Guido Picelli

Nel novembre 1926, a seguito della promulgazione delle Leggi fascistissime, Picelli, parlamentare comunista, insieme agli altri deputati aventiniani fu dichiarato decaduto dal mandato istituzionale. Picelli fu arrestato e condannato a cinque anni di confino che scontò a Lampedusa e a Lipari, dopo sette mesi di carcere a Siracusa e Milazzo.
Liberato nel 1931, Picelli espatriò in Francia e poi in Unione Sovietica:  qui ebbe l'incarico di insegnare "strategia militare" alla Scuola Leninista Internazionale. Svolse attività politica per il Comintern, tenne i contatti tra gli esuli italiani e collaborò a riviste politiche, ma la sua insofferenza per il regime stalinista lo fece cadere in disgrazia.
Non fu travolto dalle purghe, come tanti altri suoi compagni, ma venne destituito dall'insegnamento e mandato a lavorare in fabbrica, dove comunque venne emarginato e guardato con diffidenza, perché sospettato di simpatie trozkiste.

Nel 1936, allo scoppio della guerra civile spagnola, chiese ripetutamente di poter lasciare l'URSS ed unirsi ai volontari internazionali.
Finalmente potè raggiungere la Spagna, dove, dati i suoi difficili rapporti coi comunisti, entrò a far parte di una formazione legata al POUM, che successivamente venne inglobata nel Battaglione Garibaldi, un'unità formata da persone di varie tendenze politiche: Picelli vide nei volontari internazionali la realizzazione di un sogno: gli antifascisti combattere in un fronte unico.
Il 1º gennaio 1937 Picelli assunse il comando del battaglione e rivelò subito le sue notevoli capacità militari.

Qualche giorno dopo cadde in combattimento, e così ricorda un suo compagno:
"Il 4 gennaio riprendemmo l’avanzata. Assieme al Battaglione polacco, marciammo alla conquista del Monte di San Cristobal. Su una piccola altura - dopo qualche chilometro di marcia - sorprendemmo una compagnia di fascisti che si rifugiò nelle trincee costruite sulla cresta. Pacciardi ordinò al grosso delle truppe di fermarsi mentre la nostra prima sezione si trovava in un posto avanzato. Brevi secondi di riflessione: dovevamo proseguire o ritirarci? Noi ci trovavamo in basso; se il nemico fosse arrivato prima di noi sulle alture della colline, ci avrebbe falciati tutti con il fuoco delle sue mitragliatrici. Decidemmo di proseguire, costasse quello che costasse. A marcia forzata, ci slanciammo all’attacco, e inviammo un agente di collegamento a Pacciardi per dirgli che facesse proseguire il grosso della truppa. Così fu fatto. Picelli, coraggioso e gagliardo come sempre, alla testa dei militi della nostra compagnia, ci guidava all’attacco... Fu lui che ci fece rimarcare che su una cresta che dominava una parte delle alture dove ci trovavamo, vi era un nido di mitragliatrici. Dette subito l’ordine di piazzare una mitragliatrice pesante per non essere preso ai fianchi. Io e Picelli con tre o quattro volontari andammo a piazzare la mitragliatrice. Ma prima che ci raggiungesse il grosso della compagnia fummo scoperti e fatti segno a scariche nemiche. Picelli cadde colpito a morte. Accorsero i porta-feriti, ma le scariche di mitragliatrice impedirono il trasporto del nostro capitano. Fummo costretti a metterlo nella barella e attendere la notte per trasportare la sua salma. Così cadde Guido Picelli, eroe purissimo."

Successivamente emersero vari dubbi su questa ricostruzione dei fatti, e più d'uno sostenne che in realtà Picelli fu colpito da fuoco amico, o addirittura ucciso a tradimento da un agente dell'NKVD.
Tuttora la vicenda resta priva di riscontri certi, ma quel che è fuori di dubbio è che Picelli fu una straordinaria figura di rivoluzionario.

Luigi Giancarlo Bocchi

Il 5 gennaio 1937, sulle alture spagnole de El Matoral, una pallottola vigliacca colpiva alle spalle e uccideva Guido Picelli, vicecomandante del Battaglione Garibaldi.
Sulla vita di uno degli oppositori antifascisti più importanti e ingiustamente anche più misconosciuti della storia del nostro paese, da più di 10 mesi sto portando avanti una ricerca storica-documentaristica per la realizzazione di un film, che mi ha portato a viaggiare attraverso gli archivi riservati e segreti di Russia, Spagna, Francia e Italia.
Qui sotto ho voluto ricordare un episodio poco conosciuto della vita del rivoluzionario di Parma, ma importante per il suo significato storico-politico e simbolico: nel 1924 Picelli inalberò la bandiera rossa sul Parlamento italiano sfidando Mussolini che aveva abolito la Festa del Primo Maggio.
Ma chi era quest'uomo coraggioso, altruista, nobile, libertario e beffardo? Negli anni '20 e '30 fu una vera leggenda per il proletariato internazionale. Il teorico della «guerriglia urbana» era in realtà un fervente anti-militarista che si serviva delle tecniche e strategie militari per difendere il proletariato. In questo senso sarà sempre ricordato per la «Battaglia di Parma» del 1922, quando sconfisse con 400 Arditi del popolo i 10 mila squadristi fascisti guidati da Italo Balbo. Fu una vittoria unica, un capolavoro tattico che le forze politiche democratiche nazionali non vollero trasformare in strategia. Così tra errori, settarismi e divisioni, misero il paese in mano ai fascisti.

La strategia politica di Picelli era racchiusa in due parole: «unità e azione». Con il suo Fronte unico, composto da anarchici, comunisti, socialisti, cattolici, repubblicani, ecc. nel 1922 sbaragliò i fascisti. Per primo aveva indicato una via, che sarà poi percorsa molti anni dopo, con grave ritardo e a volte malamente, dalle forze democratiche.
In questa occasione, grazie a un documento inedito trovato negli archivi russi, per la prima volta possiamo indicare Guido Picelli, non solo come il vice-comandante dei garibaldini di Spagna, ma anche come il comandante dell'8° Battaglione delle Brigate Internazionali. Quello che i suoi volontari chiamavano affettuosamente «il Battaglione Picelli».  


Luigi Giancarlo Bocchi

La bandiera rossa sventola su Montecitorio

Per 15 minuti, il primo maggio 1924, in pieno fascismo, «lo stracciaccio rosso di Mosca» viene issato sul balcone del Parlamento. Il gesto eroico è di Guido Picelli, deputato indipendente comunista, leader degli Arditi del popolo. Presto un film sulla sua vita.


Il primo maggio 1924 non è un giorno di festa. Mussolini, che ha preso il potere da quasi due anni, ha abolito la Festa internazionale dei lavoratori. Malgrado l'imposizione del regime fascista le astensioni dal lavoro sono comunque massicce. Pattuglioni di agenti di polizia e di carabinieri si aggirano per le vie arrestando gli operai che non possono giustificare l'astensione dal lavoro. Solo nella capitale i lavoratori arrestati sono più di mille.
È in questo contesto che Guido Picelli, deputato comunista, già comandante degli Arditi del popolo durante la vittoriosa Battaglia di Parma del '22 contro migliaia di squadristi di Italo Balbo, progetta e attua un'azione solitaria e clamorosa. Picelli vuole sfidare il regime fascista proprio nel palazzo del Parlamento ormai in mano ai fascisti, anche grazie ai brogli elettorali.
Nelle elezioni che si sono svolte da poco la lista nazionale del fascio littorio ha riportato, secondo i conteggi ufficiali, 4 milioni di voti e eletto 356 deputati. Più i 19 fascisti eletti in una lista civetta. La sinistra ha ottenuto al Nord più voti dei fascisti, ma il risultato elettorale complessivo è disastroso. I socialisti hanno perso i 3/5 dei voti, mentre il Pc ha ottenuto un piccolo successo, eleggendo 19 deputati. Tra questi l'«indipendente» e ex deputato socialista Guido Picelli.
Il sistema delle preferenze indicate dal Partito è rigido. Ma Picelli vince ugualmente. È l'unico a essere eletto al di fuori delle preferenze del Partito, grazie al largo seguito popolare che ha in Emilia.
Picelli è alto, ha gli occhi intensi, luminosi e magnetici. Ha un portamento elegante e fiero che incute rispetto. Quella mattina del primo maggio del 1924, all'ingresso della Camera dei deputati i commessi lo salutano con deferenza, rispetto e forse commentano tra di loro: «L'on. Picelli è veramente matto a venire qui proprio oggi». È un giorno di tensione. Decine di deputati fascisti bivaccano nell'edificio.
Ma Picelli è uno che non ha paura di niente e di nessuno. Sulla tempia ha una cicatrice. È il segno di un colpo di rivoltella ricevuto nel marzo 1923. Un fascista di Parma aveva mirato dritto alla sua fronte e gli aveva sparato a bruciapelo. Per fortuna o per caso, Picelli si era salvato con un movimento istintivo della testa.
Negli ultimi mesi è scampato a numerose aggressioni che potevano diventare mortali. Con l'aiuto dei popolani dei borghi dell'Oltretorrente ha organizzato una rete segreta di percorsi e vie d'uscita per fuggire con gli uomini della sua organizzazione clandestina dei «Soldati del popolo» agli agguati e agli attentati squadristi. Per organizzare la resistenza e partecipare alle riunioni politiche riesce ad attraversare gran parte della città di Parma passando per i tetti delle case. Frequentemente salta dalle finestre e passa per gli scantinati e i sotterranei seguendo percorsi sconosciuti a altri. Per i fascisti locali è diventato l'imprendibile. Picelli non è un politico di primo piano come Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti. Ma al contrario dei dirigenti può vantare di essere l'unico che ha sconfitto sul piano militare i fascisti durante la Battaglia di Parma, nelle 5 giornate dell'agosto 1922.
Per il proletariato italiano Picelli è una leggenda. Una leggenda che «ha un coraggio di ferro», come dicono i popolani della sua città. Anche per questo motivo è molto temuto dai fascisti, fuori e dentro il Parlamento.
Nell'ottobre 1923 venne organizzato un complotto (come poi avverrà mesi dopo per Matteotti) per farlo fuori. Vincenzo Tonti, infiltrato, strumento del regime, preso dal rimorso e affascinato dalla nobiltà d'animo di Picelli denuncia pubblicamente: «Gli orditori del complotto erano divisi da due opinioni: secondo alcuni l'on. Picelli doveva essere bastonato a sangue (...), secondo altri egli doveva scomparire addirittura». Chi erano gli organizzatori del complotto? Tonti denuncia il generale Agostini, il generale Sacco, il vicequestore Angelucci e Italo Balbo. Il complotto doveva avere inizio proprio davanti alla Camera dei deputati. Un portiere infedele, vedendo uscire Picelli, doveva avvertire i sicari del regime.
Ma quel primo maggio del 1924 Picelli non si cura dei complotti e dei rischi che corre. Ha in testa l'azione che deve portare a termine. È deciso, determinato. Dopo essere riuscito a seminare i pedinatori, a far perdere le sue tracce agli sbirri che lo seguono giorno e notte, attraversa i corridoi di Montecitorio con l'aria decisa di chi ha un lavoro urgente da fare. In mano ha il solito bastone da passeggio, che a volte gli serve come arma di difesa, e tiene sottobraccio qualcosa di morbido avvolto in una carta. Sale lo scalone del palazzo e senza dare nell'occhio arriva al primo piano. Attraversa alcune sale, si dirige verso la grande finestra prospiciente il balcone sulla facciata principale sulla piazza di Montecitorio .
Picelli esce sul balcone, scarta il pacchetto che aveva sottobraccio e srotola un grande drappo rosso ornato di falce e martello. L'asta portabandiera che si protende sulla piazza è nuda. Il tricolore sabaudo viene inalberato solo durante le sedute del Parlamento. Ma in quel momento non c'è alcuna bandiera perché la nuova legislatura non è ancora iniziata. Picelli con l'aiuto di alcuni pezzi di spago fissa il vessillo rosso sull'asta.
Dalla piazza i passanti, le forze dell'ordine e i fascisti guardano allibiti il vessillo rosso dei lavoratori e del comunismo che sventola placidamente sul palazzo del parlamento del regno. Picelli, anche approfittando del trambusto e confusione, scende tranquillamente le scale ed esce dal palazzo. Nessuno lo ferma. Nessuno gli chiede niente.
Il suo non è un atto per riaffermare lo slogan bordighista «Rosso contro tricolore», ma piuttosto un gesto simbolico per affermare che la Festa dei lavoratori non si tocca.


La polizia, dopo aver rimosso il corpo del reato dall'asta del palazzo del Parlamento, svolge intense e urgenti indagini. Benito Mussolini, che non si è ancora trasferito a Palazzo Venezia e alberga da Presidente del consiglio nel vicino palazzo Chigi è furioso: «Ancora quel Picelli!»
Probabilmente in Mussolini quel giorno riaffiorano i timori espressi prima della marcia su Roma: «Non possiamo arrivare a Roma lasciandoci alle spalle una situazione scoperta e pericolosa come quella di Parma». I primi rapporti di polizia arrivano alle 16.30 dello stesso giorno nelle mani del capo della polizia: «Verso le ore 14, l'on. Dudan, entrato con l'ing. Foscolo del Comune di Roma, nel salone di lettura della Camera, si era accorto che era stato attaccato all'asta della bandiera, posta al balcone di centro del 1° piano del Palazzo di Montecitorio, un drappo rosso (...). Immediatamente l'on. Dudan si era affrettato a togliere quel drappo, informandone successivamente la Questura della Camera. Questa avrebbe raccolto sufficienti elementi per ritenere autore del gesto inconsulto l'on. Picelli, deputato di Parma, che non è stato più rintracciato nel locali della Camera».
Il rapporto del questore, il giorno dopo si si arricchisce di particolari: «Alle ore 13.45 di ieri l'on. Dudan e l'architetto Fasolo (Foscolo nel secondo rapporto di polizia diventa Fasolo) del Comune di Roma, saliti al salone dei giornali, alla Camera dei Deputati, notarono che un individuo vestito di nero, sbarbato, si ritirava dal balcone prospiciente su piazza Montecitorio, allontanandosi frettolosamente dal salone stesso. Insospettito, l'on. Dudan si avvicinò al balcone e si accorse che un drappo rosso era stato legato all'asta della bandiera». Quindi, secondo i documenti ufficiali, la bandiera rossa dei lavoratori e del comunismo sventolò per almeno 15 minuti sul palazzo del Parlamento italiano.
L'epilogo della clamorosa azione avviene alle 17.30 dello stesso giorno. Picelli viene rintracciato dalla polizia in via Uffici del Vicario e «tratto in arresto». Secondo il rapporto della Questura «L'on. Picelli confessò (sic) il fatto aggiungendo di aver voluto compiere una affermazione di carattere sentimentale e politico». Il questore inviperito per la beffa arresta Picelli «per delitto di offesa alla bandiera nazionale, ai sensi dell'articolo 115 Codice Penale».
Come ricordò Umberto Terracini anni dopo, Picelli compì l'azione «temerariamente e di sua iniziativa» aggiungendo poi che «dopo che essa fu compiuta certamente nessuno dei compagni di partito gliene fece rimprovero».
Dopo poche settimane, il 10 giugno 1924, viene rapito e assassinato a Roma da sicari fascisti il deputato socialista Giacomo Matteotti. Il 30 maggio 1924 Matteotti aveva preso la parola alla Camera elencando tutte le illegalità e gli abusi commessi dai fascisti per vincere le elezioni. Nel discorso venne pronunciata la profetica frase: «Uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Il corpo di Matteotti viene ritrovato il 16 agosto in un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. L'intero paese è scosso da un'ondata di sdegno e d'indignazione. Il regime fascista vacilla.
Il 17 luglio al Comitato Centrale del Partito, Picelli propone la linea dell'azione: «L'organizzazione di carattere militare deve essere rafforzata. Da un momento all'altro noi possiamo essere trascinati sul terreno dell'azione e guai se il Partito non fosse in condizione di compiere interamente il suo dovere...»

Come ai tempi della battaglia di Parma del 1922, il suo appello all'«unità e all'azione» non sarà ascoltato.

brigadas internacionales

Daniele Barbieri

Storia di Guido Picelli ardito del popolo a Parma

Guido Picelli è caduto sul fronte di Madrid, alla testa del battaglione che porta degnamente il nome di Garibaldi. Così Milicia Popular (quotidiano del Quinto reggimento) lo ricorda: «Nell’agosto ’22, quasi tutte le bande fasciste del Nord, sotto il comando del generale Balbo, si concentrano su Parma per far cadere questa città che Picelli con i suoi Arditi del popolo ha reso invincibile. Dopo un duro combattimento, le orde fasciste vengono respinte e messe in fuga».
Madre portinaia, padre cocchiere: Picelli nasce a Parma il 9 ottobre 1889, cresce nei borghi dell’Oltretorrente, covo di un popolo ribelle. Fa le medie e poi va a lavorare come orologiaio. La sua passione è il teatro. Ha 17 anni quando dice in casa: «Metti giù il riso che torno». Lo rivedono 6 anni dopo; con la battuta pronta chiede se il riso è cotto, poi racconta le sue avventure di attore girovago. Si trova un lavoro da orologiaio. Tranquillo per un po’ … finché all’orizzonte si affaccia la guerra.
Sin da giovanissimo iscritto al Partito socialista, Picelli è contro. Quando inizia la guerra, coerente antimilitarista, si arruola volontario nella Croce Rossa. Ma viene richiamato in fanteria, allora fa domanda da ufficiale. Finisce la guerra da tenente, medaglia di bronzo al valore e zoppicante per una ferita.
Più socialista che mai, capisce il grave problema dell’aiuto a chi è stato colpito dalla guerra e diventa dirigente della “Lega proletaria mutilati, invalidi e vedove dei caduti”.
Ma sulla scena è apparso il fascismo. Picelli intuisce subito il pericolo. Quando nasce il Partito comunista, Picelli è in carcere. Ne esce pochi mesi dopo perché eletto deputato (col PSI). Nel ’21 in varie città si formano, in modo spontaneo, gli Arditi del popolo, Picelli è da subito in prima fila. Si lagnano le camicie nere che fra l’ottobre 1920 e la marcia su Roma (due anni dopo) cadono 300 fascisti ma le vittime dello squadrismo sono 10 volte tanto, 3mila. Mentre Turati e altri dirigenti invitano alla calma, Picelli scrive: «Occorrono metodi nuovi. Di fronte alla forza armata occorre la forza armata (…) La borghesia per attaccarci non ha creato un partito ma un organismo armato, il fascismo. Noi dobbiamo fare altrettanto».
Nel ’22 il terrore fascista dilaga. La risposta è debole, le sinistre divise quasi ovunque ma Parma non cede. «È l’ultima roccaforte in mano delle forze anti-nazionali» scrive Italo Balbo, uno dei capi fascisti. In agosto parte un attacco in grande stile, guidato da lui. Ma l’Oltretorrente di Parma è pronto a resistere: l’organizzazione difensiva è stata avviata 14 mesi prima. «Per la prima volta», è di nuovo Balbo, «il fascismo si trovava di fronte a un nemico agguerrito, organizzato e deciso a resistere»: e alla fine le camicie nere si ritirano, lasciando 30 morti sul terreno. Non sono riusciti a passare in 20 mila ben addestrati (venuti da mezz’Italia) contro poche centinaia di combattenti ma sostenuti da quasi tutta la città. Vorrebbero ritentare quasi subito ma Mussolini blocca Balbo: la “marcia su Roma” è prossima, la vendetta su Parma può aspettare.
Nel dicembre ’22 gli Arditi del popolo si sciolgono, in realtà molti tentano di iniziare, con scarso successo, un’attività clandestina. Intanto Picelli si è avvicinato ai comunisti e alla fine del ’23 si iscrive al partito ma è escluso da incarichi direttivi per il suo “libertarismo”. Nel ’24 sarà rieletto nelle liste di “Unità proletaria” (comunisti e terzinternazionalisti). Il primo maggio 1924 è autore di una beffa clamorosa: issa una bandiera rossa con falce e martello sul palazzo del Parlamento. Dal ’26 il regime lo confina a Lipari. Nel novembre ’31 è rimesso in libertà, il partito gli ordina di espatriare.
Scappa in Francia, poi arriva a Mosca. Nel luglio ’36, con l’aiuto di Hitler e Mussolini, il generale Franco attacca la Repubblica spagnola. Molti italiani accorrono volontari. La parola d’ordine è “Oggi in Spagna, domani in Italia”.
In modo fortunoso, senza neanche una valigia, Picelli arriva da solo a Barcellona. Addestra i suoi uomini con passione: «dovete essere disciplinati e coraggiosi». Un volontario (il tipografo Canonica) lo ricorda così: «Picelli è come il correttore di bozze in tipografia: corregge gli sbagli». Finito l’addestramento si va a combattere: il 5 gennaio 1937 Picelli, al comando di due compagnie garibaldine, cade sull’altura di El Matoral.
Diverse le versioni sulla sua morte. C’è chi dice che, spinto dalla sua generosità, disobbedisce alle regole secondo cui chi comanda una compagnia non deve esporsi in azioni d’avanguardia. C’è chi parla di un proiettile alle spalle come accade per altri militanti “non ortodossi” che vengono considerati dagli stalinisti più pericolosi dei fascisti. Di un mistero non risolto - lo ha ricordato Alias-il manifesto, in luglio - parla Gustav Regler, uno dei comandanti delle Brigate internazionali in La grande crociata, scritto nel 1940 (con prefazione di Ernest Hemingway) ma ancora inedito in Italia.
È in uscita un documentario di Giancarlo Bocchi su Picelli ma intanto chi si recasse in libreria faticherebbe a trovare testi sugli Arditi del Popolo. Le fonti di questo articolo sono soprattutto in Barricate a Parma (Libreria Feltrinelli di Parma, 1972) di Mario De Micheli e Gli Arditi del popolo (Galzerano, 2002) di Luigi Balsamini.
Ma è interessante anche Arditi non gendarmi (Bfs edizioni, 1997) che indaga sulla complessa storia che si dipana «dall’arditismo di guerra agli arditi del popolo». Istruttivo confrontare la vittoriosa resistenza di Parma con la sconfitta di Novara del mese precedente, come l’ha raccontata Cesare Bermani in Novara 1922, battaglia al fascismo (Sapere, 1972).
E sulla resistenza a Sarzana - con gli Arditi del popolo in prima fila - Luigi Faccini gira nel 1980 Nella città perduta di Sarzana. Particolarmente significativa, considerando le sue posizioni moderate, la presentazione di Giorgio Amendola (allora dirigente di primo piano del PCI) al libro Barricate a Parma, uscito nel cinquantenario della battaglia dell’Oltretorrente. Amendola scrive che se gli Arditi del Popolo non si sviluppano «dipende anche dal settarismo del PCI» mentre invece la sua «base unitaria» diventa «un’anticipazione di quel movimento che dovrà costituire la base della Resistenza e della vittoria».
Pochi mesi prima, esce il quotidiano Lotta continua e come sfondo del titolo sceglie proprio le barricate di Parma: il riferimento non è casuale, perché dopo le stragi e le aggressioni fasciste fra il ’69 e il ’72, in Italia tira aria di golpe e parte della sinistra (extra-parlamentare e non solo) ritiene che una nuova Resistenza sia necessaria.

grazie a: http://www.liberazione.it/

Chi erano gli Arditi del popolo

L'origine della formazione antifascista degli Arditi del popolo va ricercata nel tormentato e confuso clima politico che seguì la fine della prima guerra mondiale.
Durante il conflitto quasi in ogni reggimento di fanteria vennero creati dei reparti speciali di esploratori, col compito di infiltrarsi dietro le linee nemiche ed effettuare azioni di sabotaggio, al fine di agevolare le operazioni delle truppe ordinarie: l'efficacia di questo tipo di azioni fu tale da indurre i vertici militari a trasformare i reparti in vere e proprie squadre d'assalto da impiegare nelle situazioni più pericolose, con armamenti leggeri (pistole, pugnali, granate) efficaci anche nei combattimenti ravvicinati e corpo a corpo.
Alla fine della guerra gran parte di questi reparti furono sciolti o accorpati ai vari reggimenti, ma chi ne aveva fatto parte - generalmente per adesione volontaria - si richiamava a forti sentimenti nazionalistici, poco inclini alle esigenze diplomatiche legate alle complesse trattative di pacificazione: al tavolo dei vincitori venne deciso che Fiume (la cui popolazione era per metà italiana) e la Dalmazia non avrebbero seguito la stessa sorte di Trento e Trieste, e la loro 'annessione all'Italia fu bloccata.
Fortissima fu la contrarietà degli ambienti più vivaci dell'interventismo, che peraltro aveva una doppia matrice, quella strettamente nazionalistica e quella progressista che si richiamava agli ideali risorgimentali: coloro i quali si riconoscevano nell'anima più bellicosa dell'arditismo - e i cui valori si possono schematicamente riassumere nelle tre parole d'ordine che poi saranno i riferimenti delle SS, onore, fedeltà coraggio - e che esaltavano appunto il mito della forza e della violenza come motori della storia, non esitarono, nel 1919, ad unirsi a Gabriele D'Annunzio nell'impresa di Fiume, cioè nell'occupazione militare della città, che avrebbe dovuto sancirne il passaggio all'Italia: il governo di Roma ovviamente si oppose duramente a questa iniziativa che destabilizzava il quadro internazionale e dopo oltre un anno di presenza a Fiume dei legionari dannunziani mise fine manu militari alla vicenda.
Gli animi non si placarono, anzi, e molti arditi si rivolsero con entusiasmo ai nascenti Fasci di combattimento.

Cercammo un simbolo. Il tricolore era stato troppo profanato dalla retorica patriottarda dei partiti costituzionali, e rappresentava ancora la viltà miserabile miserevole e miseranda dei governi demo-liberali che si nutrivano di miscele d’oppio e di cantaride, lasciando imbordellare l’Italia e prostituire il suo destino...
Allora scegliemmo il nero vessillo degli Arditi, che aveva preceduto gli assalti oltre le trincee di carne umana del Grappa e sull’altra riva del Piave gonfia di sangue.
Aveva il colore “della morte che infutura la vita”, e per questo l’abbiamo prediletto; era il simbolo della nostra disperazione e della nostra ferocia, e ci pareva che in esso risplendesse tenebrosa e tremenda la “voluttà di morie” che arroventava i nostri sensi di giovani gagliardi pronti a tutto.
Erano i tempi in cui nelle nostre canzoni non ricorrevano i temi dell’amore, del piacere e della gioia, ma risuonavano cupe parole apocalittiche: “pugnale”, “bomba a mano” trovavan rime che facevan rabbrividire le timorate nonché vigliacchissime anime dei conservatori pronti a ceder tutto pur di conservare le ghirbe flaccide e graveolenti.
Il ritornello spavaldo echeggiava risolutivo ammonitore e terribile come la cannonata, e volgeva in fuga le mandrie imbestialite del socialismo gaglioffo e vigliacco
.”
(L. Freddi, Bandiere nere, contributo alla storia del fascismo, Roma, 1929)


Ma la parte progressista dell'arditismo non poteva riconoscersi nel movimento promosso da Mussolini (già socialista interventista) e anzi vide in esso l'incarnarsi di ideali opposti a quelli risorgimentali e alla battagliera tradizione del sindacalismo rivoluzionario.

Di qui la nascita (1921) di un arditismo esplicitamente di sinistra, che tendeva sicuramente a semplificare in modo eccessivo il quadro politco italiano (da una parte il socialismo attraversato dai profondi contrasti che porteranno alla scissione di Livorno, dall'altra una borghesia ancora incerta fra il rassicurante ma fragile equilibrio costituzionale garantito dalla monarchia e le suggestioni dittatoriali), ma che tuttavia aveva colto un aspetto fondamentale della crisi in cui stava precipitando il paese: non ci sarebbe stata un'evoluzione pacifica e, in un senso o nell'altro, gli sbocchi non potevano che essere traumatici.
Una visione non dissimile a quella dei comunisti (Tra reazione e rivoluzione è il titolo estremamente emblematico di un utilissimo libro di Luigi Longo su tale periodo - Edizioni del Calendario, 1972), i quali però consideravano la situazione sotto il profilo strettamente politico, sottovalutando non poco il fatto che i delicati e confusi equilibri politici avrebbero trovato uno sviluppo organico (appunto nel senso di uno sbocco reazionario e liberticida o, viceversa, di una trasformazione rivoluzionaria) anche in virtù della forza - non solo politica ma anche militare - degli schieramenti in campo. Ancora più distante la posizione dei socialisti, che nell'agosto 1921 siglarono coi fascisti il nefasto patto di pacificazione, con cui s'illudevano, ottusamente, di dissinescare il clima da guerra civile instaurato dalle spedizioni punitive.
Differenza sostanziale, dunque, tra arditi e comunisti, che produsse contrasti e divisioni tali da indebolire tragicamente il fronte antifascista.
Eppure furono numerosi i comunisti che insieme ad anarchici, socialisti rivoluzionari, senza partito, parteciparono attivamente alla costituzione in molti centri, dal Nord al Sud, delle formazioni degli Arditi del Popolo, che in numerose occasioni furono l'unico baluardo rispetto al dilagare dello squadrismo mussoliniano. Gli episodi più noti sono le battaglie di Sarzana e Parma.

Sarzana, 21 luglio 1921: una colonna di circa 300 squadristi comandati da Amerigo Dumini (il capo della squadraccia che nel 1924 rapì e uccise l'onorevole Giacomo Matteotti) marcia su Sarzana con l'obiettivo di liberare con la forza alcuni camerati che erano stati incarcerati per possesso abusivo di armi. I carabinieri della zona ed un reparto del regio esercito reagirono con decisione e dispersero le camicie nere: cinque di essi persero la vita nello scontro a fuoco, altri (una ventina), in fuga, vennero catturati e uccisi dagli Arditi del Popolo e dalla popolazione. Fu il primo episodio di resistenza armata al dilagante squadrismo, che poi venne utilizzato dalla propaganda fascista per esaltare i cosiddetti "martiri di Sarzana.".

Parma, agosto 1922: circa 10.000 squadristi emiliani, toscani, veneti e marchigiani, prima agli ordini di Roberto Farinacci e poi di Italo Balbo, dopo aver conquistato ed occupato gli altri centri emiliani assediarono Parma. Unica difesa gli Arditi del Popolo, comandati dal deputato Guido Picelli e dal pluridecorato di guerra Antonio Cieri, le formazioni di difesa proletaria, la Legione Proletaria Filippo Corridoni, numerosi cittadini dei quartieri popolari mobilitati contestualmente da uno sciopero nazionale indetto dall'Alleanza del lavoro per il 1º giugno. Il 6 agosto, resisi conto dell'impossibilità di conquistare la città senza scatenare una vera e propria guerra, i fascisti passarono il controllo dell'ordine pubblico all'esercito e si impegnarono a ritirarsi.


qui un breve saggio sugli Arditi del popolo (grazie a: http://www.comunismoecomunita.org/)

Paolo Brogi

Gli Arditi del Popolo di Guido Picelli

Era andato alla Grande Guerra senza condividerla. Ma c’era andato. Il senatore comunista Umberto Terracini lo ricordò in questa sua contraddizione parlando a Parma dentro un  Teatro Regio gremito nel trentesimo anniversario della scomparsa avvenuta nel 1937 in Spagna, in circostanze mai del tutto chiarite.

“Picelli -  disse Terracini al teatro attentissimo in quel lontano 1967 -, nonostante che la sua convinzione socialista lo avesse posto contro all’intervento, fu durante la guerra un soldato esemplare e per quattro anni espose sul fronte ogni giorno la sua vita, guadagnando il grado di tenente, una medaglia al valore ed anche una grave ferita ad una gamba che rimase per sempre lesa e che lo obbligò successivamente sempre ad una andatura zoppicante…”. Beffardo e coraggioso, le due principali note di carattere con cui lo avrebbe descritto al momento della morte in Spagna il “repubblicano” Randolfo Pacciardi che col comunista Antonio Roasio ha condiviso i suoi ultimi momenti, Guido Picelli aveva probabilmente scoperto in quella terribile guerra il succo da cui avrebbe ricavato una delle pagine antifasciste più note di tutto il primo dopoguerra, trasformare una parte consistente di quegli uomini pronti a tutto che erano stati gli “arditi”, reparto scelto della guerra di trincea,  in “arditi del popolo” pronti a battersi contro l’ondata nera che avrebbe poi travolto tutto. Bella idea frutto della guerra, mettere in campo questi soldati pronti alle azioni più temerarie, gli arditi, che nelle battaglie si erano distinti per azioni che la propaganda nazionalista del tempo portava ad esempio.

Picelli li aveva visti all’opera, ne conosceva parecchi soprattutto quelli che venivano dalla sua Emilia, li avrebbe ritrovati dopo la fine della guerra come reduci spesso incattiviti e pronti in larga misura ad affidarsi al fascismo nascente. Non tutti, però, una parte sarebbe diventata invece l’opposto, dando vita all’epopea degli arditi del popolo che proprio a Parma e nel quartiere dell’Oltretorrente avrebbe messo a segno la lunga e vittoriosa resistenza contro i fascisti guidati da Italo Balbo. Una pagina di storia indimenticabile.

Ecco che cosa aveva visto nelle trincee il giovane socialista Picelli andato al fronte quando aveva solo ventisei anni. Aveva visto oltre la miseria e gli eroismi, il dolore e la rassegnazione anche un  popolo proletario che poi avrebbe pronto battersi anche per qualcosa di diverso. Picelli era un socialista dall’animo irrequieto venuto su da una famiglia modesta - il padre era un cocchiere - che l’avrebbe voluto orologiaio. Ma lui a 17 anni era già scappato da casa per che costruirsi un altro futuro, da attore con la compagnia teatrale di Ermete Zacconi all’epoca tra i maggiori interpreti della scena. Riacciuffato a 23 anni dal padre e ricondotto in una orologeria per misurarsi con un vero mestiere, tre anni dopo aveva scoperto davvero il mondo entrando nel gran carnaio della guerra. Lì, tra una trincea e l’altra, Guido Picelli infatti si era dedicato soprattutto al soccorso dei feriti. Era stato volontario nelle file della Croce Rossa Italiana ricevendo, per l’eroismo dimostrato nel soccorrere i caduti oltre le linee, la medaglia di bronzo al valor militare e la medaglia di bronzo della Croce Rossa Italiana. Verso la fine della guerra era stato inviato dall’esercito all’Accademia militare di Modena da dove era uscito col grado di sottotenente, posizione a cui due anni dopo  avrebbe pubblicamente rinunciato. Picelli si era messo in luce per la dedizione e la tenacia nel soccorrere chi ne aveva bisogno, recuperando feriti in situazioni in cui si metteva a repentaglio anche la propria vita. Il ferimento subito ne era una conferma. In mezzo alle sofferenze aveva capito che un altro mondo era possibile.

La prima cosa che Guido Picelli fece alla fine della guerra fu costituire nella sua Parma nel novembre del 1918  la “Lega proletaria mutilata invalidi reduci orfani e vedove di guerra”. Era un’associazione nazionale legata al Partito socialista e alla Camera confederale del Lavoro. A confronto con altre associazioni di ex combattenti questo organismo rivendicava la solidarietà di classe e il superamento dei legami gerarchici propri dell’esercito. Si proponeva come fine uno Stato operaio contrapposto allo Stato dei nazionalisti. Sul piano materiale nel quadro della smobilitazione bellica la Lega serviva a soccorrere le famiglie dei caduti e a trovare lavoro per chi non ce l’aveva più.

A Parma Picelli veniva intanto tenuto d’occhio, il prefetto in un cenno biografico che gli dedicò nell’agosto del 1920 per il Casellario politico centrale scriveva che la propaganda portata avanti da Picelli veniva attuata “con notevole profitto”. Sessantamila, su una popolazione di 360 mila abitanti, erano i reduci di Parma, un esercito davvero imponente da cui Picelli cercava di estrarre il meglio e che già nel 1920, durante l’occupazione delle fabbriche, fece da base per la neocostituita “Guardia rossa”, una formazione che anticipava quelli che sarebbero stati gli “Arditi del Popolo” formatisi poi a livello nazionale nel 1921. Con i suoi compagni della “Guardia rossa” fu  incarcerato per aver tentato di impedire la partenza di un treno di Granatieri diretto in Albania, a difesa della base di Valona, avamposto di penetrazione colonialista . Fu scarcerato l’anno successivo, nel 1921, quando fu eletto al Parlamento con un voto plebiscitario dei suoi concittadini. Fu quello il momento in cui volle rinunciare al grado di sottotenente. Intanto in giro si agitavano le bande fasciste. Nei borghi rurali venivano assaltate e date alle fiamme sedi di cooperative. “Circa 150 persone, tra i quali minorenni sempre armati di una o due rivoltelle - così li descriveva nel luglio del ’21 il deputato socialista Armando Bussi in una denuncia al Sottosegretariato all’Interno contro le devastazioni di sedi, le incursioni notturne in abitazioni private, le minacce e le percosse -. Essi si servono di camion per le loro scorribande, usano bombe incendiarie, benzina e petrolio, apposite mazzette e bastoni a nervo”. I fascisti erano entrati in azione.

Ma intanto nell’estate del 1921  erano nati in Italia gli “Arditi del Popolo”, da una scissione della sezione romana degli Arditi d’Italia, per impulso di una serie di ex “arditi” dell’esercito guidati da un simpatizzante anarchico come Argo Secondari ed appoggiati dal futurista Mario Carli. Erano in sostanza gruppi armati di ex arditi da opporre alle squadre d’azione fasciste. Nel giro di poco tempo gli arditi del popolo assommavano a parecchie  migliaia di aderenti, suddivisi in oltre cento sezioni, ma sarà Parma a veder nascere nell’agosto del 1922 la sezione forse più agguerrita destinata a dare una lezione esemplare ai fascisti con i cinque giorni di resistenza nell’Oltretorrente assediato dalle camicie nere di Italo Balbo. Il popolare rione chiuso con barricate tenne duro, i fascisti furono costretti a ripiegare. Durante la battaglia si distinse l’anarchico Antonio Cieri, che Picelli aveva nominato vicecomandante degli Arditi del popolo. Le barricate erano ovunque in Via Nino Bixio, via della Salute, via Ponte Caprazucca, via Filippo Corridoni, via Imbriani, vicolo Carra, piazzale Pietro Cocconi, piazza Inzani, borgo Minelli, borgo Morodolo, borgo Salici, borgo Grassani, borgo Bernabei, borgo Carra, borgo Rodolfo Tanzi. Barricate in armi. E poi ecco il trincerone di borgo del Naviglio. L’osservatorio era sul Campanile della Chiesa di Santa Maria. “In tutta la valle padana - aveva scritto Picelli un paio di mesi prima - Parma è l’unica zona che non è caduta in mano al fascismo oppressore. La nostra città, compresa una buona parte della provincia, è rimasta una fortezza inespugnabile, malgrado i tentativi fatto dall’avversario. Il proletariato parmense non ha piegato e non si piega…La difesa organizzata e le pattuglie d’avanguardia nell’azione difensiva hanno mirabilmente tenuto testa all’avversario sacrificando disinteressatamente la vita dei propri aderenti”.

La nuova linea del Piave si era spostata a Parma. Fu una pagina eclatante quella che si sviluppò dal I al 6 agosto a Parma. Squadristi emiliani, toscani, veneti e marchigiani, prima al comando di Roberto Farinacci e poi di Italo Balbo, assediarono Parma dopo aver conquistato ed occupato gli altri centri emiliani. Nucleo della difesa organizzata dagli Arditi del Popolo fu l’Oltretorrente, dove migliaia di arditi agli ordini di Picelli e dal suo vice, il  pluridecorato di guerra Cieri, resistettero senza cedere di un metro con contributo di varie formazioni di difesa proletaria come la Legione Proletaria Filippo Corridoni. Tutt’intorno c’erano poi i quartieri popolari mobilitati contestualmente da uno sciopero nazionale indetto dall’Alleanza del lavoro. Il 4 agosto Balbo scrisse:; “Se Picelli dovesse vincere i sovversivi di tutta Italia rialzerebbero la testa. Sarebbe dimostrato che armando e organizzando le squadre rosse si neutralizzava ogni offensiva fascista”.

Il 6 agosto, resisi conto dell’impossibilità di conquistare la città, i fascisti passarono il controllo dell’ordine pubblico all’esercito e si impegnarono a ritirarsi. Per loro era una sconfitta cocente. Peccato però che la previsione di Balbo non andasse in porto, la rotta della sinistra italiana di fronte al sorgente fascismo era in pieno svolgimento.

Guido Picelli alto, dinoccolato, elegante, baffetti leggeri e sguardo deciso ne era uscito comunque a testa alta. Non tanto alta però da evitare persecuzioni poliziesche, visto che subì in poco tempo quattro arresti: il 27 settembre 1921, il 5 marzo 1922, il 31 ottobre 1922 e il 5 maggio 1923. Le imputazioni erano sostanzialmente sempre le stesse: porto abusivo di armi e formazione di bande armate. Ogni volta però la Camera dei deputati dove Picelli sedeva nei banchi socialisti (sarebbe passato ai comunisti poi nel 1924) negava l’autorizzazione a procedere. Picelli comunque ogni volta doveva scontare il fermo di alcuni giorni. Del resto questa attenzione era stimolata dal Ministero dell’Interno che aveva emanato circolari  come quella del 13 agosto 1921 tutte a senso unico, per impedire lo sviluppo dell’associazione degli arditi del popolo. Dall’agosto si ebbero ripetuti arresti di Arditi del Popolo. Alla fine dell’anno, il 124 dicembre, Picelli sciolse i suoi Arditi, anche se cercò di mantenere in vita per tutto il ’23 i “Gruppi segreti di azione” o “Soldati del Popolo”. “Parlava un po’ italiano e un po’ in dialetto - ha ricordato l’ardito del popolo Regolo Negri -., secondo gli esseri con cui aveva a che fare. Girava sempre con la pistola. Dormiva in quella strada dietro l’edicola di via D’Azeglio; le case dei due borghi confinavano al centro. Viveva in affitto, da solo. Una volta vennero per prenderlo e lui riuscì a passare nel terrazzo della casa vicina in un altro borgo con un salto. Hanno tentato tante volte di prenderlo! Quando uccisero Matteotti portò un mazzo di fiori rossi sul banco in cui Matteotti sedeva…”.

Nel 1923 i fascisti tentarono più volte di assassinarlo. A Parma gli spararono un colpo di pistola a bruciapelo che Picelli riuscì fortunosamente ad evitare riportando solo una ferita di striscio alla tempia. A Roma fu scoperto un complotto, ordito da alti gerarchi fascisti e funzionari dello Stato, per rapirlo e assassinarlo. Nel ’24 in pieno fascismo Picelli riuscì a issare la bandiera rossa con la falce e martello sul balcone di Montecitorio. Il vessillo resistette per quindici minuti. E lui fu arrestato di nuovo. Picelli quel giorno aveva protestato a modo suo contro l’abolizione mussoliniana della Festa dei Lavoro. Viveva allora a Trastevere, vicino a piazza San Cosimato, e si occupava del soccorso rosso di solidarietà alle vittime politiche. Poi dal ’24 al ’26 fu più volte aggredito fisicamente dalle squadracce fasciste ma continuò a girare l’Italia per organizzare la resistenza antifascista. La sua compagna Paolina Rocchetti venne licenziata, chiunque lo avvicinava veniva controllato. Nel novembre del 1926 Picelli ed altri parlamentari antifascisti furono dichiarati decaduti dal mandato parlamentare e arrestati. Picelli fu poi  condannato a cinque anni di confino che scontò a Lampedusa e Lipari. Tentò una fuga, ma non ci riuscì. Nel 1932 riuscì comunque a fuggire dall’Italia, riparò in Francia ma venne espulso per le sue attività antifasciste. Raggiunse allora la Russia ma ben presto si rese conto della tragedia stalinista in corso. Tra le vittime del dittatore caddero anche molti antifascisti italiani, come il suo amico  Dante Corneli accusato di trotzkismo e spedito in Siberia ed Emilio Guarnaschelli. Nella fabbrica Kaganovic dove era stato relegato perché ormai entrato nel cono d’ombra del sospetto stalinista subì un processo-purga. Poi allo scoppio della guerra civile spagnola raggiunse Barcellona arruolandosi tra i volontari e assumendo di lì a poco il comando del IX battaglione forte di cinquecento miliziani, assorbito poi nel Battaglione Garibaldi di cui divenne il vicecomandante

Il 1 gennaio del 1937 Picelli conquistò Mirabueno, villaggio strategico sul fronte di Guadalajara. Quattro giorni dopo, a 47 anni, Guido Picelli fu colpito a morte da una raffica di mitragliatrice in combattimento sul fronte di Mirabueno. Così almeno riportò la versione ufficiale. In realtà, come ha scritto poi nelle sue memorie Giorgio Braccialarghe (un repubblicano, comandante degli Arditi della Brigata Garibaldi che recuperò la salma di Picelli in prima linea), testimone oculare dei fatti, “la pallottola che l’ha fulminato, l’ha colpito alle spalle, all’altezza del cuore”. Cadendo in ogni caso avrebbe detto: “M’hanno fregato”. Per il leggendario Picelli furono organizzati imponenti funerali a Barcellona, Madrid e Valencia. La sorella Camilla e i suoi compagni di Parma appresero la notizia captando clandestinamente le trasmissioni di Radio Barcelona. Fu diffusa allora a Parma una sua fotografia.
Nel cortile del carcere di Bologna comparve la scritta: “W la Spagna rossa, ricordate Picelli”.

da: Eroi e poveri diavoli della Grande Guerra, Imprimatur, 2004


Antonio Gramsci

Gli Arditi del popolo

(l'Ordine Nuovo, 15 luglio 1921)

Le dichiarazioni fatte ai giornali dall'on. Mingrino a proposito della sua adesione agli Arditi del popolo servono magnificamente per mettere in rilievo il comunicato del Partito comunista sullo stesso argomento. Le dichiarazioni del Mingrino corrispondono alla vieta e logora psicologia del Partito socialista, che altre volte abbiamo battezzato neomalthusiana. Secondo questa concezione, il movimento per gli Arditi del popolo fatalmente riporterebbe a una ripetizione dei fatti del settembre 1920, quando il proletariato metallurgico fu condotto nel campo dell'illegalità, fu messo in condizioni di non poter resistere senza armarsi, senza manomettere i privilegi più sacri del capitalismo e poi, d'un tratto, tutto finì, perché l'occupazione delle fabbriche si proponeva solo dei fini... sindacali.

I.'on. Mingrino aderisce agli Arditi del popolo. Dà all'istituzione il suo nome, la sua qualità di deputato socialista, il prestigio della sua figura, diventata simpatica al proletariato rivoluzionario per l'atteggiamento tenuto durante l'aggressione fascista contro il compagno Misiano. Ma qual è la missione degli Arditi del popolo, secondo l'on. Mingrino? Essa dovrebbe limitarsi a determinare un equilibrio alla violenza fascista, dovrebbe essere di pura resistenza, dovrebbe, insomma, avere dei fini puramente... sindacali.

L'on. Mingrino crede dunque, ancora, che il fascismo sia una manifestazione superficiale di psicosi postbellica? Non si è ancora persuaso che il fascismo è organicamente legato all'attuale crisi del regime capitalista e che sparirà solo con la soppressione del regime? Non si è ancora convinto che bisogna dare alle ideologie patriottiche, nazionaliste, ricostruttrici di Mussolini e c. un valore puramente marginale e bisogna invece vedere il fascismo nella sua realtà obbiettiva, fuori di ogni schema prestabilito, fuori di ogni piano politico astratto, come uno spontaneo pullulare di energie reazionarie che si aggregano, si disgregano, si riassociano, seguendo i capi ufficiali solo quando le loro parole d'ordine corrispondono all'intima natura del movimento, che è quella che è, nonostante i discorsi di Mussolini, i comunicati di Pasella, gli alalà di tutti gli idealisti di questo mondo?

Iniziare un movimento di riscossa popolare, aderire a un movimento di riscossa popolare ponendo preventivamente un limite alla sua espansione, è il più grave errore di tattica che si possa commettere in questo momento. Non bisogna creare illusioni nelle masse popolari, che soffrono crudelmente e che dalle loro stesse condizioni di sofferenza sono portate a illudersi, a credere di alleviare il loro dolore. Non bisogna far credere che basti un piccolo sforzo per salvarsi dai pericoli che oggi incombono su tutto il popolo lavoratore. Bisogna far comprendere, bisogna insistere per far comprendere che oggi il proletariato non si trova contro solo un'associazione privata, ma si trova contro tutto l'apparecchio statale, con la sua polizia, i suoi tribunali, coi suoi giornali che manipolano l'opinione pubblica secondo il buon piacere del governo e dei capitalisti. Bisogna far comprendere ciò che non fu fatto comprendere nel settembre 1920: quando il popolo lavoratore esce dalla legalità e non trova la virtù di sacrifizio e la capacità politica necessarie per condurre fino in fondo un'azione, viene punito con la fucilazione in massa, con la fame, con il freddo, con l'inedia che uccide lentamente giorno per giorno.

Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del Popolo? Tutt'altro: essi aspirano all'armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l'organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo.

I comunisti sono anche del parere che per impegnare una lotta non bisogna neppure aspettare che la vittoria sia garantita per atto notarile. Spesse volte nella storia i popoli si sono trovati al bivio: o languire giorno per giorno di inedia, di esaurimento, seminando la propria strada di pochi morti al giorno, che diventano però una folla nelle settimane, nei mesi, negli anni; oppure arrischiare l'alea di morire combattendo in un supremo sforzo di energia, ma anche di vincere, di arrestare d'un colpo il processo dissolutivo, per iniziare l'opera di riorganizzazione e di sviluppo che almeno assicurerà alle generazioni venture un po' più di tranquillità e di benessere. E si sono salvali quei popoli che hanno avuto fede in se stessi e nei propri destini e hanno affrontato la lotta, audacemente.

Ma se così pensano i comunisti, per i dati obbiettivi della situazione, per i rapporti di forza con l'avversario, per le possibilità di dominare il marasma e il caos creati dalla guerra imperialista, per tutti gli elementi che non possono essere inventariati e sui quali non sempre si può fare un esatto calcolo di probabilità, essi però vogliono almeno che i fini politici siano chiari e concreti, essi non vogliono che si ripeta oggi ciò che è avvenuto nel settembre 1920, non vogliono almeno per ciò che può essere previsto, che può essere valutato, che può essere predisposto dall'attività politica organizzata in partito. Gli operai hanno modo di esprimere il loro parere; gli operai socialisti, che sono rivoluzionari, che hanno dall'esperienza di questi ultimi mesi tratto qualche insegnamento, hanno modo di far pressione sul Partito Socialista, di costringerlo a uscire dall'equivoco e dall'ambiguità, di fargli assumere una posizione netta e precisa in questo problema che è il problema della stessa incolumità fisica dell'operaio e contadino. L'on. Mingrino è deputato socialista; se è uomo sincero, come noi crediamo, prenda egli l'iniziativa di fare uscire dal torpore e dall'indecisione le masse che seguono ancora il suo partito, ma non ponga dei limiti alla loro espansione se non vuole avere la responsabilità di aver procurato per il popolo italiano una nuova disfatta e un nuovo fascismo moltiplicato per tutte le vendette che la reazione implacabilmente esercita sui titubanti e sugli indecisi, dopo aver massacrato le avanguardie d'assalto.

Relazione del PCd’I al IV Congresso dell’Internazionale comunista

(novembre 1922)

[...]

La Centrale dette decisamente la disposizione che il nostro organismo di inquadramento dovesse restare affatto indipendente dagli Arditi del popolo, pur lottando a fianco di questi come molte volte è avvenuto quando si avessero di fronte le forze del fascismo e della reazione. […]
L’azione di un organismo militare e il suo indirizzo successivo, data la grande unità di accentramento organizzativo che esso deve avere, e quindi la poca mutevolezza della sua gerarchia dirigente, assume accentuandoli i caratteri che ha quella degli organismi politici: non è indipendente dal suo ‘programma’ ossia dalla piattaforma su cui sorge e raccoglie adesioni. […]
Tutte le ragioni che dimostrano come i comunisti dovessero lavorare nel seno dei sindacati unitari, ma al tempo stesso rompere l’unità del partito socialista immobilizzatrice della tendenza rivoluzionaria, stanno a dimostrare che non si poteva fare un utile lavoro nel seno degli Arditi del popolo, e che a un certo punto questi si sarebbero (bloccati) in una posizione tale da immobilizzare chiunque non disponesse di una organizzazione inquadrata indipendentemente, producendo una situazione analoga a quelle notissime di impotenza rivoluzionaria in cui il partito socialista per la ‘forza d’inerzia’ della sua tradizione di metodi e di organizzazione metteva non solo la minoranza di sinistra, ma perfino i capi di tendenza rivoluzionaria. Questa differenza di scopi su cui sorgeva l’organizzazione degli Arditi del popolo rispetto alla nostra consisteva nel loro obiettivo, comune a quello dei socialpacifisti, di arrivare a un governo che rispettasse la libertà di movimento del proletariato sulla base del diritto comune, evitando la fase della lotta contro lo Stato, anzi prendendo posizione contro chiunque turbasse la cosiddetta civile lotta d’idee tra i partiti. […]
La formazione degli Arditi del popolo non corrispondeva al risultato improvvisamente conquistato che il proletariato riuscisse a dotarsi di una organizzazione unitaria di lotta per rispondere adeguatamente alle provocazioni fasciste. L’organizzazione non muoveva dal basso, ma muoveva da un centro che tendeva a monopolizzare il controllo dell’unione proletaria. […]
L’opposizione degli Arditi del popolo coincise con l’interregno tra i gabinetti di Giolitti e Bonomi. Come essa non superò la prova della politica fascistica del secondo ed è sciocco dire che questo fosse dovuto alla non partecipazione dei comunisti, poiché la pratica sta a provare che casi di minore resistenza proletaria si ebbero dove i nostri per fretta o poca disciplina si erano messi sul terreno degli Arditi del popolo, e perché in ogni caso le forze dell’inquadramento comunista erano a disposizione per un’azione comune così nel caso di un ministero di colore nittiano si fosse formato, gli Arditi del popolo potevano divenire una forza illegale del governo legale, e non tanto per tenere a freno l’arbitrio delle bollenti squadre fasciste, quanto per intervenire quando domani fosse risultato che gruppi di proletari si organizzavano per provocare una azione rivoluzionaria contro lo Stato governato da ministero di sinistra e magari di collaborazione coi socialisti. Altri argomenti di ordine pratico sorgono dai casi di poca fedeltà di nostri alleati di vario colore in operazioni illegali, che convinsero praticamente il partito come in questa sfera le coalizioni non siano fattibili.

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