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                Giovanni Pesce
  
                 Nelle Brigate Internazionali | 
               
             
              
              [da Senza tregua, Feltrinelli]  
        
             
              Tutto per me era cominciato sette anni prima, l'11 novembre   1936, quando il treno si era mosso dalla stazione di Nimes, col suo carico di   volontari, uomini di ogni età, partito, condizione e paese. Ognuno di noi   lasciava la famiglia o i genitori, gli studi o il lavoro, i sogni e le   ambizioni; ognuno di noi aveva deciso la partenza per la Spagna d'istinto o   meditatamente; ma per tutti il treno partiva all'improvviso, recidendo di colpo   un lembo di vita che ci apparteneva. 
                Addossati ai finestrini degli   scompartimenti guardavamo le case che fuggivano sempre più veloci tra la Maison   Carrée e l'Anfiteatro romano. 
                Era l'ora in cui la cantina di mia madre   s'andava affollando di minatori. Non era diversa dalle altre baracche: le stesse   pareti scrostate e sbrecciate, le stesse imposte stinte e sconnesse, lo stesso   stato di desolazione e d'abbandono all'esterno, in ogni tempo e   stagione. 
                Quand'ero ragazzo immaginavo che tutte le case di tutti i villaggi   di minatori fossero simili, con strade fangose sotto la pioggia, polverose sotto   il sole, pulite la notte sotto la neve; egualmente disadorne e sovraffollate.   Non sospettavo neppure villaggi diversi, strade, negozi, palazzi di   città. 
                All'interno dell'osteria avevo trascorso l'infanzia: ne conoscevo   l'animazione notturna e il vuoto diurno. Nella cantina vigilava mia madre, dal   primo mattino a notte inoltrata, sempre presente, in piedi, al lavoro. 
                Cento   fili mi legavano a quelle quattro pareti disadorne, all'assito odoroso di   segatura umida, al soffitto annerito dal fumo, ai bicchieri tozzi e ingenui, ai   boccali panciuti, ai tavoli, alle sedie, alla luce rossastra delle lampadine,   alle oscillanti penombre dello stanzone. 
                Cento fili mi legavano ai minatori:   i loro sigari e le loro pipe m'erano familiari non meno del cigolio   intermittente della porta d'ingresso: di ognuno conoscevo il volto, l'umore,   anche se non capivo sempre la lingua. 
                Non era un'osteria come le altre. Là   era invecchiata mia madre; là era rimasta sola a gestire la cantina. L'avevo   lasciata e aveva pianto.
              Pegolo mi dette una gomitata: "Dormi?" 
                "Lascialo dormire fin   che può." 
                Mi voltai a guardare l'interlocutore francese dal viso magro,   scavato, lo sguardo aggressivo dietro gli occhiali, la fede all'anulare.   Rincantucciato parlava ai compagni che gli stavano di fronte e a fianco. 
                Mi   frugai in tasca, ne tolsi un pacchetto di Gauloises e le offrii come avrebbero   fatto i minatori alla cantina con i nuovi arrivati. 
                Merci bien! Danke schön! Grazie tante. 
                Il treno che correva nella notte ascoltò le nostre confidenze   fino a Perpignano: quattro ore per il passato e la nostalgia, l'ignoto e la   paura; quattro ore per comunicarci frammenti di noi, per concludere un capitolo   della nostra vita. Ognuno aveva detto agli altri: "Questo sono io, diamoci una   mano!" Ci eravamo congedati da un mondo prima di avvicinarne un altro.
                La Spagna è popolata di castelli: su ogni sommità, su ogni   collina svettano i manieri medioevali, insegna d'una antica potenza, d'un   minaccioso dominio. Chiese, conventi, residenze patrizie, prima ancora d'essere   luoghi di preghiere, di studio, di convegno, erano fortilizi: torri, mura,   feritoie, fossati ostentavano la supremazia dei conti cristiani e degli emiri   arabi. La nostra prima tappa fu il Castello di Figueras. Dai finestrini ci   apparve la città come un tranquillo agglomerato di consunte architetture, una   sequenza monotona ed eguale di uomini e di traffici. 
                Non che i catalani di   Figueras si mostrassero estranei o freddi ma la loro vera natura esplose solo il   giorno della nostra partenza. Allora uomini e donne, usi a reprimere il tumulto   dei loro sentimenti, ad apparire impassibili, uscirono dalla intimità segreta,   come ad un cenno, e si riversarono nelle strade, ci vennero   incontro. 
                Scendevamo inquadrati dal Castello, compagnie sparute di volontari,   senza divisa, senz'armi, col solo fazzoletto rosso sulle spalle, diretti alla   stazione per la via alberata e tranquilla. D’improvviso le finestre delle case   si popolarono di trecce e di occhi neri, la strada si riempì di voci e di fiori.   Dai patios, dai vicoli, dai portoni, dai negozi, uomini, donne, ragazze ci   investirono a ondate; ognuno di noi, ancora prigioniero dei ricordi, si trovò   vicino uno, due, dieci volti, cento braccia, mille richiami. 
                E fu cosí per   tutto il lungo viaggio, a Barcellona, a Tarragona, a Castelléon, a Valencia,   fino alle falde della Sierra Enguera, fino ad Albacete, la folla ci seguì   sempre: sembrava che ci rincorresse e ci precedesse nelle stazioni. 
                Ad   Albacete, centro di raccolta e istruzione dei volontari di 52 paesi del mondo, trovammo un inverno artico, venti gelidi, italiani feriti in combattimento della   gloriosa "Gastone Sozzi," (1) francesi, tedeschi, polacchi, russi, venuti per   combattere. 
                 
                 Come in un porto di mare ad Albacete approdavano professionisti,   operai, contadini, minatori; anziani e giovani; politici come Longo, Nenni, i   Rosselli, Vidali, D'Onofrio, Pellegrini, Fedeli, Paolo Clavego, Carlo Farini,   Giuliano Paietta, Roasio, Osvaldo Negarville, Teresa Noce, Spano, Vincenzo   Bianchi, Ettore Quaglierini, ecc.; i militanti comunisti, anarchici, socialisti,   repubblicani; uomini che avevano abbandonato la casa e l'azienda, miseri   braccianti del Mezzogiorno di Italia, della Croazia, delle pianure d'Ungheria, minatori tedeschi.  
                 
                Il professore della Sorbona e il minatore della Grand Combe,   avevano entrambi una gavetta per mangiare, un po' di paglia per dormire, un   fucile per combattere. Tutti avevano lasciato dietro a sé affetti, ambizioni,   passioni, per combattere una battaglia decisiva per la libertà non soltanto del   popolo spagnolo. Accanto ai nuovi arrivati, per le strade della città, nei   locali pubblici, nelle caserme, i miliziani reduci dal fronte, feriti,   mutilati, portavano sul volto i segni della battaglia. E c'erano donne di tutti   i paesi per assistere i feriti, confezionare indumenti, preparare garze e bende,   combattere e morire se necessario. Un pomeriggio arrivò ad Albacete la salma di   Hans Beinkes, commissario politico, caduto sul fronte di Madrid il primo   dicembre. (2) I morti spronavano i vivi.  
                Da Albacete fummo trasferiti alla Roda,   un paese distante circa 30 km., per continuare l'istruzione militare. Il   comandante era Picelli, e con lui Ilio Barontini e Felice Platone. La istruzione   militare sollevò proteste: protestava il reduce della guerra 1915-18, che si   credeva esperto e protestava il ragazzo insofferente di ogni disciplina. Ma come   si potevano affrontare i reparti di Franco bene inquadrati, bene addestrati,   bene equipaggiati, col solo entusiasmo? 
                I commissari, i comandanti, il   responsabile della cellula comunista Malozzi (3) faticarono non poco a far capire   che dovevamo combattere un forte esercito. Purtroppo il tempo concesso alla   preparazione era insufficiente. Sul fronte di Madrid occorrevano reparti   freschi. L'ordine di trasferimento giunse un freddo pomeriggio da due veterani,   il "Moro," venuto dall'Abissinia e Marchini della "Gastone Sozzi." Partimmo il   giorno seguente, il 14 dicembre 1936; percorremmo sui camion traballanti le   strade sconnesse della periferia, tra povera gente ferma sugli usci e affacciata   alle finestre. I camion si arrestarono in lunga fila, sullo spiazzo davanti ad   una caserma, richiamando intorno i miliziani del Battaglione Garibaldi; il   comandante Pacciardi, il commissario Roasio. Sembrava un ritorno a casa. 
                Il   mattino successivo sveglia alle sei. Fuori era buio e freddo, molto freddo.   Scendemmo e ci allineammo sul grande spiazzo davanti alle caserme. Un ufficiale   gridò i nostri nomi e la compagnia alla quale eravamo assegnati. Io mi trovai   alla seconda compagnia, sezione mitragliere, con Tomat, Faleschini, Cerbai. Il   17 dicembre partimmo per il fronte: il battesimo del fuoco.
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                Il nemico ha colpito. Garemi (4) è stato catturato e fucilato.   Torino ne viene informata dai tetri manifesti che i fascisti affiggono per   annunciare le loro rappresaglie. La gente legge senza guardare in volto il   vicino per paura che anche un cenno impercettibile tradisca il pensiero. Le spie   pullulano e c'è da giurare che sono appostate nei piccoli muti   capannelli. 
                Dunque è il terrore. La mia città, vista da bambino, sognata   negli anni dell'esilio, ha paura perfino di me. La gente diffida di tutti.   L'incubo delle rappresaglie è una realtà che tappa le bocche e nasconde anche   quel che di solito l'occhio rivela. Ognuno si sente sicuro soltanto nelle   quattro mura della propria casa e anche allora parla a bassa voce. 
                Perché non   ho più addosso l'uniforme lacera della guerra di Spagna? Perché non mi rintrona   all'orecchio lo scoppio furibondo del cannone? Andare all'assalto, colpire il   nemico, conquistare la posizione, perderla, schivare il freddo colpo della   baionetta, avvolgersi nella notte gelata nel mantello bagnato e aspettare l'alba   sotto un cielo pieno di stelle. Vivere e morire da uomini, non strisciare in   questa Torino su cui sembra incombere, dovunque, l'immagine del plotone di   esecuzione. 
                Risponderemo al terrore col terrore. Colombi, responsabile della   federazione comunista in Piemonte, è un uomo di poche parole. Grosso,   silenzioso, ostinato, scarta le nostalgie con un gesto della mano. Organizzerò   due brigate di gappisti. Colpirò i fascisti dove e come ordinerà il comando. Due   brigate? Dove trovare gli uomini? I contatti sono quasi impossibili. Ogni   incontro, ogni colloquio può essere l'ultimo. Quando parlo con un compagno sento   la polizia alle spalle. L'uomo, il compagno, non sarà già sorvegliato? Dietro di   lui, ignaro, non saranno pronti ad arrestarci, gli uomini della squadra   politica? Naturalmente le stesse domande se le pongono sul mio conto la   staffetta, l'addetto ai collegamenti, il tecnico degli esplosivi, il collega che   procura le armi, tutti i compagni di lotta con i quali si deve parlare ogni   volta per stabilire un programma di azione. Diventano rapidamente drammatici   anche pochi secondi di ritardo. Si affacciano dubbi: la polizia non sarà   intervenuta? Poi se il ritardo si prolunga la mano corre da sola all'impugnatura   della rivoltella, il proiettile è in canna e lo sguardo si muove attorno in   cerca della scappatoia d'emergenza. 
                L'ora della paura è arrivata anche per   noi. Siamo stati capaci di tenerla lontana per lungo tempo, in momenti   difficilissimi, ma ora, è inutile nascondercelo, ci è addosso e ci rende più   difficili í nostri compiti. 
                Torno a casa, nel mio piccolo angolo di Via   Brunetta n. 3. È un posto che ispira pace. Nei viali sorgono ancora alberi, gli   stessi che, altrove, sono stati tagliati; i giardini delle villette sono un po'   trascurati, ma non troppo; i proprietari sfollati ritornano a casa almeno una   volta la settimana. Qui ho eletto la mia residenza clandestina: la zona è   semidisabitata, nessuno che possa seguire ogni movimento. Non è necessario   simulare abitudini o uscire soltanto la notte per non suscitare sospetti.   Stradicciole e vialetti interni, recinti di siepi, cancellate metalliche divelte   o segate conducono in giardini deserti, tra i cespugli dove è possibile sempre   trovare un rifugio. 
                Una donna con una grande borsa al braccio cammina   lentamente per una di queste stradicciole. Suona a tutti i campanelli. In genere   nessuno risponde perché la maggior parte delle case è vuota. A chi apre offre   modesti articoli da toeletta, sapone, una matassa di grossa lana militare. La   sua faccia non mi è nuova, ma non riesco a situarla nel ricordo. Quando suona   alla mia porta scendo ad aprirle. I vicini mi hanno visto entrare poco prima ed   è più prudente agire in modo normale. 
                "Marco non sta bene," mi dice la donna   porgendomi un pezzo di sapone. È la parola d'ordine. Ora so chi è. Ritiro   l'oggetto, verso qualche moneta nella mano vuota a beneficio dei vicini, nel   caso che qualcuno mi guardi. Rientro in fretta. Sotto l'involucro un biglietto   mi fissa un appuntamento per la sera stessa. L'incontro è rapidissimo all'angolo   della strada. Il tempo di accendere una sigaretta e di ricevere verbalmente un   ordine: devo giustiziare il responsabile della deportazione di oltre settanta   patrioti e partigiani, un maresciallo della milizia, Aldo Mores, molto noto a   Torino (amico personale di Mussolini) che si sta facendo la fama di "duro"   distinguendosi per il numero degli arresti e per la ferocia delle torture. Non   c'è tempo da perdere: l'uomo rappresenta un pericolo permanente per gli   antifascisti, è un simbolo del terrore. 
                Tornando a casa avverto Antonio che   la prima azione è imminente. Antonio è la prima recluta della costituenda   brigata. Per ora siamo in due ma saremo poi più numerosi. 
                Ho dormito sotto i   bombardamenti a Huesca. Ma stavolta non riesco a chiudere occhio. Il soffio   leggero del vento porta i rumori di una notte di guerra a Torino. Qualche passo   cadenzato, l'eco dei cingoli che chissà dove mordono l'asfalto, qualche colpo   isolato di fucile. Verso l'alba il rombo di aerei. Tedeschi, direi, dal rumore.   L'unico suono familiare è quello di un campanile poco lontano. I rintocchi   echeggiano ogni quarto d'ora: la misura del tempo è l'unica cosa familiare nella   città dominata dall'angoscia. 
                Finalmente è giorno, mi alzo con rabbia dal   letto e in pochi minuti sono pronto per uscire. Vado in bicicletta a rilevare   Antonio che, beato lui, dorme tranquillo e lo porto in perlustrazione. Sul posto   gli ostacoli e le difficoltà si rivelano più gravi del previsto. La zona   dell'operazione è molto affollata di giorno; non mancano, naturalmente, militari   repubblichini ed anche soldati tedeschi. Per raggiungere il nostro obiettivo   bisogna entrare in un negozio in cui il maresciallo è solito intrattenersi;   tentare di colpirlo altrove, specialmente nelle vicinanze della caserma, sarebbe   pazzesco. Ma anche così l'impresa si presenta quasi disperata. Non si può   contare nemmeno su un minuto per poter effettuare la fuga. Una volta colpito il   criminale fascista, l'allarme sarà dato, anche se involontariamente, dalla gente   presente nel negozio, mentre all'esterno l'eco degli spari richiamerà il nemico.   La sola speranza è di dileguarsi nel fuggi fuggi generale. E se, per fortuna,   nel momento decisivo transitasse nella zona un tram o un autobus, forse il   rumore della sparatoria potrebbe passare inavvertito. 
                Torniamo indietro.   Pedaliamo un bel po' prima di scambiarci una parola. 
                "Hai visto il   maresciallo?" faccio io. "Ha proprio la faccia dell'aguzzino," risponde e si   richiude nel suo silenzio. Agiremo domani. 
                È difficile definire quello che ci   sta accadendo. Paura, rabbia, tensione si mescolano ad un odio profondo verso un   nemico che ci costringe a metodi di lotta ben diversi da quelli a cui eravamo   abituati. In Spagna ed in montagna il nemico si affrontava in combattimento:   faccia a faccia. 
                Questa è una battaglia solitaria, penso. Tu, solo con i tuoi   sentimenti e le tue pene. Sai qual è l'obiettivo da colpire ma il nemico può   sorprenderti all'improvviso alle spalle o sbarrarti la strada. Mi ritrovo a casa   steso sul letto, gli occhi puntati al soffitto. Ho deciso: agiremo domani. Prima   che cali la sera vado a fare una lunga passeggiata. 
                Arrivo sul lungo Po e mi   fermo a guardare le acque del fiume. Quella corrente d'acqua in movimento tra un   argine e l'altro avrebbe attraversato tutta la pianura, fino al mare. Anche   questa, penso, è una delle poche cose che siano rimaste normali, come i   rintocchi di quel vecchio orologio da campanile che m'hanno riportato ai ricordi   della mia prima adolescenza. Un fiume è una forza inarrestabile che si muove   secondo leggi fisiche, ma soprattutto perché deve muoversi e deve raggiungere il   suo traguardo. Guardo le acque che verso le rive appaiono maestose e solenni:   una forza potente che scivola, silenziosa e che nessuno può fermare. Già, e chi   avrebbe potuto fermarla? 
                Il pensiero si arrovella attorno alla mia battaglia   interiore, alla mia lotta contro la paura e la solitudine. 
                Siamo come tanti   rivoli che l'oppressione nemica impedisce si riuniscano in un solo, grande   fiume, inarrestabile. 
                Torino sotto la sferza del terrore sembra la smentita   più cupa ed eloquente a questa grande speranza. Il terrore - penso - c'è davvero   e nessuno riesce a scrollarselo di dosso. Io ed altri come me, si preparano a   colpire il nemico, a ridare speranza ai cuori sgomenti: è già un segno di forza   in condizioni quasi tremende! 
                Ritorno a casa evitando i controlli delle   pattuglie in circolazione dopo il coprifuoco. A casa leggo, mangio un boccone,   metto in ordine le mie poche cose. Verifico che non vi siano documenti   compromettenti per qualcuno se verrò catturato o colpito. Brucio qualche   foglietto di carta, qualche appunto e imprimo nella mente qualche indirizzo e   numero telefonico. Dopo mezz'ora controllo la memoria: tutto risulta   accuratamente archiviato. Posso andare a letto. L'imminente azione mi concilia   rapidamente il sonno. Dormo come da mol divto non mi accade. Mi sveglio quando il   sole è già alto. 
                Ma il mattino tutto è diverso. Man mano che Antonio ed io ci   avviamo verso il centro della città, mi opprime il senso di una solitudine   disperata. Noi soli, impegnati a rompere uno degli ingranaggi della macchina del   terrore, in una città che ci ignora, che sembra assente e indifferente, almeno   così appare. Volti di uomini, di donne, di bambini, di repubblichini, volti di   tedeschi sotto gli elmi, volti di gente frettolosa in cerca di pane con la   tessera; volti di donne ansiose di ritornare a casa prima che un allarme aereo   le divida dalla famiglia; visi di bambini a cui sarà negata la gioia di   ritrovare nel ricordo un'infanzia felice. 
                Antonio mi sorpassa improvvisamente   e si allontana appostandosi all'incrocio della via. Siamo arrivati. Io mi fermo   davanti al negozio dove il maresciallo ha il consueto appuntamento. Appoggio la   bicicletta al muro. Do un'occhiata attorno: tutto sembra tranquillo, niente   repubblichini, né tedeschi. Entro nel negozio. C'è. Si appoggia al banco e di   fronte a lui stanno tre donne. Un'altra, forse la proprietaria, è al suo fianco.   Cerco con la mano la rivoltella. Appena una di quelle donne si sposterà e si   creerà uno spiraglio lo colpirò. Sono sulla soglia del negozio; sento che mi   guardano Alle spalle sopraggiunge un uomo che mi chiede di passare. Mi scosto,   lo faccio entrare. Che cosa faccio? Non posso starmene lì ancora e d'altra   parte, nessuna delle donne si scosta. Sto per andarmene e proprio in quel   momento il bersaglio si libera, l'assassino di tanti miei compagni è lì. Faccio   un passo, mi appoggio allo stipite della porta, fingo di raccattare qualcosa.   Non ce la faccio - penso - non ce la faccio. È proprio paura. Mi ritrovo   all'aperto, sollevato e furibondo. Adesso dovrò mentire. "Il maresciallo non   c'era," dico ad Antonio, "torneremo domani. Questo è sicuro, domani   torneremo. Ma è altrettanto sicuro che oggi ho avuto paura. 
                Mentre pedalo   tristemente verso casa, ripercorro mentalmente la serie dei fatti. La paura mi   ha tolto il controllo di me stesso, ma a gradi, non all'improvviso. È cominciata   da quel senso di solitudine e di impotenza. Mi sono sentito braccato prima di   cominciare e, quando ho deposto la bicicletta presso il negozio, immaginavo già   i repubblichini che mi inseguivano. 
                Devo mentire ancora, la sera. Barca viene   a trovarmi e mi chiede: "allora Ivaldi, a che punto siamo?" Ivaldi è il mio nome   di battaglia a Torino. 
                Non ho il coraggio di dirgli la verità. Barca è di   quelli che sembrano sempre a loro agio nelle situazioni più difficili. Riesce a   filtrare attraverso i rastrellamenti, ai posti di blocco, è pieno di risorse di   fronte agli imprevisti della lotta clandestina in città. 
                "Oggi il maresciallo   non c'era, sarà per domani." 
                Barca se ne va. Non ho neppure voglia di   mangiare. Mi rifugio a letto. Sono solo e mi vergogno. Si è fidato di me perché   sono un veterano della battaglia. Eppure sapevo che cosa significava combattere   la paura, per poi combattere il nemico, o combattere tutti e due, nello stesso   tempo.*. 
             La Spagna, Madrid, nei primi giorni dopo il mio arrivo. Fame,   bombardamenti e l'Internazionale cantata in coro, tra i madrileni che ci   accoglieranno come salvatori. All'alba, gelati dal freddo, partimmo in camion   per il fronte di Boadila del Monte (5). Passavano le case colpite dalle bombe,   smozzicate e bruciate; donne, vecchi e bambini. Trascinavano qualche   suppellettile, un carrettino. Bende sporche su ferite recenti. 
                Si arrivò in   prima linea passando davanti alle infermerie del campo, affollate, risonanti di   grida, incrociando autoambulanze e barelle. Noi eravamo destinati al   contrattacco. Ci sparpagliammo sul terreno. Ci schiacciammo contro il suolo   sotto la pioggia delle bombe. Quando non se ne può più è quasi un sollievo   l'ordine di attacco. Si corse, fummo di fronte. Ora so cos'è un combattimento,   pensai, e fui già nel pieno della mischia. Una faccia contorta, odiosa nel   sovrapporsi della paura sopra l'originale ferocia. Mi fu di fronte con le mani   alzate. Supplicò per la vita, tremava e piangeva. Era un ufficiale dei   distaccamenti coloniali, di quelli che hanno fama di essere più crudeli.   Orgoglioso e prepotente. Ma perse ogni controllo di sé, in lui viveva soltanto   il terrore.             
               
                
              Mi risveglio di colpo nel buio della notte. Quella faccia. L'ho   rivista ieri. È la stessa faccia del maresciallo di Via Fabio Filzi, gonfio di   orgoglio, pronto a inferocire fino a che si sente il più forte e a strisciare   nel momento del pericolo. 
                Oggi i fascisti si sentono sicuri a Torino, sotto   la protezione dei Panzer tedeschi, delle SS, della polizia che riempie le camere   di tortura. Credono di averci paralizzati, ma non ci conoscono. 
                Ora so perché   sono scappato dal negozio. Mi ha paralizzato l'impressione di essere solo a   combattere una guerra troppo diversa, ho sentito la mancanza dei compagni che   corrono attorno a me all'assalto. Mi ha bloccato il silenzio al posto del grido   che esce insieme da cento petti. Non ci sono bandiere spiegate in questa guerra,   non c'è l'eroismo del bel gesto in faccia alla moltitudine degli amici e dei   nemici. Ma la guerra è la stessa. L'avversario ha il medesimo volto, quello   dell'ufficiale franchista e del maresciallo torturatore, io sono sempre un   soldato di un esercito numeroso, anche se avanzo da solo in territorio nemico,   per colpire il terrore col terrore.
                 
                 
È l'alba. Devo raggiungere Leone al comando regionale   piemontese. Fa maledettamente freddo, anche se è una giornata di sole. Ripeto a   Leone la mia bugia. Ma non fa nulla. So che oggi chiuderò la partita. Pedalo   vigorosamente per arrivare a casa di Antonio. Mi aspetta.   Partiamo. 
                Imbocchiamo Corso Francia. Il solito traffico di tram e di autobus,   il solito passaggio di gente imbacuccata e malvestita, di soldati in divisa   grigioverde ed oliva. Ancora una volta Antonio mi supera e va ad appostarsi   all'angolo per proteggermi le spalle. Depongo la bicicletta a due passi dal   negozio. Il maresciallo è all'interno. Lo vedo. Chissà che cosa viene a fare   qui! Probabilmente ha un'amica tra queste donne e si concede qualche piccola   distrazione prima di tornare al "lavoro." 
                "Ormai non torturerai e non   ammazzerai più nessuno," - non sto pensando queste parole; le dico ad alta voce   senza volerlo. Il maresciallo si volta. Capisce. La sua grinta si scioglie in   una smorfia di smarrimento e di implorazione. Ha la faccia di tutti i   vigliacchi, la faccia di quello che catturai in Spagna. 
                Sparo con tutte e due   le pistole. Mentre l'uomo si piega, esco rapidamente, intasco le armi e inforco   la bicicletta. Gli spari hanno suscitato una confusione indescrivibile. Tutti   corrono in tutte le direzioni. Il traffico si arresta; anche dagli autobus la   gente scende e scappa senza ragione. Posso allontanarmi tranquillamente. Antonio   lo troverò più tardi, con calma. 
                In periferia incontro camion carichi di   repubblichini che si avviano verso il luogo dell'azione. Adesso sanno che la   giustizia può raggiungerli anche all'ombra dei "tigre."
                
  Trascorrono tre giorni durante i quali lo stordimento seguito   all'azione si attenua. Mi ritrovo pieno di fiducia e con maggiore coscienza   critica. Non avevo ancora acquistato sufficiente esperienza per condurre una   lotta in città dove si rischia così tanto e dove si richiede organizzazione,   segretezza e tempestività; dove metodo, calma e decisione sono i tre fattori del   successo. Sento bussare. Al di là dell'uscio la voce di Dante Conti mi risponde.   Con lui è Ilio Barontini, il leggendario combattente di Madrid, di Guadalajara,   il comandante che alla testa del battaglione Garibaldi colse la vittoria contro   i legionari fascisti; uno dei pochi che in Abissinia fra i partigiani etiopi   lottò contro gli invasori. 
  Barontini sorride e mi abbraccia. "Rimarrà da te   alcuni giorni," esclama Conti prima di andarsene. Barontini mi martella di   domande: da quanti mesi sono a Torino, come mi sono organizzato, qual è il mio   piano d'azione, come l'ho coordinato con la lotta generale delle masse popolari,   se ho messo in piedi un minimo di apparato tecnico. Barontini mette a nudo le   mie apprensioni, le mie insufficienze, i miei dubbi, le mie incertezze. Per due   giorni sono rimasto ad ascoltarlo. Alla fine lo sgomento per la povertà dei   mezzi, degli uomini, dell’organizzazione, la sorpresa, l'ira prendono il   sopravvento e urlo che non ce la farò mai a svolgere tutto il lavoro da solo,   senza uomini, senza neppure sapere confezionare una bomba. Barontini   sorride. 
"Se le bombe," dice, "sono il tuo problema, è presto risolto." Ma   non si tratta soltanto di bombe. 
"Parliamone adesso," insisto. 
E la   miccia? Barontini prosegue: "ora t'insegnerò qualche cosa di più. Prendi   appunti, anche se è contro le regole della clandestinità. Per costruire una   miccia a combustione lentissima, che non faccia fiamma e che bruci   silenziosamente: questa miccia (stoppino) non si trova in   commercio." 
Barontini continua: "Prendi un filo comune da calza,   preferibilmente bianco e di lino, perché inodore e meno fumogeno. Stempera 8   grammi di bicromato di potassa in cento grammi di acqua; lascia bollire dieci   minuti il cotone, dopo di che lo lasci asciugare al buio. Poi prendi, ben   asciutti, 40 fili di detto cotone, lunghi secondo la necessità e con un filo del   medesimo cotone avvolgi i 40 fili facendo così un cordoncino che brucerà per   mezzo centimetro al minuto." 
"Certo," commento, "sembra veramente   facile." 
"È facile," prosegue Barontini, "se hai un amico fabbro." Lo interrompo impaziente. Barontini prende un foglio di carta e una matita e mentre   parla disegna sul foglio. 
"Prendi un tubo qualsiasi, piccolo o grande, di   ferro, di ghisa, di bronzo, perfino di alluminio, lo tagli a dieci, venti,   quaranta centimetri; saldi ad una estremità un coperchio dello stesso materiale   del tubo e al centro del coperchio pratichi un foro di un diametro di sei o   sette centimetri." 
                Mentre Barontini parla, continua a tracciare segni sulla   carta e la bomba nasce sotto i miei occhi. 
"La parte del tubo senza   coperchio," prosegue Barontini, "viene filettata per permettere di avvitarvi un   altro coperchio, pure filettato per un paio di centimetri. Si ripone l'esplosivo   nel tubo, si fa passare la miccia con il detonatore nel foro del primo coperchio   facendo in modo che il detonatore vada ad innescarsi nell'esplosivo. Alla fine   si avvita il secondo coperchio e la bomba è pronta." 
                 
"Sarà potente?"   chiedo. "Quanto vuoi che sia, a seconda del diametro, della lunghezza del tubo e   la qualità di esplosivo disponibile. Puoi preparare anche una bomba di dieci   chili, venti chili, capace di distruggere una caserma. 
"Non hai che da   provare. Vai dal tuo amico fabbro. Costruisci la bomba e poi la esperimenti su   uno degli obiettivi che vuoi buttare all'aria." 
"Certo che lo faccio,"   rispondo. "... Se ne accorgeranno! Però non riuscirò a far tutto da solo, non ci   sono uomini che mi aiutino, l'organizzazione non mi dà una mano, i collegamenti   non funzionano, non ci sono tecnici, non ci sono armi." 
Barontini mi lascia   sfogare, sorride e tace. Poi mi aggredisce: "Le armi, le armi! E le tue bombe?   Non sono forse armi potentissime per una guerra che si combatte nelle strade,   fra le case, in mezzo alla gente? Non hai tecnici? E perché non lo diventi tu?   Impara a confezionare bombe esplosive, poi imparerai a fabbricarti quelle   incendiarie! 
"Non ti bastano le bombe? Scendi in strada, di sera, con un   martello, un bastone, un coltello, con qualcosa che serva ad uccidere. Togli le   armi ad un repubblichino, ad un tedesco, ad un altro tedesco, ad un altro   repubblichino: avrai armi per te e per i compagni che in questi giorni   affluiranno ai GAP!" 
                Sono come sommerso, stordito dalla sicurezza tranquilla   di questo uomo intelligente e buono. Mi incute rispetto, un grande rispetto, ma   non voglio darlo a vedere. 
"Il partito," tento, "il partito non mi   aiuta?..." 
"Sbagli," esclama Barontini, "sbagli veramente di grosso. Sei tu   il partito, siamo noi il partito e stiamo appunto aiutandoci l'un l'altro per   combattere la lotta in cui sono impegnati tutti gli altri partiti dello   schieramento antifascista, in cui è impegnato tutto il popolo italiano. È una   battaglia che ha bisogno di tutti, le frazioni isolate non solo sono inutili ma   spesso dannose. Devi tenerlo presente, ben presente." 
                Sono interdetto:   Barontini mi ha dato ragioni che sono certo di aver sempre saputo, senza essere   mai riuscito ad esprimerle a me stesso. 
                Anche queste mi sembrano cose   semplici. Dunque è vero: il partito non mi ha mai lasciato solo. 
                Barontini,   uscito nel pomeriggio, rientra la sera con un pacco: "ecco la tua prima bomba,   te l'ho preparata io. Non è stato difficile." So già come la userò. Nella mia   mente l'azione è chiarissima; particolare per particolare, secondo per   secondo. 
                Due giorni dopo m'incontro con Andrea e Antonio. Passeggio con   Andrea lungo il corso. Antonio entra nel locale gremito di tedeschi e fascisti.   Di fronte al caseggiato c'è la ferrovia. Dopo una lunga attesa Antonio   sopraggiunge: "ci sono dentro trenta tedeschi," dice, "quasi tutti ufficiali e   molti fascisti." Ci avviciniamo. Tengo sotto il braccio il pacco con la bomba.   L'ho confezionato in modo che la miccia spunti dall'involto. Sotto la finestra   del locale Andrea si accende una sigaretta e, chinandosi verso di me, come a   riparare la fiamma dal vento, avvicina la brace alla miccia. È buio. Seguo con   gli occhi il punto rosso che sfrega leggermente contro la miccia. Sento il cuore   battere con violenza. D'improvviso sprizza un leggero soffio di fuoco: la miccia   è accesa. Alzo il pacco e lo appoggio al davanzale della finestra. Ci   allontaniamo lentamente facendoci forza per non correre. Siamo già lontani sulle   biciclette quando ci percuote lo schianto lacerante e terribile della mia prima   bomba. 
                A casa, prima ancora che parli, Barontini legge sul mio viso   l'impresa; mi abbraccia. "Bravo muchacho!" mi ripete, dopo otto anni. 
                Il 4   gennaio 1944, dopo l'azione, il comando tedesco in un proclama diretto a tutti i   "cittadini amanti dell'ordine e della giustizia" invita il popolo a collaborare   con le forze armate naziste minacciando feroci rappresaglie. Con Barontini parlo   della reazione nazista. "Le rappresaglie non possono fermare la nostra azione."   In Francia - dice Barontini - in una situazione analoga i tedeschi sono stati   costretti a subire le azioni partigiane. La minaccia di rappresaglie non ci   lascia indifferenti. Purtroppo questa è la guerra e le rappresaglie non ci   possono fermare. È un grave errore limitarsi ad aspettare gli alleati. Noi   dobbiamo colpire, sempre, di giorno e di notte, sulle montagne e nelle città,   nel cuore stesso della città dove i nazisti e i fascisti si credono al sicuro.   Seminando panico e terrore tra i nemici, costringendoli a impegnare forze   ingenti nei presidi e nei rastrellamenti, aiutiamo gli alleati su tutti i   fronti. E infondiamo fiducia alla popolazione, sfiducia tedeschi che si sentono   sempre più vulnerabili su un fronte che non ha confini, che ovunque li circonda   e li minaccia. Barontini mi parla per ore. Non vi è altro modo per condurre la   lotta contro gli invasori, contro i massacratori di Cefalonia! 
"Aspettare,"   insiste Barontini, "non serve a nulla. Combattere invece significa avvicinare di   un gior no, di una settimana, di un mese l'ora della liberazione."                
  I gappisti che due giorni prima hanno partecipato all'azione,   desiderano portarne a termine altre, più rischiose e più efficaci, ma alla   terribile ed estenuante lotta isolata preferiscono quella nelle formazioni di   montagna. Mi ritrovo solo con un ragazzo di 19 anni: Antonio. "Quando sei solo,   sei tu il partito." Le parole di Barontini, mi frullano nella testa, mi ridanno   fiducia. Ma non per molto. Trascorrono Natale e capodanno. I tedeschi occupano   città e nazioni di mezza Europa; nei campi di sterminio centinaia di migliaia di   esseri umani muoiono ogni giorno. Debbo agire. Il 15 gennaio io e Antonio   giustiziamo in strada un sergente fascista. È necessario fare di più;   soprattutto è necessario reclutare più uomini. Si trova gente disposta a   scioperare, a distribuire manifestini, ad andare in montagna, a disarmare per le   strade fascisti e tedeschi isolati, ma sono pochi coloro che sono disposti ad   agire nei GAP in azioni veloci, decise, senza pietà. 
                Ai primi di gennaio del   '44 il compagno Bessone (Barca) mi comunica un ordine del comando generale delle   Brigate Garibaldi. "Non dovrò partecipare personalmente ad alcuna azione, ma   organizzare, reclutare, istruire i gappisti. Chi debbo istruire? Cosa devo   organizzare? La brigata siamo io e Antonio. In Val di Susa, in Val di Lanzo, e   in altre valli del Piemonte sono in corso feroci rastrellamenti contro le   brigate di montagna. È necessario colpire il nemico qui, nel cuore della città,   con estrema violenza, come se un grosso gruppo partigiano operasse in piena   Torino. Il comando nazifascista sarà costretto a distogliere una parte delle   forze impiegate nei rastrellamenti per presidiare i comandi di città. 
                C'è   solo una cosa da fare: agire. Se io e Antonio siamo la brigata, tocca a noi due   agire. Mi pare sia conforme agli ordini. La brigata deve attaccare. Ho preso la   mia decisione. Agirò senza chiedere l'ordine al comando. 
                È sera quando esco.   Sono solo. Antonio mi aspetta altrove. 
                Corso Vittorio Emanuele è affollato di   operai, di impiegati, di uomini e donne usciti dagli uffici; macchine cariche di   tedeschi e fascisti percorrono il corso nei due sensi. C'è frastuono di claxon,   di campanelli, di tram, di fischi di locomotive in manovra alla vicina stazione.   Fa freddo. Cammino adagio affondando le mani nelle tasche del cappotto,   stringendo il calcio di due pistole. Il tempo trascorre lentissimo. Sento come   un nodo nel petto, un nodo di ansia e anche di paura. Mi costringo a restare in   attesa. So quello che debbo fare: aspetto due ufficiali tedeschi. L'ora è   giunta. Tedeschi e fascisti mi sfiorano continuamente aumentando il mio   nervosismo. Qualcuno mi può notare, chiedermi documenti, perquisirmi. Se   tornassi a casa non farei che obbedire a un ordine. Ma la brigata deve attaccare   ed io e Antonio a duecento metri siamo la brigata GAP di Torino. Sto per sparare   contro quattro ufficiali fascisti che mi passano accanto, per sfuggire all'ansia   che mi opprime, per portare a termine una azione qualunque, per poter dire a me   stesso che ho avuto la forza di agire. Ma non sparo: questi quattro non sono i   "miei" due ufficiali tedeschi. I quattro entrano nel caffè di fronte e io li   seguo: li subisco mentre discorrono tronfi e spavaldi con alcune prostitute.   Entrano due ufficiali tedeschi e i quattro balzano in piedi, "romanamente." Esco   e attendo. Fa più freddo e mi dico che è il freddo a farmi tremare leggermente.   So che non è il freddo. Continuo ad aspettare. Passa un'altra mezz'ora,   interminabile, snervante. D'improvviso: eccoli! È il momento atteso. Vorrei non   fosse mai arrivato. Vorrei essere chissà dove. Invece sono qui a guardare i miei   due tedeschi che vengono avanti baldanzosi, parlando ad alta voce, vicinissimi.   Ho gli occhi fissi sulla croce di ferro che spicca sul petto di uno di loro:   estraggo le pistole e sparo. I due nazisti cadono senza un grido. Ho esploso   dodici colpi. 
                La gente sotto i portici rimane per un attimo incerta, si   ferma, fugge, si rifugia nei portoni. Una donna grida. Dal caffè di fronte   escono due ufficiali tedeschi con le machine-pistole in pugno. Faccio l'atto di   sparare contro di loro, ma le armi sono scariche. Che faccio? All'improvviso   nella mente mi passa il ricordo della battaglia di Guadalajara quando, fermo   accanto alla mitragliatrice, continuavo a sparare sullo squadrone di tank   fascisti che avanzavano. Allora non ero fuggito. Ora, indietreggio rapidamente e   giro l'angolo di via Gioberti, mi getto a terra, cambio un caricatore. Il rumore   dei passi dei due tedeschi si avvicina! inseguono la mia fuga. Ecco il primo:   sparo tre colpi e l'ufficiale cade; ecco l'altro: sparo ancora due colpi e il   nazista lascia cadere a terra la pistola e urla e mentre si piega su se stesso   tenta ancora di riprendere l'arma: sparo un colpo ancora. L'ufficiale scivola di   schianto sull'asfalto. 
                L'ansia che avevo dentro di me si allenta   all'improvviso. In corso Vittorio Emanuele sparano. Li sento avvicinarsi, cambio   ancora una volta il caricatore e corro lungo via Gioberti. Dopo cinquanta metri   mi fermo e al riparo di un portone esplodo tutto il caricatore contro i fascisti   e i tedeschi che s'affacciano sulla strada. Si buttano a terra, tornano   indietro. Riprendo a correre. In fondo a via Gioberti, in via Manzoni, Antonio   mi aspetta con la sua bicicletta. Il giorno dopo sui giornali, con grossi   titoli, c'è il resoconto dell'azione compiuta dai "banditi" contro alcuni   ufficiali delle truppe tedesche alleate; c'è l'ordine del coprifuoco alle 20. Si   promette una taglia di mezzo milione per chi farà arrestare i "banditi." Per   rappresaglia hanno imprigionato 50 ostaggi. Il giornale me lo porta Barca,   raggiante. "Chi saranno stati?" chiese. "Sono stato io,» rispondo. Barca,   sorpreso, sbalordito, se ne va in fretta. Nel pomeriggio si riunirà il Comitato   di liberazione piemontese per discuterne e per fronteggiare le rappresaglie dei   nazisti. Approverà o sconfesserà la mia iniziativa? Saprà che un garibaldino, un   gappista, ha giustiziato gli ufficiali nazisti.
               
               ![1° maggio 1937, Canizar (Guadalajara) Sede del Comando XI Brigata Internazionale [Archivio AICVAS]](../../Immagini/rivoluzioni/spagna/spagna_immagini/1937_guadalajara_5.jpg)  
                            
              La battaglia di Guadalajara: verso la fine di dicembre giunse   l'ordine di partenza per il fronte di Mirabueno. Il Battaglione Garibaldi che al   primo scontro con i franchisti a Madrid, era arrivato in prima linea senza   fucili, era ora equipaggiato completamente. Partimmo un mattino presto, col buio   fitto. 
                I camion percorsero i sobborghi di Madrid, la strada da Guadalajara   fino a Sigùenza, a Brihuega. Ci accampammo. Il mattino successivo ripartimmo.   Attraversammo paesi e borgate tra gente affaccendata attorno a carri e camion   sgangherati, pronta a sfollare dalla zona del Fronte e contadini al lavoro   attorno alle concimaie. Scendemmo dagli automezzi per proseguire a piedi,   carichi di armi, munizioni, fardelli, tra carri armati e gruppi di miliziani in   corsa. Ci trovammo qualche ora dopo in piena battaglia fra i campi di Mirabueno.   Raggiungemmo combattendo le case. Il colonnello franchista che comandava la   zona, sorpreso dalla nostra avanzata, era fuggito precipitosamente abbandonando   moglie e figlia. Mirabueno era già in nostre mani quando ci sorvolarono gli   apparecchi repubblicani. I volontari polacchi attaccavano le nuove posizioni   franchiste. 
                Il 3 gennaio, due compagnie e gli arditi del Battaglione   Garibaldi appoggiarono la manovra "Dombrowski," il 5 gennaio altre due compagnie   si attestarono su una altura per proteggere il fianco della formazione   polacca. 
                La marcia di avvicinamento fra boschi, burroni e avvallamenti   procedette spedita, grazie proprio al terreno accidentato. Picelli (6) era in testa   con l'arma puntata e sparò subito contro una pattuglia fascista emersa   all'improvviso. Picelli  era sempre in testa. Pacciardi e Roasio l'avevano   richiamato più volte: "Devi comandare, non rischiare la tua vita ad ogni   passo." 
                Raggiunse l'altura, sistemò la mitragliatrice, s'alzò di scatto,   fucile in pugno e cadde senza vita. 
                Nella notte tra il 6 e il 7 gennaio,   sostituiti da regolari spagnoli, lasciammo Mirabueno per trasferirci a   Guadalajara. Fummo sorpresi da un bombardamento aereo. Le bombe dei fascisti   distrussero case d'abitazione, uccisero vecchi, donne e bambini. Uscimmo di   città. Ci attestammo a Colmenar Viejo, vicino all'Escorial.
  Madrid continuava ad essere semi-assediata. Da mesi e mesi i   franchisti, falliti gli assalti frontali, attendevano che la città capitolasse.   Stroncato in gennaio il tentativo di isolare la capitale dall'Ovest e di   penetrare dall'Est, Franco e Mussolini dovettero subire la sconfitta di   Guadalajara. 
                Guadalajara era il punto chiave per entrare a Madrid. Franco   intendeva conquistare questa posizione decisiva impegnando decine di migliaia di   uomini, appoggiate da carri armati, dall'artiglieria e dall'aviazione. Perno   dell'attacco era la strada di Francia, da Siguenza a Guadalajara ad Alcalà de   Henares. Lo scopo, isolare Madrid da Levante, obbligandola alla resa. 
                Lo   stato maggiore di Franco pensava di battere il grosso delle nostre resistenze   sull'altipiano tra Siguenza e Guadalajara; manovra elementare, ma molto   pericolosa per i repubblicani perché avrebbe ostacolata e ritardata una   eventuale ritirata. Noi dovevamo impegnare l'immensa superiorità delle forze   fasciste a Brihuega, dove l'affluenza di nostri rinforzi sarebbe stata più   agevole che sull'altipiano. 
                Le divisioni fasciste attaccarono alle sette del   mattino dell'8 marzo 1937. L'avanzata della fanteria fu preceduta da un intenso   fuoco di artiglieria. Si combatté per tutta la giornata dell'8 marzo con un   freddo intenso: le poche forze repubblicane di stanza a Mirabueno e a Las Vegas   resistettero efficacemente e contrattaccarono ad Alaminos. Durante tutta la   giornata i nemici che avrebbero dovuto infrangere le nostre difese nel giro di   poche ore, rimasero inchiodati sulle loro posizioni. 
                Il giorno successivo si   impossessarono di Almadrones e nel pomeriggio, nonostante i furiosi attacchi   alla baionetta dei miliziani rimasti privi di munizioni, si spinsero fino a   Brihuega dove le strade dell'altipiano cominciano a scendere verso Guadalajara.   Alla mia compagnia, la seconda, l'ordine di partenza giunse nella notte tra il   nove e il dieci marzo. 
                Ci dissero che i fascisti erano riusciti a spingere i   regolari spagnoli fino a Brihuega e minacciavano di scendere su   Guadalajara. 
                Sui camion sobbalzanti nel buio, il freddo inasprito dal vento,   dopo un'ora cominciò a piovere: lampi e tuoni anticipavano un duello di   artiglieria in lontananza. Gli autocarri si fermarono al mattino a pochi   chilometri da Brihuega e ci scaricarono, bagnati fino alle ossa, nel palazzo di   Don Luis. 
                La compagnia si mise in marcia verso Brihuega, lungo la strada   dalla quale in gennaio eravamo scattati all'assalto di Mirabueno. Sapevamo di   avere di fronte 50.000 italiani. 
                Avevo allora 18 anni. Lasciata l'Italia a 6,   non avevo conosciuto il regime di Mussolini e non dovevo "saldare vecchi   conti." 
                Gli anziani, prima di lasciare l'Italia, erano stati perseguitati,   bastonati, incarcerati, anche alla Grand Combe avevano conosciuto il fascismo   nelle sue forme più subdole e velenose. Ora ci incontravamo a viso aperto, nel   fuoco di una battaglia dove si uccide o si è uccisi. Ero immerso in queste   considerazioni mentre camminavo portando in spalla la mitragliatrice, quando,   all'improvviso, fui come svegliato dall'agitarsi degli uomini della compagnia.   Sulla strada, davanti a noi, era apparsa una motocicletta. Mentre stavamo   riprendendo la marcia, una raffica di colpi ci piombò addosso, rabbiosa. Ilio   Barontini, comandante del battaglione Garibaldi, in sostituzione di Pacciardi,   diede l'ordine di prendere posizione. Piazzammo le armi in un appostamento di   fortuna e rimanemmo in attesa. Barontini passava da un gruppo all'altro   ripetendo, calmo, le istruzioni. L'esercito fascista era di fronte a noi.   Arrivarono. Gli uomini procedevano cauti. Li investimmo. Parecchi caddero e gli   altri si ritirarono, attestandosi dietro i muretti a secco che dividevano i   campi ai lati della strada. 
                Risposero con un fuoco disordinato e impreciso.   Sparavano brevi raffiche. Esplosero i primi colpi di artiglieria sugli alberi   del bosco, a duecento metri da noi. 
                L'artiglieria tacque. L'attacco delle   fanterie era imminente. Ci affrettammo a sistemarci. De Ambrogi, comandante   della seconda compagnia, mi fece piazzare le due mitragliatrici pesanti con   proiettili anticarro ai margini della strada, quasi allo scoperto, in posizione   dominante. Scavai nella terra molle e incontrai la roccia. Se non potevo   migliorare la protezione, in compenso dominavo tutta la strada fino alla grande   curva a seicento metri di distanza. All'improvviso dalla curva apparve il primo   carro. La mia mitragliatrice sarebbe riuscita a fermare quel veicolo coperto di   ferro? Dietro il primo carro ne apparve un secondo e poi gli altri: sei in   tutto. Dietro i carri avanzavano i fascisti. Procedettero senza sparare fino a   quattrocento metri, poi aprirono il fuoco, continuando a correre. Ci furono   quasi addosso. Sentii la mia mitragliatrice sussultare. I proiettili colpirono   il primo carro, poi gli uomini. Vidi i fascisti balzare via dalla strada e   buttarsi dietro i muretti a secco dei campi. Vidi il primo carro arrestarsi,   tentare di avanzare e fermarsi di nuovo. I proiettili anticarro delle due   mitragliatrici pesanti lo martellavano da ogni parte. Il tank rimase in mezzo   alla strada impedendo agli altri di avanzare. I fascisti si ritirarono sparando;   ripiegarono anche gli altri cinque carri, scomparendo dietro la curva, in fondo   alla strada. 
                Ci acquattammo contro il terreno nelle nostre piccole buche,   fangose sotto la pioggia violenta. I proiettili dell'artiglieria nemica di nuovo   si abbatterono sul bosco. Il cannoneggiamento prosegui per mezz'ora, poi   ritornarono i tank e la fanteria. Li respingemmo. Riprese il fuoco dei cannoni,   ritornarono nuovamente le fanterie e i carri e ancora tuonò il cannone. A sera   avevamo respinto quattro furiosi attacchi e sopportato cinque   bombardamenti. 
                Mentre l'ultimo era in corso, udimmo un ansare di motori; le   prime ombre della sera ci nascondevano ormai la curva. Il rumore di motori si   avvicinava; intravidi le ombre di due motociclette. I guidatori non ci videro e   si fermarono a cento metri. Sentivo indistintamente le loro voci. Li osservavo   attraverso la tacca di mira della mitragliatrice e mi apparivano piccoli,   deformati dalle ombre del tramonto. D'un tratto si accorsero di noi. In preda al   panico stavano per fuggire, schiacciai il grilletto. Altri spararono con me:   vidi un motociclista cadere nel fango e l'altro alzare le mani e venirci   incontro, quasi correndo. 
                La nostra resistenza aveva sorpreso lo stato   maggiore fascista: ci sapevano in pochi e male armati, sprovvisti di pezzi   anticarro e senza rinforzi. Nella notte prepararono il grande attacco. Noi   aspettavamo l'alba sotto la pioggia ininterrotta, immersi nel fango, stanchi,   infreddoliti, affamati. Verso le due arrivò, inaspettato, il rancio. Non ricordo   di aver mai mangiato una minestra gustosa come quella, né bevuto un vino più   caldo e generoso. Ci sembrò di rinascere. Qualcuno riuscì perfino a dormire,   nonostante la sferza dell'acqua. 
                L'alba. Gli occhi fissi sulla strada di   Brihuega. Le prime luci nebbiose del giorno muovevano mille ombre che ci   facevano sussultare. I fascisti vennero più tardi, quando era giorno. Si fecero   annunciare da dieci tank Fiat, seguiti dalle fanterie. Dalla corazza del primo   lampeggiavano le mitragliere. Non era cambiato nulla: ora i tank erano dieci e i   fascisti migliaia. Neppure noi cambiammo nulla: li lasciammo avvicinare fino a   duecento metri, poi aprimmo il fuoco. Ancora una volta il primo tank sussultò,   rallentò la marcia, tentò di riprenderla, prese fuoco e arse come una torcia.   Dalle nostre trincee di fango balzarono gli uomini della squadra d'assalto   armati di bombe a mano; corsero allo scoperto per cento, centocinquanta metri,   si acquattarono dietro a un muretto; tornarono ad avanzare e investirono il   secondo tank con le bombe. Gli altri carri invertirono la marcia seguiti dalle   fanterie. Più tardi ritornarono all'assalto e di nuovo vennero   respinti. 
                Anche oggi, come ieri, ci fu una sorpresa: sulla strada deserta,   avanzava veloce una "balilla." Sembrava una scena irreale, la piccola automobile   correva tranquillamente sul campo di battaglia. Uno stratagemma? Ad evitare guai   il compagno Tomat, comandante del distaccamento, ordinò di sparare alle gomme.   Quando la "balilla" fu a cinquanta metri, una breve raffica di mitragliatrice ne   sfasciò i pneumatici facendola sbandare; ma l'autista doveva essere in gamba   perché riuscì a riportarla al centro della carreggiata e a fermarsi, a ridosso   delle nostre linee. Dalla vettura scesero un sergente e due soldati che si   arresero. 
                Trascorremmo alcune ore a vuotare l'acqua dalle buche con la   gavetta. Ma il nostro settore era desti-nato a ricevere visite. Prima dell'alba   del 12 arrivarono all'improvviso sulla strada di Brihuega due grossi camion.   Detti l'allarme e gli uomini della seconda compagnia puntarono le armi: Tomat e   Rossetti (7) ordinarono di non sparare. I due camion continuavano ad avvicinarsi.   Pareva incredibile che non fossero preceduti da una staffetta. "Gli hanno   promesso una passeggiata a Madrid," esclamò Faleschini, "vorranno godersi il   panorama." I camion arrivarono a cinquanta metri. Sparai una raffica, mirando   alle gomme. Sbandarono e si arrestarono ,a poche decine di metri dalla trincea.   Dagli automezzi scesero alcuni fascisti e si guardarono attorno. Noi restammo   nascosti ad osservarli. Uno di loro risali sul primo camion e tentò di innestare   la marcia. Gridammo: "Arrendetevi." Alcuni alzarono subito le mani, altri   tentarono di fuggire. "Uccidiamoli questi figli di puttana," gridò un   garibaldino. 
              "No, sparate in aria!" ordinò Malozzi, il rappresentante del   partito nella compagnia. I fascisti si arresero. Se son tutti vivi lo dovettero   a Malozzi, il lungo e magro Malozzi che nonostante il Tribunale Speciale volle   rammentarci che non facevamo la guerra al popolo italiano, ma al fascismo che lo   aveva ingannato e continuava ad ingannarlo. 
               
  
                Sugli autocarri trovammo   rifornimenti e viveri per un reggimento. Restava un mistero. Perché camion e   macchine continuavano ad arrivare fino alle nostre linee? Quale la spiegazione?   Brihuega giace in fondo alla vallata di Tayna; la strada da Tayna sale per   stretti tornanti fino al pianoro, teatro di battaglia e fila dritta e invitante   fino a Guadalajara, lasciando sulla destra una strada secondaria che conduceva   alle linee fasciste. Era facile sbagliare e gli autisti, dopo la lunga salita,   infilavano la strada di Brihuega cadendo nelle nostre mani. 
                Ci vollero ore di   lavoro per svuotare i cassoni dei camion. Oltre ai viveri di ogni genere,   trovammo opuscoli e giornali; copie del Popolo d'Italia dell'8 marzo 1937, in   cui si esaltava l'apporto italiano alla guerra contro la Spagna   repubblicana. 
                Rancio straordinario, con carne in scatola, vino e sigarette. A   mezzogiorno ero di guardia alla mitragliatrice. Avevamo tutti gli occhi fissi   sulla strada, in attesa. Altri due autocarri vennero avanti, adagio. Il bosco in   cui i fascisti ci credevano trincerati si stendeva dietro di noi, a trecento   metri. I camion avanzavano con estrema prudenza sino a raggiungere gli altri due   immobilizzati in mezzo alla strada. I fascisti scesero: uno accese una   sigaretta. Dopo una discussione fra loro prepararono una catena per agganciare i   paraurti di uno dei veicoli rovesciati. 
                Malozzi gridò col suo accento   romanesco: "Arrendetevi." Qualche fascista si gettò a terra, altri tentarono la   fuga. Sparammo alcune raffiche. Vennero verso di noi con le braccia alzate,   supplicando di non fucilarli. Evidentemente avevano buone ragioni per temerlo.   Solo il giorno prima Barontini ci aveva raccontato di quattro garibaldini caduti   prigionieri dei franchisti e uccisi. 
                Si stava facendo buio. La pioggia si era   trasformata in neve fitta, insistente. Sulle nostre teste passava uno stormo di   aeroplani nemici. Andavano a bombardare Madrid. In due giorni e due notti di   combattimenti, pochi di noi avevano dormito qualche ora, io non avevo chiuso   occhio. Faleschini insisteva perché mi riposassi. Mi trascinai sotto il telo che   copriva la mitragliatrice e di colpo dimenticai tutto. Mi svegliai coperto di   neve, qualcuno stava dicendo che nelle prime linee era arrivato il compagno   Gallo, commissario delle Brigate Internazionali. 
                L'alba del 13 marzo si   annunciò con un gelido vento che soffiava da nord e spazzava l'altipiano,   infuriando fra gli alberi del bosco. Ci acquattammo nelle buche. Il fango si era   indurito formando sul fondo dei nostri ripari una crosta ineguale. Al primo   chiarore iniziò un violentissimo fuoco di artiglieria. Gli shrapnells, impiegati   senza economia, scoppiavano sopra di noi lasciando cadere una pioggia di   schegge. 
                Con l'artiglieria sparavano, sia pure da lontano, le mitragliatrici.   Sentimmo arrivare gli obici miagolando e udimmo il tonfo sordo dell'esplosione   contro la terra dura, dietro le nostre spalle. Alcuni compagni assicuravano che   un buon numero di proiettili era stato sabotato dagli operai antifascisti nelle   fabbriche del nord Italia. 
                Il commissario Rossetti arrivò di corsa e si buttò   nella mia buca: "Attenti," disse, "stanno attaccando con piccole pattuglie la   zona della quarta e della quinta compagnia. Vogliono saggiare le nostre forze   per poi sferrare l'attacco." 
                Uscí dalla buca correndo, tutto chinato e saltò   in un'altra. Io sparavo di tanto in tanto qualche raffica. Il nemico non si era   ancora fatto vivo. Mezz'ora dopo tornò Rossetti con altre notizie. "Tra poco ci   siamo. Stanno attaccando la prima compagnia per aprire una breccia sulla nostra   sinistra e circondare il battaglione." 
                I collegamenti erano incerti: la linea   telefonica con il comando era continuamente interrotta dalle bombe, e nonostante   lo sforzo dei nostri genieri impegnati a ripararla. Toccò ai portaordini. Ogni   ora Piero Romaz zini, "il piccolo" veterano del fronte di Irun, il valoroso   combattente della "Gastone Sozzi" percorreva due volte i cinquecento metri che   separavano la prima linea dal comando di battaglione su un terreno continuamente   martellato dall'artiglieria nemica. 
                Il cannoneggiamento continuò per l'intera   mattinata; poi si attenuò nel pomeriggio fino a cessare. Anche le mitraglie   tacevano. Il nemico, credendo di avere annientato ogni dispositivo di difesa,   attaccò. Sulla stra da apparvero d'improvviso sette tank. Li guardai avanzare e   osservai il mio orologio: erano le 15. Tutta la seconda compagnia era nelle   buche. Quando furono a cento metri le nostre mitragliatrici cominciarono a   sparare grappoli di proiettili perforanti. Poi tacquero e nel silenzio si udì   fortissimo il canto di "Bandiera rossa." Mi girai sulla destra e vidi correre in   avanti, cantando, gli uomini della squadra d'assalto. I tank aprirono il fuoco   con le mitragliatrici, gli uomini si buttavano a terra, si rialzavano, correvano   avanti, si rituffavano al suolo. 
                Ad ogni balzo sentivo le parole di "Bandiera   rossa." La squadra fu addosso ai primi carri: due sussultarono con i cingoli   spezzati girando su se stessi come impazziti; quattro fuggirono, uno avanzò da   solo sparando raffiche su raffiche. Poi cessò il fuoco e proseguì la strada   senza sparare. Gli uomini della squadra d'assalto Io inseguivano per farlo   saltare quando qualcuno gridò: "Lasciatelo passare, si arrende!" 
                Il carro   avanzò rapido a pochi metri da me e scomparve in direzione del comando. Soltanto   più tardi si seppe che il carrista non si era arreso, si era avvicinato al   comando, aveva tirato qualche colpo ferendo due garibaldini e fuggendo per una   strada secondaria. 
                Il nemico sospese l'attacco. Non avemmo morti. Ci parve   incredibile dopo mezza giornata di fuoco continuo e l'assalto dei tank. Quando   venne buio arrivò finalmente il rancio: una minestra calda e una pagnotta. La   notte trascorse tranquilla. Il mattino del 14 un tremendo fuoco di fucileria e   di armi automatiche, a un chilometro di distanza, ci annunciò che la quarta e la   quinta compagnia erano andate all'assalto del castello di Ibarra, occupato da un   battaglione di "Lupi di Toscana" infiltratosi il giorno precedente alla nostra   sinistra. 
                Il castello di Ibarra, nel folto di un bosco, era attorniato da   case rustiche, depositi, stalle e protetto da uno spesso muro di cinta alto due   metri. L'assalto iniziò alle 11 precise: le due compagnie di garibaldini   appoggiate dal battaglione franco-belga della dodicesima brigata, attaccarono di   fronte e di lato. Il fuoco dei cannoncini e delle mitragliatrici di cinque   carri, copri l'avanzata ai nostri uomini. I fascisti abbandonarono le postazioni   del bosco e si ritirarono nel recinto del palazzo col grosso delle forze. I   garibaldini, al riparo dei muri di cinta, iniziarono una nutrita sparatoria   contro le finestre, le porte, i depositi le stalle. 
                I "Lupi" tentavano di   rompere l'accerchiamento facendo avanzare due cannoncini, ma i suoi serventi   furono sopraffatti. Una sortita sul retro del castello venne sventata da un   gruppo di garibaldini. Poco prima delle tre del pomeriggio la torre della villa   crollò sotto i colpi d'artiglieria. Sui muri si aprirono ampie brecce e il   nemico rispose al fuoco con qualche colpo isolato. Prima di ordinare l'assalto   finale, Brignoli fece sospendere il fuoco e gridò ai fascisti di arrendersi   assicurando che avrebbero avuta salva la vita. Non ci fu risposta. Un guastatore   spagnolo si avvicinò allora con un pacco di tritolo all'edificio principale, ne   accese la miccia e si riparò. Uno scoppio spaventoso fece crollare i muri,   schiantò le travi, sfondò il tetto. Il comandante belga Gelissen, trascinò   avanti i suoi passando da edificio a edificio. I nostri scorsero i fascisti   raggruppati in un angolo del cortile e non spararono. Brignoli intimò di nuovo   ai fascisti di arrendersi. Un ufficiale gli rispose enfaticamente di deporre la   rivoltella. Un altro lanciò una bomba a mano colpendo in pieno Nunzio Guerrino,   vice comandante di compagnia. 
                I nostri stavano per sparare nel mucchio. Fu   ancora Brignoli a intervenire, ripetendo l'invito alla resa per evitare il   massacro. Stavolta i fascisti buttarono le armi. Il castello di Ibarra fu nostro   e il pericoloso cuneo nemico alle spalle del battaglione Garibaldi fu   eliminato.
  
                L'offensiva scatenata qualche giorno prima con largo impiego di   divisioni fresche affluite nella notte, si infranse sulle nostre posizioni. Un   nuovo attacco fascista non poteva essere imminente, subordinato come era   all'arrivo di nuovi rinforzi. I giorni seguenti il nostro comando ne ebbe   conferma dall'interrogatorio dei prigionieri. 
                Era arrivato il momento   propizio dunque di sferrare l'offensiva per allentare la pressione su   Guadalajara, sventare la minaccia contro Madrid e scardinare il dispositivo   avversario. 
                Se ne parlò con sempre maggior insistenza. Il nostro battaglione   dovette impegnare inizialmente le forze fasciste del settore. La rottura dello   schieramento nemico e lo sfruttamento del successo sarebbero stati operati da   reparti regolari spagnoli, appoggiati da carri armati. I posti avanzati e le   immediate retrovie dei franchisti sarebbero stati sottoposti ad un intenso fuoco   di interdizione. Subito dopo il nostro impiego sarebbero scattati i carri armati   e le fanterie. Le Brigate Internazionali di rincalzo avrebbero rastrellato il   terreno per eliminare i focolai di resistenza. 
                La sera del 17 circolò la voce   che il commissario delle Brigate Internazionali, Gallo (Luigi Longo) fosse a   Madrid per stabilire con il comando generale gli ultimi particolari del piano di   attacco. Si diceva che Gallo avesse già avuto incontri con Lister e Modesto,   comandante del quinto reggimento, destinato ad operare lo sfondamento. Il 18   marzo ci tenemmo pronti. L'intera mattina trascorse calma. Dalle retrovie   affluirono indisturbati mezzi blindati e reparti spagnoli. In cielo, di tanto in   tanto, appariva qualche aereo. Alle 14 una salva di granata fischiò sopra le   nostre teste seguita da cupi rombi, da un continuo tambureggiare di esplosioni.   Sessanta cannoni spararono per 40 minuti. Quando tacquero, comparvero i nostri   aerei che passavano a ondate successive. Li vedemmo lasciar cadere grappoli di   bombe sul nemico. Alle 15 uscirono dal bosco i carri armati, ci sorpassarono e   avanzarono sparando, tallonati dalla fanteria. I fascisti arretrarono.
  
                Le prime staffette ci informarono che il nemico era in rotta e   che i nostri carri armati non potevano inseguirli fuori dalle strade per non   impantanarsi nella campagna. 
                I reparti spagnoli avanzarono rapidamente, noi   li inseguimmo. Le nostre avanguardie penetrarono nello schieramento fascista   minacciandone i fianchi e le spalle. 
                Terribile giornata. L'offensiva del 18   marzo si concluse a sera. Raccogliemmo centinaia di prigionieri spauriti; molti,   costretti ad alzare le mani davanti alle armi spianate, piangevano. 
                Dalle   alture ci apparve in tutto il suo sconvolgimento il teatro di battaglia: nei   fossati lungo la strada c'erano fascisti feriti, moribondi, i prati erano   disseminati di cadaveri, armi, zaini, cassette di munizioni giacevano   sparpagliate tutt'attorno. Mentre gli infermieri si fermavano a raccogliere i   feriti, noi continuammo a scendere verso il paese che scorgevamo in basso, sotto   di noi. 
             
  Note
  
              1 La centuria "Gastone Sozzi" (dal nome del martire   antifascista ucciso dall'OVRA nel 1921 nelle carceri di Perugia) fu formata dal   primo scaglione di italiani che raggiunse la Spagna fin dall'agosto 1936.   Comandante della centuria fu Francesco Leone. 
  2 Già deputato comunista   tedesco. 
                3 Malozzi: fu fucilato dai nazifascisti a Roma il 10 giugno   1944. 
                4 Ateo Garemi, nato il 6 marzo 1921. Fu uno dei piú attivi combattenti   del F.T.P. della regione marsigliese. Rientrato in Italia lia il 22 settembre   1943, fu il primo comandante dei GAP a Torino. Con Dario Cagno il 24 ottobre   partecipò all'esecuzione del seniore della milizia. Arrestati, furono   condannati a morte e fucílati. Alla domanda del presidente del tribunale di   inoltrare domanda di grazia al "duce," Garemi rispondeva: "Non chiederò nessuna   grazia. Non sono io che devo avere paura; io ho solo compiuto il mio dovere di   proletario, di italiano, di comunista. Sono sereno e la morte non mi spaventa.   Siete voi che dovete aver paura, voi che morirete nell'ignominia come tutti i   traditori." 
                5 Boadila del Monte: il primo fronte a cui ho partecipato. 
                6 Picelli: deputato comunista, fu organizzatore della   resistenza armata antifascista dei popolani dell'Oltre Torrente a Parma. 
                7   Adriano Rossetti nato a Mongrando il 13 ottobre 1894, di professione muratore,   fu tra i fondatori del PCI nel Biellese, emigrato in Francia, nel '36 fu tra i   primi ad accorrere ín Spagna, commissario politico della seconda compagnia del   Battaglione Garibaldi, ferito, fu citato all'ordine del giorno per il suo   coraggioso comportamento alla battaglia di Guadalajara. 
              
              
                
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                  Giovanni Pesce
                        Nelle trincee spagnole nasceva il   25 aprile italiano 
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               (Liberazione 23/04/2006)
               La guerra civile di Spagna e la vittoriosa   conclusione della Resistenza italiana sono unite da un legame strettissimo,   fatto di sacrifici, caduti, speranze, delusioni. Una “guerra civile europea” tra   democrazia e fascismo su cui il nostro Paese così lacerato e diviso dovrebbe   riflettere 
                   
                Ho fra le mani con una certa emozione il mio vecchio libro “Un   garibaldino in Spagna”, ristampato, esattamente dopo mezzo secolo, da   Arterigere-Essezeta di Varese per il 70° anniversario della guerra di Spagna   (che cade nel prossimo luglio) e, con la memoria, torno ai tanti compagni reduci   di quella grande esperienza di lotta, ma anche di umana solidarietà: quei tanti   compagni reduci che divennero la spina dorsale della Resistenza italiana. I   comandanti e i commissari politici, il “cuore” e il “motore” della lotta contro   il nazifascismo. 
  È il 25 aprile e la connessione storico-politica fra lotta   di Liberazione e la guerra di Spagna è un atto dovuto. Chi combatté contro   Franco e il fascismo di Mussolini e di Hitler ebbe l’opportunità di formarsi una   precisa identità, per il successivo impegno nella lotta in Italia: in un   continente trasformato in una immensa trincea. 
   
  «Io mi permetto di   affermare - aveva scritto in modo profetico Emilio Lussu - che noi abbiamo   bisogno di andare in Spagna più di quanto la Repubblica spagnola non abbia   bisogno di noi». Non molto tempo dopo Carlo Rosselli, organizzatore fra gli   altri della “Colonna italiana”, lanciò da radio-Barcellona la storica parola   d’ordine “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Una consegna, o un auspicio, che   non solo esprimevano la speranza di portare nel nostro Paese la lotto contro   Mussolini, ma già prefiguravano in senso concreto, e non solo ideale, quella   “guerra civile europea” tra democrazia e fascismo che sarebbe esplosa sullo   scenario della Seconda guerra mondiale. 
   
                Ecco la ragione della mia   riflessione alla vigilia di un nuovo 25 aprile, mentre il nostro Paese vive   laceranti contraddizioni e divisioni profonde, cupi segni di un domani pieno di   incertezze. 
   
                L’inizio della guerra civile di Spagna nel 1936, settant’anni   fa e la vittoriosa conclusione della Resistenza italiana il 25 aprile 1945 sono   uniti da un legame strettissimo, fatto di sacrifici, caduti, vittorie,   sconfitte, umiliazioni, riscatti, speranze, delusioni. E il pensiero va a quegli   italiani che, chiusa la parentesi spagnola, tradussero in pratica la consegna di   Rosselli, trasformando le loro esistenze in baluardi dell’antifascismo sulle   montagne e nelle città d’Italia. Troppi sono i nomi e molto alto è il rischio di   dimenticarne qualcuno (il che suonerebbe come un torto insopportabile). I   comandanti no, questi li ricordo tutti, come ricordo chi in Spagna mi è stato   vicino in formazione o in battaglia; quelli sono nomi scolpiti nel mio cuore,   tanto alti furono i loro profili, insieme militari e politici. Da Luigi Longo,   ispettore generale delle Brigate internazionali e poi vice comandante del Corpo   volontari della Libertà; a Ilio Barontini, commissario politico del “Battaglione   Garibaldi” e comandante partigiano nella Resistenza, mio mentore nelle prime   azioni gappiste di Torino, a Leo Valiani garibaldino e membro del Comitato   internazionale di Milano; ad Antonio Roasio, commissario politico del   Battaglione Garibaldi; a Francesco Scotti, commissario politico in   Spagna e dirigente della Resistenza piemontese; ad Anello Poma nella Brigata   Garibaldi e commissario politico nel Biellese. E Alessandro Vaia, comandante   della Brigata Garibaldi e poi in Italia, nel Triumvirato delle Marche e della   Lombardia; e Domenico Tomai, “eroe” della difesa di Madrid sul Jarama e poi   nella guerriglia in Valtellina; e Riccardo Mordini, che dal fronte spagnolo   trasse forza per guidare i giovani garibaldini dell’Oltre Po nella pagina   estrema del fascismo repubblicano a Dongo; e Vittorio Bardini nella batteria   “Gramsci”, poi nel Gap di Milano e infine deportato a Mauthausen. E ancora:   Mario Ricci, garibaldino sui fronti di Huesca, Brunete, Ebro, poi medaglia d’oro   della Repubblica partigiana di Montefiorino; Francesco Leone commissario   politico della Centuria “Sozzi” poi nel Triumvirato toscano; Aldo Lampredi,   commissario delle Brigate Internazionali e membro della “missione” che giustiziò   Mussolini; Teresa Noce, Giuseppe Alberganti, Antonio Cetin, Egisto Rubini   (fondatore del 3° Gap di Milano, suicida in carcere per non parlare); Angelo   Spada (massimo esperto in campo di esplosivi); Antonio Ukmar. E tutti gli   altri. 
   
                Francesco Fausto Nitti nel suo libro autobiografico scriveva: «La   guerra di Spagna è una battaglia. Altre battaglie si annunciano in questa Europa   senza pace». «Cambiavamo il fronte», aggiunse Luigi Longo che vedeva molto   lontano. Ed era vero. Non fummo in Spagna dei vinti, ma giovani e anziani che   marciavano come dei combattenti anche nella dolorosa ritirata. Avevamo il   rimpianto nel cuore; lasciavamo il popolo spagnolo, ma ci attendevano altre dure   prove da combattere con gli stessi sentimenti e gli stessi ardori. Questa volta   vittoriose, sino al “radioso 25 aprile”. 
                
              
                
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                  Giovanni Pesce: un garibaldino in Spagna | 
                 
               
               
              L’appuntamento con la   Storia 
              Quando nel 1931 in   Spagna nacque democraticamente la Repubblica, Giovanni Pesce era un ragazzino di   tredici anni. Si trovava in Francia, a la Grand' Combe, un paese minerario delle   Cevennes, dove era emigrato da Visone d’Acqui nel 1924 con la famiglia perché il   padre Riccardo, operaio e antifascista, non trovava lavoro. Frequentava la   “Jeunesse comuniste” e aveva già conosciuto le fatiche del lavoro. Nelle   vacanze estive era andato infatti a pascolare le vacche nella Lozère, una   regione confinante, con la sola compagnia di Medoc, un cane che dormiva con lui   e che gli è rimasto nel cuore, al punto di ricordarlo, ad oltre settant'anni di   distanza, con struggente tenerezza.
                
              
              Della Spagna, in quel   periodo, ignorava quasi tutto. A meno di quattordici anni scese nella miniera,   affrontando un lavoro duro e tuttavia fiero di sentirsi un "muso nero" e   di poter contribuire con il suo magro salario al bilancio familiare. Nel   febbraio del 1936, quando in Spagna le sinistre vincono le elezioni, grazie al   voto degli anarchici che si recano alle urne per la prima volta nella storia,   “Jeanu” (questo il soprannome di Giovanni Pesce) ha compiuto i diciotto   anni e si sente ormai adulto. Ogni giorno scende nella profondità della terra e   gli è anche già capitato di oltrepassare i confini de la Grand' Combe per   recarsi a Nimes, la bella cittadina con i resti romani con lo splendido   anfiteatro e la Maison Carrè. Nell'estate, sempre del 1936, compie con alcuni   compagni un viaggio di gran lunga più interessante, che lo porta nella capitale,   nella Parigi sempre sognata, dove, fra le altre cose, visita la sede del   giornale che diffonde ogni domenica, il “suo giornale”, l'Humanitè, e   dove ascolta l'accorato appello di Dolores Ibarruri, “la Pasionaria”, e   raccoglie i manifestini illustrati e firmati da Juan Mirò: un operaio che saluta   col pugno chiuso e che dice "Aidez l'Espagne". Sì, anche lui vuole   aiutarla, convinto che ci sia un solo modo per farlo: partire volontario per   arruolarsi nelle Brigate Internazionali, per combattere per la libertà di quel   paese che imparerà a conoscere e ad amare, che poi significa lottare anche per   il paese natio, l'Italia. "Oggi in Spagna, domani in Italia", è la parola   d'ordine dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, che saranno qualche mese dopo   assassinati in Francia su mandato di Mussolini. 
  Le parole della   Ibarruri continuano a risuonargli dentro, incancellabili: "Lavoratori,   antifascisti, popolo! Tutti in piedi! Preparatevi tutti a difendere la   Repubblica, la libertà popolare e le conquiste democratiche del popolo!". Di fronte a questo appello - riflette il giovane Pesce - non si   può continuare come se niente fosse. L'appuntamento con la storia è in Spagna,   non si deve mancare. Per “Jeanu” non ci sono terze vie: o sì o no, e lui   è fermamente per il sì. Sono circa quattromila gli italiani che raccolgono   l'appello e che accorrono in Spagna, di cui 1819 comunisti, 979 senza partito,   310 tra socialisti, giellisti e repubblicani. Di loro Rafael Alberti, canterà in   una lirica dedicata alle Brigate Internazionali: "Venite da lontano. Ma   questa lontananza / cos' è per il vostro sangue che canta senza   frontiere?".
  
              Giovanni Pesce allora   sa appena leggere e scrivere, non ha la cultura di un Hemingway o di un Malraux,   non ha il talento di un Picasso o di un Casals, non conosce i versi infiammanti   di Neruda o di Machado, ma avverte come impellente il richiamo della solidarietà   internazionale. Poi di Antonio Machado leggerà l'ode di omaggio a Garcia Lorca,   assassinato dai franchisti: "Cadde morto Federico / sangue alla fronte   e piombo alle viscere/ Sappiate che fu a Granada il delitto/ Povera Granada! / Nella sua Granada". Per il giovanissimo Pesce il   richiamo si fa sempre più martellante. I compagni spagnoli chiamano, la risposta   può essere una sola. “Jeanu” lesse e rilesse l'appello della Ibarruri   pubblicato dall'Humanitè e, in seguito, altri suoi scritti. Lo colpì soprattutto   un discorso in cui quella donna straordinaria affermava che "la lotta   incominciata sul nostro territorio, sta già acquistando un carattere   internazionale, perché i lavoratori di tutto il mondo sanno che se in Spagna   trionferà il fascismo, tutti i paesi democratici del mondo saranno soggetti alla   minaccia fascista". 
  
              Insomma non si poteva   restare inermi. Così, ingannando la madre Maria con la prima storiella che gli   viene in mente, un incontro con un'amica alla frontiera belga, sale su un treno   e dà inizio al suo percorso di militante della libertà. Un cammino che durerà   tutta la vita e che, per nostra fortuna, prosegue ancora.
  
              La Spagna gli è   rimasta nel cuore, è al primo posto delle tante storie vissute. Viene persino   prima della Resistenza, il periodo eroico a Torino e a Milano, a capo dei Gap, i   gruppi d’azione patriottica, durante il quale si è guadagnata la medaglia d'oro   al valor militare e il riconoscimento di "eroe nazionale". Se gli si   chiede il perché di questo amore così travolgente per la Spagna, risponde che fu   quel fiume di gente che arrivava da ogni parte del mondo, abbandonando casa,   lavoro, famiglia, affrontando ogni giorno a viso aperto la morte, a rompere in   lui ogni indugio. Doveva essere con quei volontari, al loro fianco, nella lotta   che avrebbe dato concretezza quotidiana ai suoi ideali di giustizia e di   libertà.
  
              E oggi? Giovanni   Pesce è ancora sulla breccia. I tre anni dal 1936 al 1939 li ha descritti oltre   mezzo secolo fa (era il 1955) nel libro "Un garibaldino in Spagna",   pubblicato dagli Editori Riuniti, i cui titolari ci hanno concesso gratuitamente   i diritti per ristamparlo, nel 70° anniversario della guerra civile, l’Alzamiento che iniziò in Marocco il 17 luglio 1936 e si estese il   giorno successivo nella penisola iberica. Non abbiamo tolto o cambiato neppure   una riga per non appannare la freschezza della narrazione, che, a volte, può   apparire di una toccante ingenuità. Ma quelli erano i tempi e quelli i modi   espressivi, "les neiges d'antan", le stagioni epiche all'insegna di alti   ideali e della voglia di cambiare il mondo, raccogliendo le eredità migliori   degli Illuministi, dei Sanculotti, dei Comunardi e dei più vicini nel tempo, gli   artefici dell' Ottobre rosso. 
  
              Combattente   sull’Jarama e sul ponte di Arganda nella difesa di Madrid, nella piana di   Guadalajara, ferito in ben tre occasioni e una volta, nell'estate del 1937,   gravemente, sul fronte di Saragozza, tanto che le schegge di un ordigno fascista   che lo colpirono sono ancora conficcate nella sua schiena, inestirpabili perché,   a giudizio dei medici, un'operazione chirurgica sarebbe troppo rischiosa. E poi,   dopo la disfatta e l'avveramento della profezia della “Pasionaria”,   nell'Europa insanguinata dall'aggressione nazista, Giovanni Pesce, ventiduenne,   dalla Francia nel 1940 rientra in Italia per combattere il fascismo. Subito   arrestato e condannato ad un anno di reclusione, poi spedito al confino,   nell'isola di Ventotene dove conosce i grandi leaders del Partito   comunista italiano, da Luigi Longo a Pietro Secchia a Eugenio Curiel a Umberto   Terracini a Giuseppe Di Vittorio a Camilla Ravera che gli insegna la grammatica   e la sintassi della lingua italiana, assieme alla storia e all'amore per il suo   Paese, non quello retoricamente magniloquente del fascismo, ma quello autentico   degli operai, dei contadini e degli uomini di cultura che non hanno piegato mai   la schiena. 
  
              Dopo il 25 luglio e   l'8 settembre del ‘43, comincia la stagione della Resistenza di cui Giovanni   Pesce, “Ivaldi” e “Visone”, i due nomi di battaglia, sarà uno dei   maggiori protagonisti. Ma è la Spagna la sua passione, dove torna nel 1976 dopo   la morte di Franco e tante volte ancora, una indimenticabile con un centinaio di   studenti, per ripercorrere gli itinerari degli anni ‘30 e dove, da giovane   combattente, con una scarsa istruzione ma con un'alta statura morale, è entrato   a pieno titolo, assieme ai grandi nomi della politica, della cultura, dell'arte,   nell’incancellabile libro della storia.
               
                
              
                
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                   Giovanni Pesce, il gappista Visone | 
                 
               
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