in Festival assegna a una figura di particolare rilievo del mondo della narrativa di genere poliziesco. A ottantun anni suonati, il grande “Dutch” mi pare in buona forma e, nonostante le incombenze della rassegna, accetta volentieri di rispondere alle mie domande. Il suo rapporto con Hollywood è stato un po’ controverso…Vede, quelli leggono un mio libro e pensano subito che sia un film. Perché ci sono delle belle scene, dei bei dialoghi. Il problema è che dopo l’adattamento restano soltanto i dialoghi, che molto spesso non sono neppure i miei dialoghi. Fino a, diciamo, Get Shorty il problema è stato questo: se prendi un mio libro di trecentocinquanta pagine e lo riduci a centoventi, per forza lasci fuori un sacco di roba interessante. Perché a un certo punto, prima o poi, ti accorgi che i miei romanzi non sono soltanto dialoghi, e nemmeno solo trama. No, il vero fulcro sono i personaggi. Per cui, alla fine, ti ritrovi in mano una sceneggiatura che è soltanto trama. Certo, magari anche inconsueta o bizzarra, ma sempre e soltanto una trama. Insomma, Hollywood è… Hollywood! Guardi che non si tratta mica di cinismo, sa? Non serve a nulla, né arrabbiarsi né essere cinici. Bisogna semplicemente accettare, accettare quello che può succedere ai tuoi libri. Inutile darsi troppa pena, perché tanto non ci puoi fare niente. Ecco perché dopo quindici anni [dal 1972 al 1987 - ndr] me ne sono tirato fuori, e cerco di non farmi coinvolgere più. È un lavoro molto duro, che in un modo o nell’altro viene calpestato da un vero e proprio comitato di persone che non ha la benché minima idea di cosa significhi scrivere. Sei soltanto uno stipendiato che lavora per qualcun altro. Mentre invece, quando scrivo un romanzo, devo rispondere soltanto all’editore, e soprattutto a me stesso. Comunque cerco sempre di essere ottimista, di avere sempre la speranza che gli altri riescano a cavar fuori qualcosa di buono dai miei libri. Pensi che un po’ di tempo fa mi hanno chiamato dalla Miramax chiedendomi di trovare un titolo per un film che stavano girando. Insomma, io ho capito male e pensavo che mi volessero ingaggiare per la sceneggiatura o il trattamento, e ho risposto che non lavoravo più a quel genere di cose. E invece quelli sa che mi hanno detto? “No, guardi, vogliamo solo che lei trovi un titolo cool per il nostro film. La paghiamo, sa?” Mah, è proprio una gabbia di matti, ma questa non è certo una novità… Ma chi è il vero hot kid di questo suo ultimo romanzo? Perché ho come l’impressione che ce ne sia più di uno… Ah! Vero… Be’, innanzitutto Carl Webster, ovviamente: lui vuole diventare il tutore della legge più famoso d’America, e ci riuscirà. La sua storia prosegue nel nuovo romanzo che sto scrivendo, Up in Honey’s Room, ambientato negli anni Quaranta, che uscirà negli States il prossimo mese di maggio. In The Hot Kid Carl si ritrova ad affrontare Jack Belmont, che vuole diventare il Pericolo Pubblico Numero Uno, nonostante sia il figlio di un ricco petroliere. Poi c’è anche la futura moglie di Carl, Louly, che prima vuole diventare la pupa del rapinatore Pretty Boy Floyd, e poi anche Tony Antonelli, l’ambizioso giornalista di origini italiane… Insomma, tutti vogliono diventare “the” hot kid… Penso che questo sia uno dei temi principali del romanzo: l’ossessione per la fama, agli albori della cultura pop e mediatica americana… Già… Ma io non avevo in mente questo, quando ho iniziato a scrivere il libro. Una volta, parlando con Scott Frank, che è un bravissimo sceneggiatore hollywoodiano, che ha lavorato in Get Shorty e Out of Sight, mi disse di aver letto i miei libri una prima volta a velocità normale, e poi una seconda più lentamente, per scoprire quali fossero i temi. E io: “I temi? Quali temi?” “Massì, il tema di Get Shorty: in che modo la gente di una certa età se la cava a Hollywood!” “Ed è questo, secondo te? Guarda che io mica lo sapevo. Anzi, io non sapevo neanche di avere un tema…” Vede, io resto sempre meravigliato quando qualcuno mi viene a parlare di una certa idea in un mio libro. Certo, ci può essere un tema, ma io non me ne rendo conto, perché quando scrivo un romanzo lo faccio per scoprire che cosa succede, per scoprire cosa fanno i personaggi. Come si comportano? Qual è il loro atteggiamento nei confronti del mondo? Quindi è dai personaggi che scaturiscono le scene. Le scene vengono viste da un certo personaggio e l’azione si sviluppa attraverso il dialogo, che per me è fondamentale. I miei romanzi sono i personaggi. La trama è qualcosa che in un certo senso viene di conseguenza. E poi, quando sto scrivendo un libro, io divento il personaggio che sto mettendo su carta. Certo, non credo proprio che sarei in grado di fare tutto quello che fanno loro. Però, se non altro, cerco di farli pensare come me. E i dialoghi, che sono ormai dei veri e propri classici? Credo, nel tempo, di aver sviluppato una buona capacità nell’ascoltare i discorsi degli altri. C’è stato un periodo, verso la fine degli anni Quaranta, in cui frequentavo spesso i locali della gente di colore, perché mi piaceva il jazz e andavo ad ascoltarlo. E poi ho fatto tanti lavori, che mi hanno dato la possibilità di conoscere direttamente molte persone prive di istruzione superiore. Ho conosciuto poliziotti e criminali. Nei miei libri cerco sempre di non mettere troppo slang locale, per me si tratta più di una questione di ritmo, di cadenza. Sotto questo punto di vista uno scrittore come George Higgins, e un romanzo come Gli amici di Eddie Coyle, mi hanno insegnato moltissimo, soprattutto come entrare immediatamente in una storia. E che non c’è bisogno di descrivere tutto, o di preoccuparsi troppo della trama. Basta far parlare i tuoi personaggi e poi tutte le cose importanti del libro, compresa la trama, verranno fuori. L’America che lei descrive in The Hot Kid sembra quasi in preda al caos: la Depressione, il crollo di Wall Street, i criminali… Certo. È un periodo che mi ha sempre affascinato. All’epoca si diceva che in America c’era un medico ogni venti rapinatori… Un personaggio come Pretty Boy Floyd scorrazzava per l’Oklahoma e l’Arkansas, Bonny e Clyde erano diventati eroi popolari, quasi mitici, dei veri e propri cult heroes, anche se nella realtà dei fatti erano quasi dei balordi di mezza tacca, dai loro colpi non guadagnarono poi molti soldi. Diventarono famosi per le sparatorie con la polizia. Dillinger diceva che è stata colpa di quei due, se le rapine in banca hanno cominciato ad avere una cattiva reputazione… Lui sì, che fece un sacco di soldi con le rapine, prima di venire ammazzato uscendo da un cinema a Chicago. Per The Hot Kid mi interessava sviluppare una figura di antagonista per Carl Webster, e con Jack Belmont credo di esserci riuscito. Lo sapeva che il nome di Anthony Antonelli, lo scrittore-reporter del libro, è venuto fuori in seguito a un’asta? Diverse persone vi hanno partecipato per far sì che il loro nome venisse usato nel mio romanzo… Come, scusi? Già, proprio così. Una signora ha pagato diciassettemila dollari per avere il nome di suo figlio in The Hot Kid… A Detroit c’è stata un’asta di beneficenza a favore di un gruppo di medici oculisti per comprare occhiali per le persone indigenti. E non è la prima volta che mi presto a questo genere di iniziative, che negli States sono molto più diffuse di quanto possa pensare: almeno quattro personaggi dei miei ultimi libri hanno il nome di persone che hanno pagato una bella cifra, poi devoluta in beneficenza. Ovviamente non sanno quale personaggio avrà il loro nome, se sarà il buono o il cattivo [ridacchia - ndr.] Ma nel caso di The Hot Kid, visto che la signora ha sborsato ben diciasettemila dollari, doveva essere per forza uno dei protagonisti, no? A proposito di Antonelli: possiamo considerarlo una sorta di immagine speculare - e soprattutto ironica - dello scrittore Elmore Leonard? Be’, in un certo senso sì. Oddio, non è certo un esempio di understatement hemingwayano… Però, nel romanzo, di tanto in tanto lui spiega come scrive - e come scrivevano a quell’epoca: esagerando. C’è anche un senso di nostalgia, per quel genere di scrittura? No, nostalgia no. Però era divertente. Quando io ho iniziato a scrivere ho cercato subito di impossessarmi di Hemingway. È stato lui il mio faro. All’inizio del mio periodo western tenevo Per chi suona la campana come una sorta di breviario. Perché poteva essere un western spagnolo: uomini sulle montagne, a cavallo, armati… Se lei apre uno dei suoi libri, lei vede gli spazi bianchi. Non vede lunghi paragrafi di prosa. Tutti i libri di narrativa popolare che leggevo all’epoca mi facevano pensare: ci sono troppe parole! Dicono troppo! Dovrebbero tagliare come fa Hemingway, con quel suo stile disadorno, usando la parola esatta per descrivere i personaggi, invece di perdersi in troppi dettagli sul loro aspetto. Quindi ho cercato di imparare il più possibile da lui, finchè a un certo punto non ho capito che gli mancava totalmente il senso dell’umorismo, che si prendeva troppo sul serio. Alla fine, credo, si era accorto di aver perso la sua capacità di scrivere mantenendo inalterata la freschezza, e così iniziò a diventare manierato, a copiare se stesso. E allora mi sono cercato una nuova fonte di ispirazione, e l’ho trovata in Richard Bissell: il suo sound era esattamente quello che cercavo. I libri ambientati sul Mississippi, come appunto My Life on the Mississippi, sono pieni di personaggi veri, che pur non essendo volutamente divertenti in realtà lo erano proprio. È da lì che ho sviluppato il mio humour: non si tratta di barzellette, nessuno parla per far ridere… Quando Barry Sonnenfeld stava girando Get Shorty, gli dicevo: “Se qualcuno fa una battuta, dice qualcosa di divertente, non spostare l’inquadratura su un altro attore per far vedere la sua reazione, se ride o sorride. Perché quel personaggio non intende affatto essere divertente, è serissimo. Lascia che sia lo spettatore a decidere, che sia lui a ridere”. Quindi nei suoi romanzi lei vuole essere una sorta di presenza invisibile… Oh, assolutamente! Perché, ripeto, sulla pagina ci devono essere solo i personaggi. In un mio libro, la cosa che mi preme di più è di non essere identificato. Non voglio che quando lei lo legge senta le mie parole, ma quelle dei personaggi. Evito sempre il narcisismo di chi dalla pagina continua a lanciare messaggi del tipo: “Ehi, guardate come scrivo bene!” Io non faccio mai uso di metafore. Perché rallentano le cose, la narrazione. E, soprattutto, perché non sono capace di usarle bene - e se una cosa non la so fare bene, è inutile che la faccia. Vede, uno scrittore “letterario” ha una sua voce, ha a disposizione tutte le parole che desidera. Io, invece, no. Da quel punto di vista io sono limitato. Sa, i miei racconti non potrebbero mai essere pubblicati sul “New Yorker”: in fondo io scrivo solo storie che hanno un inizio, una parte centrale e una fine…[ride - ndr.] Però ho il senso del dramma, il senso della scena, e riesco a far parlare i miei personaggi. E per me questo è più importante che ascoltare la voce dell’autore. Perché altrimenti, a un certo punto, rischi di diventare molto noioso. E allora chi se ne frega del tuo libro? grazie a: "Pulp Libri", n. 65, gennaio/febbraio 2007
Per tradurre Elmore Leonard in italiano è necessario essere buoni ascoltatori. Bisogna amare la conversazione, la storia viva che serpeggia tra le teste nelle piazze, i capannelli di pensionati che bisticciano in dialetto, le pause caffè nei corridoi, i pranzi estivi dai parenti di campagna, i bar aperti prima dell'alba, i viaggi in auto su e giù per la Penisola, le rare occasioni in cui nello scompartimento dell'Intercity Notte nessuno vuole dormire. Per il traduttore italiano sono due ordini di difficoltà, due sfide. Procediamo con ordine, partendo dalla prima. Nell'italiano letterario la connotazione "popolare" e "di strada" si ottiene ricorrendo a slang locali, regionalismi, substrati dialettali. È una conseguenza della storia politico-amministrativa del nostro Paese, storia fatta di confini, pedaggi e guerricciole tra principati, ducati, repubblichette, statini e staterelli. A sua volta, quella storia deriva dalla conformazione orografica della Penisola: viviamo su una striscia di terra lunga e smilza su cui s'affollano montagne, colline, gole, vallate piene di nebbia, fiumi dai complicati estuari, paludi bonificate appena ieri, lagune, isole, isolette, in una successione di climi che va dal gelido al subtropicale. Tutto ciò che poteva favorire il divergere della lingua parlata, il Diavolo ce l'ha concesso in abbondanza. Da quando Manzoni sciacquò in Arno i suoi panni lombardi, la costruzione dell'italiano come lingua comune è proceduta a tappe forzate. L'unità nazionale, le trincee della Grande Guerra, la radio, l'Italianità fascista, la televisione, le migrazioni interne... L'offensiva contro i dialetti è stata violentissima, in ogni parte d'Italia si fanno sempre meno stretti, si imbastardiscono, recedono, scompaiono. A Bologna città soltanto i vecchi parlano petroniano. Eppure, siamo ancora ben lontani dal parlare ovunque allo stesso modo, soprattutto sui registri bassi e medio-bassi: parliamo tutti italiano ma gli slang sono molto diversi, le differenze sono già marcate da una città all'altra, l'italiano popolare che si parla a Bologna ("Ho chiamato il fontaniere perché si è munito il water. Quando suona, dagli il tiro!") risulta incomprensibile nella vicinissima Firenze. In mezzo c'è l'Appennino. Eccolo qui, il dilemma del traduttore di Leonard. Da qualche anno si stanno dividendo il lavoro soprattutto il Sottoscritto e Luca Conti. Per rendere l'autenticità che tutti riconoscono ai dialoghi di Leonard, ambedue cerchiamo di tendere l'orecchio alle voci che entrano dalla finestra, che sentiamo in latteria, che ci parlano al telefono. Il punto è: le voci che sento io a Bologna e quelle che sente Luca a Firenze non parlano affatto la stessa lingua. Non sul registro basso. Quando leggo le traduzioni di Luca, me ne rendo conto subito. In Hot Kid, a un certo punto, c'è una favolosa "N.d.T." composta di una sola parola: "Merdaiolo". In quel particolare romanzo, l'uso di un sound toscaneggiante come "rammendo invisibile" è perfettamente consono: Hot Kid si svolge nell'Oklahoma degli anni Trenta, in un contesto rurale urbanizzato a macchie di leopardo, tra miniere e scioperi. Il toscano è perfetto, perché ha una connotazione di selva e campagna, di piccoli borghi e industrializzazione intermittente, di cave e miniere, di scioperi. Non ci sono metropoli, in Toscana. Per questo i toscanismi striderebbero in un romanzo ambientato, chessò, a New York. Con tutto il rispetto, Henry Miller che dice "bischero" e "potta" proprio non mi convince. Occorre dunque attingere alla fonte locale, ma senza esagerare, perché si rischiano il ridicolo, l'invadenza del traduttore e lo spostamento dell'attenzione da Detroit a Pietralata, da Miami a Casalecchio, dall'Oklahoma a Poggibonsi. Ho già scritto altrove** di quanto sia necessario ricorrere a ellissi, anacoluti e nessi sintattici precari per riprodurre in italiano l'effetto di realtà tipico dei dialoghi di Leonard. Questo mi permette di passare direttamente alla seconda sfida. Leonard è ostile all'io narrante, scrive usando la terza persona, ma non c'è un narratore esterno, men che meno "onnisciente". Il punto di vista è sempre quello del personaggio che agisce. If I write in scenes and always from the point of view of a particular character - the one whose view best brings the scene to life - I'm able to concentrate on the voices of the characters telling you who they are and how they feel about what they see and what's going on, and I'm nowhere in sight. *** "I'm nowhere in sight". Niente intrusioni, l'autore/narratore svanisce (e già questo suona strano in Italia, dove l'Autore è spesso invadente e sovrano della lingua per diritto divino). Nessun ammiccamento, nessuna informazione calata dall'alto. Nei flussi di coscienza, l'assenza dell'io narrante preclude la via del "rispecchiamento" psicanalizzante tra voce dell'autore e "monologo interiore" del personaggio. Per fare un esempio a caso, ecco come in Mr Paradise (2004) Leonard ci presenta il primissimo incontro tra i due protagonisti, Frank Delsa e Kelly Barr, dal punto di vista di quest'ultima (traduzione mia): Poco dopo entrò un poliziotto in divisa che le chiese se stava bene. Lei non disse niente, restò sulla sedia rivolta alla finestra, lui in piedi, un po' chino su di lei, faccia da vigile urbano, alito di tabacco. Sul vetro, i riflessi di entrambi. Lui domandò se aveva visto cos'era successo. Lei capì cosa voleva dire ma rispose di no. Lui disse che non intendeva se l'aveva visto succedere, allora lei rispose che sì, aveva visto i corpi sul divanetto. Poi affondò la testa nel bavero rialzato del soprabito color cannella. Lui chiese se era venuta insieme all'altra. Lei non disse niente. Come si chiamava? Non rispose. Non doveva cambiarsi d'abito né lavarsi la faccia e le mani. Doveva lasciare la luce accesa e la porta aperta. Poi l'uomo se ne andò, ma in corridoio rimase solo un altro agente in divisa, una donna nera. **** Leonard è "nowhere in sight", siamo nella mente di Kelly eppure, al contempo, fuori di essa. A descriverci il suo flusso di coscienza non è lei stessa, ma nemmeno un narratore esterno. Chi dice "lui" e "lei" nei romanzi di Leonard? Fitzgerald diceva: "Il personaggio è l'azione, l'azione è il personaggio". A proposito di passaggi come questo, noi potremmo dire: "Il narratore è l'azione, l'azione è il narratore". L'italiano letterario è plasmato da tutt'altra storia e tradizione, e oggi ristagna nella riproposta farsesca dei suoi tratti peggiori: invadenza della voce dell'autore, narratori onniscientissimi oppure io narranti asfittici e "rispecchiamenti" a profusione, ostentazione della scelta sperimentale etc. Il trombonismo di molti scrittori italici (anche relativamente giovani) trova nella discrezione leonardiana la sua antimateria. Un registro che si finge medio, una prosa che dissimula le scelte estreme che la fondano, un autore che si sottrae... Siamo poco abituati a scelte del genere, e così corriamo il rischio di non cogliere la struttura della prosa di Leonard, di non risalire alle sue scelte, di non capire gli stratagemmi a cui ricorre. È un bel problema: dissimulazione e scomparsa dell'autore devono funzionare nei confronti del lettore, che così può godersi il libro senza avere tra le palle chi l'ha scritto e in testa il pensiero della sua bravura... Ma un traduttore deve saper rintracciare l'autore anche quando si nasconde. Deve andarlo a cercare nei coni d'ombra della sua prosa. Deve interrogarlo a distanza sulle decisioni che ha preso, le scorciatoie che ha imboccato, le trappole che ha escogitato. Soltanto così potrà renderne lo stile nella nuova lingua. Se il traduttore scambia il registro duplice di Leonard per registro medio, darà di quella prosa una versione sciatta e impacciata. Alla scena di cui sopra, in Mr Paradise, segue un lunghissimo flash-back (nove pagine, nell'edizione Einaudi), che Leonard - come sempre - mantiene al passato semplice e che in italiano, a rigore, andrebbe reso al trapassato prossimo. Solo che: 1) nove pagine al trapassato sarebbero pesantissime, illeggibili; 2) è giusto tentare di riprodurre l'effetto di "schiacciamento" temporale ottenuto da Leonard in inglese (sono eventi accaduti poco più di un'ora prima), quindi l'ho tenuto al passato remoto. Tuttavia, nel caso di flash-back di eventi più distanti nel tempo, come uno scontro a fuoco avvenuto anni prima, il passato remoto avrebbe prodotto confusione. Da qui la necessità di usare ogni sorta di espediente per evitare il passato remoto, al contempo limitando il ricorso al trapassato prossimo. Delsa aveva estratto la Glock, aveva fatto scorrere il carrello. Portiera sbattuta, luce spenta, il tizio di nuovo in mezzo al parcheggio ma stavolta con un fucile a pompa, che aveva caricato con quel suono secco mentre Delsa alzava la Glock, prendeva la mira come gli avevano insegnato e sparava al tizio in pieno petto, sicuro di sé, fucile a pompa sbalzato in aria e tizio che cadeva a terra. Delsa aveva puntato la Glock sull'altro, che rovistava nella borsa di Maureen e tirava fuori la calibro 40, Delsa aveva fatto centro, caduto anche lui.***** "portiera sbattuta, luce spenta", "fucile sbalzato in aria", "caduto anche lui"), gli imperfetti ("rovistava nella borsa di Maureen e tirava fuori") e la frase senza verbo ("il tizio di nuovo in mezzo al parcheggio") danno alla scena un aspetto****** difficile da definire, perché alcune azioni sono descritte come già compiute, mentre altre sono ancora in corso. Percepiamo sospensione e simultaneità, è come se la scena fosse al rallentatore ma ogni tanto, per brevi lampi, tornasse a velocità normale. Questa non è la tipica prosa piana e semplice da romanzo poliziesco. Una manciata di righe contiene una notevole quantità di soluzioni sperimentali. Tutte nascoste, o quasi. Esistono illustri eccezioni, ma in genere il traduttore è sottovalutato, sottopagato, sottopressione, sottopeso dal punto di vista contrattuale. Soprattutto, non è considerato per quel che, a tutti gli effetti, è: non soltanto un co-autore, ma un "ri-autore". Suo compito è reinventare, "rendere" uno stile, una lingua, un alternarsi di tonalità emotive. È un traghettatore, uno sherpa, una guida indiana, colui o colei che "porta attraverso": prende in consegna una storia e la accompagna da un mondo a un altro, aprendosi sentieri, guadando fiumi, soffrendo di vertigini su ponti di corda smangiucchiati dalle tarme. Durante il viaggio, non deve mai scordare che una storia non è un oggetto inanimato, la metti in una cassa o in un sacco e non te ne preoccupi più. No, una storia vive di vita propria, è un soggetto attivo e intelligente, prende parte all'esperienza del viaggio, si impone, dà suggerimenti al traghettatore su come superare le rapide e cambia, si arricchisce, giunge alla meta trasformata, in simbiosi e comunione col suo sherpa/traduttore. Tradurre, se si ha la fortuna di farlo in condizioni ottimali, è un viaggio iniziatico denso di meraviglia. Ogni volta ti stupisci di quanto si possa chiedere alle parole, di quanta tensione possa sopportare una frase, mentre procedi verso quella piccola palingenesi che è la consegna all'editore. Raccontandovi di alcune prove da superare lungo il cammino, spero di avervi trasmesso un po' di quella meraviglia, di quello stupore. Bologna, Novembre 2006
* * Postfazione a: Elmore Leonard, Mr Paradise, Einaudi Stile Libero, 2005 * * * Elmore Leonard's Ten Rules of Writing, cit. * * * * Questa la versione originale: "The cop in uniform who came in moments later asked if she was all right. She didn't answer. He stood leaning over her in the chair she'd turned to the window, his traffic-cop face close, tobacco on his breath, his reflection above hers on the glass. He asked if she had seen what happened. She understood what he meant but said no. He said he didn't mean did she see it happen. She said yes, she saw them in the chair. She put her head down in the turned-up collar of her cinnamon coat. He asked if she had come with the other girl. She didn't answer. He asked her name. She didn't answer. He told her not to change her clothes or wash her face and hands. He told her to keep the light on and the door open. He left, but another uniformed cop, a black woman, reamined in the hall". * * * * * Questa la versione originale: "Delsa pulled his Glock and racked the slide. The light in the cab went off as the door slammed and the guy was in the aisle again with a shotgun, pumping it with that ratchety sound as Delsa raised his Glock and took aim the way he was taught and shot the guy in the chest, sure of it, the shotgun going off at the sky as the guy dropped to the pavement. Delsa put the Glock on the other guy shoving his hand in Maureen's bag, the hand coming out of the bag with her .40 caliber and shot him dead center and he went down." * * * * * * In linguistica, si definisce "aspetto" il "modo di considerare l'azione indicata da un verbo a seconda che sia vista nel suo cominciare o perdurare, o in un suo momento, o nell'essere ormai completata." (Dal Dizionario De Mauro della lingua italiana) |