Nella storia del Primo Maggio la pagina più sanguinosa venne scritta nel 1947 a Portella della Ginestra. Il gruppo di Giuliano è in realtà uno squadrone della morte agli ordini dei Fasci di Azione rivoluzionaria (Far) di Pino Romualdi, delle Squadre Armate Mussolini (Sam) e della X Mas di Borghese. I documenti del controspionaggio Usa (ritrovati negli Archivi Nazionali di College Park, nel Maryland) rivelano contatti tra gli emissari di Salò e Giuliano fin dall’estate del 1944, quando un commando nazifascista inizia ad operare sulle montagne tra Partitico e Montelepre per addestrare militarmente gli uomini della banda. Ma il colpo di scena avviene a cavallo della fine della guerra: questa volta Giuliano non è più pagato per organizzare improbabili attentati contro gli alleati, ma, al contrario, per aiutare gli americani. Si comincia con le alleanze con la mafia ed i latifondisti agrari contro le prime forme di occupazione delle terre. Poi il rapporto con il controspionaggio americano diventa più “politico”. I neofascisti organizzati dovrebbero creare il casus belli di una insurrezione armata della sinistra, in modo da legittimare un golpe dei Carabinieri contro i comunisti di Togliatti ed i socialisti di Nenni. La strage di Portella della Ginestra, appunto. I gruppi fascisti vengono richiamati all’ordine e nel ’48, quando la DC vinse le elezioni, hanno l’ordine dagli Stati Uniti di rientrare nella legalità. Molti recalcitrano, Giuliano continua a fare il bandito sui monti dietro Palermo, ma ormai è stato mollato. Sapeva troppo e ormai va eliminato perché conosce la vera storia di quella strage di Portella e del piano golpistico. Pisciotta lo tradì, lui viene ucciso nella messa in scena che fu svelata benissimo dal film di Francesco Rosi Salvatore Giuliano.
Nel pianoro a metà strada tra i comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in provincia di Palermo, la festa del primo maggio 1947, a cui partecipavano migliaia di persone, fu interrotta da una sparatoria che, secondo le fonti ufficiali, causò 11 morti e 27 feriti. Successivamente, per le ferite riportate, ci furono altri morti e il numero dei feriti varia da 33 a 65. Prima i mafiosi e i partiti conservatori poi solo i banditi La matrice della strage appare subito chiara: la voce popolare parla dei proprietari terrieri, dei mafiosi e degli esponenti dei partiti conservatori e i nomi sono sulla bocca di tutti: i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste, l'avvocato Bellavista che durante la campagna elettorale aveva tuonato contro le forze di sinistra e a difesa degli agrari. I carabinieri telegrafano: "Vuolsi trattarsi organizzazione mandanti più centri appoggiati maffia at sfondo politico con assoldamento fuori legge"; "Azione terroristica devesi attribuire elementi reazionari in combutta con mafia" (ivi, p. 153). Vengono fermate 74 persone tra cui figurano mafiosi notori. All'Assemblea costituente il giorno dopo la strage Girolamo Li Causi, segretario regionale comunista, lancia la sua accusa: dopo il 20 aprile c'è stata una campagna di provocazioni politiche e di intimidazioni, durante la strage il maresciallo dei carabinieri si intratteneva con i mafiosi e tra gli sparatori c'erano monarchici e qualunquisti. Viene interrotto da esponenti dei qualunquisti e della destra e il ministro degli interni Mario Scelba dichiara che non c'è un "movente politico", si tratta solo di un "fatto di delinquenza" (ivi, p. 155). Una strage per il centrismo Nella storia d'Italia il 1947 è un anno di svolta e la strage di Portella ha avuto un ruolo nello stimolare e accelerare questa svolta, intrecciandosi con dinamiche che maturano a livello locale, nazionale e internazionale. Il 13 maggio si apre la crisi politica con le dimissioni del governo di coalizione antifascista presieduto da De Gasperi. Il 30 maggio a Roma e a Palermo si formano i nuovi governi: De Gasperi presiede un governo centrista con esclusione delle sinistre e alla Regione siciliana il democristiano Giuseppe Alessi presiede un governo minoritario appoggiato dai partiti conservatori, senza la partecipazione del Blocco del popolo, nonostante la vittoria alle elezioni del 20 aprile. Si apre così una nuova fase della storia d'Italia, in cui le forze di sinistra saranno all'opposizione. La svolta si inserisce nella prospettiva aperta dagli accordi di Yalta che hanno codificato la divisione del pianeta in due grandi aree di influenza, con l'Italia dentro lo schieramento atlantico egemonizzato dagli Stati Uniti e la guerra fredda come strategia di contrasto e di contenimento del potere sovietico. Alla ricerca dei mandanti La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell'ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l'ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l'archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963. Nel novembre del 1969 il figlio dell'appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l'esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contratto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l'assicurazione che sarebbe stato amnistiato (in Santino 1997, p. 207). Riferimenti bibliografici Baroni Paola - Benvenuti Paolo, Segreti di Stato. Dai documenti al film, Fandango, Roma 2003. da: "Narcomafie", n. 6, giugno 2005
da: Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Bompiani, 2005 I mortaretti della “festa” Il 1° maggio 1947 ebbe inizio come le feste dei santi patroni nelle ricorrenze che si celebrano nei paesi della Sicilia, quando anche l’aria è pervasa dall’attesa e improvvisamente i mortaretti rompono il torpore del sonno, annunciano all’alba il giorno che viene, col suo carico di preparativi, di speranze e di riti. Ma allora non c’erano santi da commemorare e il dio che si festeggiava era un dio pagano, al cui potere misterioso si dovevano immolare vittime innocenti utili a placare l’ira della divinità turbata dal suo stesso potere, dalla sua stessa anima in pena. A destarla fu forse una semplice consuetudine avviata al tempo dei fasci dei lavoratori da un medico di Piana degli Albanesi che nel 1893 era stato più volte arrestato per difendere libertà e socialismo dai vizi antichi di re e ricchi. Era Nicolò Barbato, apostolo della libertà, simbolo delle aspi razioni di quell’antica colonia del ’400 fondata dal condottiero albanese Scandeberg e divenuta, assieme alla Corleone di Bernardino Verro, una delle capitali delle lotte dei lavoratori nei latifondi. Fu quest’ansia, questo anelito, mentre nasceva la Repubblica, a svegliare il dio pagano dormiente e a trasformare Portella della Ginestra nel tempio del sacrificio. Processioni informali di intere famiglie si erano cominciate a snodare da San Giuseppe Jato, San Cipirello, Piana degli Albanesi, già dalle prime ore del mattino, quando a piedi, con i muli e i carretti, le bandiere rosse e quelle bianco-rosso-verde dell’Italia, contadini e artigiani, poveri e benestanti, giornalieri e mezzadri, si erano partiti dai loro paesi a valle, per risalire, attraverso antichi sentieri percorsi nel tempo, fino alla“Ginestra” (a Jnestra, come la chiamavano), al “sasso” di Barbato. Da qui il medico pianese dell’800, soleva parlare ai convenuti, predicando i diritti dei lavoratori. Anche quella mattina del 1° maggio 1947 la folla si era radunata in quel pianoro, per sentire parlare dei diritti calpestati dal fascismo e della nuova Italia democratica che a fatica si stava costruendo. Mentre gli oratori ufficiali tardavano ad arrivare aveva preso la parola, per intrattenere la folla, un calzolaio di San Giuseppe Jato, segretario della locale sezione socialista. Aveva parlato per alcuni minuti quando si udirono gli spari di alcuni mortaretti. Molti applaudirono pensando trattarsi dell’inizio di una festa popolare, ma ben presto la loro allegria si tramutò in tragedia. Prima cominciarono a cadere i muli che con i carretti facevano da siepe, come negli accampamenti indiani, poi, uno dopo l’altro, caddero i contadini, i bambini, le madri. Per quella strage senza precedenti (undici morti e ventisette feriti) le sentenze di Viterbo (1952) e di Roma (1956) condannarono gli uomini di Salvatore Giuliano, un ragazzo che a vent’anni aveva ucciso, forse per difesa personale, il carabiniere Antonio Mancino, tenendo quasi a battesimo così l’8 settembre ’43 e prendendo la via delle montagne. Solo che qui eravamo in Sicilia e le truppe alleate, già da un paio di mesi, avevano invaso l’isola cacciando le truppe italo-tedesche. L’analisi delle deposizioni rese all’epoca dai testimoni, l’acquisizione di nuove documentazioni medico-legali, ricerche archivistiche condotte in Italia e all’estero consentono ora di mettere in discussione la versione ufficiale dei fatti. Nelle settimane e nei giorni successivi all’eccidio, numerose persone (tra queste, i quattro cacciatori catturati dalla banda Giuliano sui roccioni del Pelavet, quella stessa mattina di fuoco) rilasciarono agli inquirenti dettagliate testimonianze sulla dinamica della sparatoria. Ma i giudici di Viterbo non ne tennero conto. Eppure non ne avrebbero dovuto fare a meno considerando che esse erano state tutte concordi e univoche su alcuni aspetti essenziali della dinamica dei fatti e cioè l’accerchiamento della folla e l’uso di armi solitamente non in possesso della criminalità comune (ad esempio le granate). Ascoltiamo, allora, questi testimoni perché ci aiutano a capire. Vincenzo Petrotta, 46 anni, segretario del PCI di Piana, agricoltore, a meno di ventiquattro ore dall’eccidio, dichiara al procuratore della Repubblica di Palermo, dottor Rosario Miceli, di aver visto una trentina di persone sulla montagna opposta a quella in cui era stato collocato Giuliano con i suoi uomini: si muovevano e sparavano. Il 3 maggio 1947, Giacomo Schirò, 39 anni, segretario della sezione socialista di San Giuseppe Jato, dice di avere avuto l’esatta sensazione che si era sparato non solo dalla Pizzuta (il versante in cui era la banda Giuliano), ma anche dalla Cometa, come era dimostrato dal fatto che tracce di proiettili si potevano notare “sulle pietre opposte la montagnola Cometa”. Certamente Schirò si riferisce al Cozzo Duxhait che si trova ai piedi del Cometa. Questo Cozzo presenta, sul versante interno, un antico viottolo che conduce, ancora oggi, alla masseria di Kaggio: la tenuta dei mafiosi del tempo nella quale, alla vigilia della strage si tenne un summit dei vari capifamiglia locali. In quello stesso giorno fu ascoltato Giuseppe Di Lorenzo, 32 anni, segretario della locale Camera del lavoro, muratore. Anche lui confermò che i colpi non provenivano solo dalla Pizzuta. A dimostrarlo stava il fatto che anche lui aveva visto, come lo Schirò, tracce di proiettili sui massi che guardavano la Cometa. Che non si fosse sparato soltanto dal Pelavet fu attestato l’indomani, da Giovanni Parrino, 42 anni, maresciallo dei carabinieri di Piana degli Albanesi. 441 Dopo la strage, Rosario Cusumano, testimone di 12 anni, fu portato a Palermo e sentito il 4 maggio. Anche lui riferì di avere sentito i “mortaretti.” È la stessa versione di Anna Guzzetta, 46 anni, di San Giuseppe Jato e di Vincenza Spadaro, 48 anni, dello stesso comune.442 Ma anche altri testimoni affermarono lo stesso particolare. Il 15 maggio 1947, Nicolò Napoli, 48 anni (“Di un tratto furono uditi gli spari. Dapprima ritenni trattarsi di fuochi artificiali, però poco dopo ho visto cadere uccisa sul colpo una donna”); lo stesso giorno Menna Farace, 17 anni, contadino ( “Ad un tratto abbiamo udito degli spari che provenivano dalle falde della Pizzuta. Ho guardato da quel lato ma non ho scorto nulla. Dapprima ho ritenuto trattarsi di mortaretti”); l’11 giugno, Pietro Tresca, 55 anni, di San Giuseppe Jato (“Mentre parlava Schirò Giacomo, abbiamo udito degli spari che dapprima furono ritenuti prodotti da mortaretti.”). Vincenzo Di Salvo (quattordicenne figlio di Filippo, una delle vittime) si trovava sotto il palco e, anche lui, udì i “mortaretti”.443 I mortaretti della festa. Se non fossero stati esplosi, la dinamica della strage sarebbe stata diversa e diversi sarebbero stati i protagonisti. La banda Giuliano, infatti, nella sua storia di assalti alle caserme, ai tempi dell’Evis, non aveva fatto uso di esplosivi a distanza. I banditi di Montelepre che abbiamo imparato a conoscere, a meno che non avessero seguito una scuola di sabotaggio, non avevano una, sia pur minima, conoscenza, della balistica. Non sapevano calcolare le parabole degli ordigni lanciati a centinaia di metri dai bersagli e non risultava neanche che avessero gli attrezzi adatti per compiere lanci ragguardevoli (500-600 metri). L’elenco delle armi è contenuto nel rapporto giudiziario del 4 settembre 1947, a firma dei marescialli dei Cc Calandra, Lo Bianco, Santucci. Manca qualsiasi riferimento ai lanciagranate o a strumenti simili, come i panzerfaust in dotazione a pochi gruppi paramilitari, ad esempio, i militi della Decima Mas. A questa organizzazione di Junio Valerio Borghese ci rimandano non solo le armi usate per la strage (moschetti 1891, e mitragliatore Breda mod. 30), tipiche di quei militi, ma la partecipazione stessa di alcuni siciliani e di qualche monteleprino in particolare alla scuola di sabotaggio nazifascista di villa Grezzana di Campalto.444 Forse per questo il capobanda e i suoi uomini furono messi in evidenza sullo scenario del Pelavet. Tanto che alcuni dei manifestanti ne sentirono il vociare tra i roccioni o li videro addirittura spostarsi da un masso all’altro prima ancora dell’inizio della strage. La “Voce della Sicilia” del 2 maggio uscì addirittura con una fotografia in prima pagina del costone del Pelavet, dov’era appostato Giuliano, mentre una freccia indicava l’esatta posizione dei banditi. Non erano passate neanche ventiquattro ore e cominciavano i misteri. Primo tra tutti il telegramma a Scelba con il quale l’ispettore Messana assicurava che la strage doveva essere attribuita a qualche elemento locale che aveva agito in “strette, inconfessabili relazioni” con Giuliano. Versione, questa, avallata subito dallo stesso ministro dell’Interno all’Assemblea costituente. Erano cominciati gli intrighi di palazzo nelle cui maglie cadranno molte vittime. Il particolare delle granate, alle quali accennano in mezzo rigo i giudici di Viterbo, ma soprattutto i testimoni, è un aspetto nodale per capire le finalità della strage. 445 L’uso di quegli ordigni (o come li chiamavano gli americani “bombe aeree simulate”) tendeva a disperdere la folla per meglio consentire ai gruppi che provenivano dal basso e anche agli altri che si trovavano appostati tra i roccioni, di operare in modo mirato con maggiore possibilità di riuscita. Faceva parte delle procedure da manuale. Se tutte quelle armi da guerra fossero state dirette fin dall’inizio sulla folla, quella mattina si sarebbe avuta un’ecatombe.446 L’attacco doveva essere portato al podio, al gruppo dirigente: un’operazione da commando paramilitare che si svolgeva in uno scenario concepito secondo un sistema di scatole cinesi. La banda di Giuliano era bene in vista. Vi erano poi gli uomini “invisibili” (i confidenti delle forze dell’ordine: Ferreri/Fra’ Diavolo e i fratelli Pianello) che non dovevano spuntare neanche nel rapporto giudiziario, cioè nell’atto di accusa degli autori della strage; in ultimo vi erano coloro che le voci popolari, quella mattina di tragedia, additavano genericamente evocando azioni di violenza e gli “americani”. 447 A suggellare l’operazione o, meglio, l’affare che ne sarebbe derivato per molti, naturamente, c’erano anche i mafiosi. Non potevano mancare. I boss locali stavano giocando una loro partita e non potevano consentire che altri la gestissero senza di loro. Caduti e feriti Il piano d’assalto su di una folla inerme di donne, bambini e lavoratori in festa dovette apparire a molti non proprio una bella trovata. Non lo fu anche perché pagarono il conto soprattutto bambini e ragazzi, madri e padri innocenti, famiglie in festa interamente decimate. Il numero più alto di vittime si ebbe tra coloro che si erano collocati più vicini al podio, verso il quale vi era stata una vera e propria convergenza di tiro, per colpire il bersaglio. Lo si desumeva dall’altissimo numero di morti e feriti che caddero attorno a quel punto. Lo stesso Giuliano, pochi minuti prima dell’attacco, era stato visto dai cacciatori sequestrati guardare ripetutamente, col binocolo, in quella direzione, ma appunto per questo, non è proprio detto che fu il suo Breda mod. 30, che si era usato durante la guerra a fare la strage. Il maresciallo Parrino era a pochi metri dal punto in cui s’era messo a parlare l’oratore. Vide cadere accanto a sé Margherita Clesceri, Giorgio Cusenza, e Giovanni Megna. All’incredulità e al terrore collettivo seguì un fuggi fuggi generale, tra urla di disperazione di madri che chiamavano i figli, di persone che cercavano un riparo nelle scarpate o nei cunettoni dello stradale, o dietro qualche roccia. Giovanni Grifò, dodici anni, di San Giuseppe Jato, era andato a comprare delle nespole nei mercatini improvvisati dalle Camere del lavoro; fece in tempo a raggiungere la madre per dirle che era stato colpito al fianco destro da un proiettile. Venne adagiato, con gli altri feriti, su un carro e quindi trasportato nel suo paese e poi a Palermo, dove morì in ospedale448 il 15 maggio. Sorte analoga toccò ad altri suoi compaesani: Vincenza La Fata, una bambina di nove anni, che morì sul colpo, Giuseppe Di Maggio, tredici anni, Filippo Di Salvo, quarantotto anni (morirà, dopo atroci sofferenze, il successivo 11 giugno). Si contavano, poi, gli altri morti, di Piana degli Albanesi: Francesco Vicari, Castrenze Intravaia, un ragazzo di diciotto anni, Serafino Lascari, Vito Allotta di diciannove anni. Undici morti. La furia criminale sembrava essersi abbattuta di più sui pianesi che avevano tardato ad arrivare, come se un cupo presentimento li avesse prima avvertiti. Sul terreno restavano ancora ferite ventisette persone: Giorgio Caldarella che perdeva la funzionalità dell’arto inferiore destro, Giorgio Mileto, Antonio Palumbo, Salvatore Invernale, Francesco La Puma, Damiano Petta, Salvatore Caruso (che resterà invalido a vita), Giuseppe Muscarella, Eleonora Moschetto, Salvatore Marino, Alfonso Di Corrado, Giuseppe Fratello, Pietro Schirò, Provvidenza Greco (che perderà l’uso della vista e della parola), Cristina La Rocca, Marco Italiano, Maria Vicari, Salvatore Renna (ferite anche per lui invalidanti), Maria Caldarera, Ettore Fortuna (che sarà costretto a rimanere per sei mesi a letto, con postumi invalidanti), Vincenza Spina, Giuseppe Parrino, Gaspare Pardo, Antonina Caiola, Castrenze Ricotta, Francesca Di Lorenzo, Gaetano Modica. Tutti, con una pietosa opera di volontariato, nei modi più improvvisati, furono condotti ai loro paesi di origine per ricevere i primi soccorsi, e da qui poi, con mezzi di fortuna o autocorriere a disposizione sul posto, furono trasportati all’ospedale della Filiciuzza di Palermo, dove giunsero nel primo pomeriggio. Alcuni di questi feriti, come Vincenza Spina, moriranno in seguito a causa delle lesioni riportate. Ma nessuno ha mai fatto un calcolo dei morti in conseguenza dei danni irreparabili subiti durante la strage e anche a causa dell’assoluta mancanza di una qualsiasi forma di soccorso da parte delle ambulanze dei vari ospedali, che rimasero totalmente inerti. Note 440 Cfr. Portella della Ginestra cinquant’anni dopo. Documenti, a cura di G. Casarrubea, Roma, Salvatore Sciascia editore 1999, volume II, pp. 29-66, allegato n. 4 (pubblicato su iniziativa di P. Manali). Le testimonianze riportate in questo paragrafo sono contenute nel vol. suddetto. “Posso assicurare – dichiarava il testimone davanti alla Corte – che tanto dalla montagna Pizzuta che dalla Cometa sparavano con le mitragliatrici. Sentii inoltre che si sparava pure con mitragliatrici da un terzo posto e cioè dalle falde della stessa montagna Cometa, che digradano verso la galleria non molto lungi dalla diga del lago. [...] So che due ragazzi di San Giuseppe Jato, che erano venuti insieme ieri con gli altri, videro nei pressi della galleria, di cui sopra ho fatto cenno, due persone che portavano addosso una mitragliatrice ciascuna. Essi erano stati allontanati dalla diga, verso cui erano diretti, da un uomo in maniche di camicia e con baffi che, qualificandosi per custode, aveva detto che in quei pressi non si poteva stare.” 441 Cfr. Cav, verbale di continuazione di dibattimento, teste Giovanni Parrino, 13 giugno 1951, cartella n. 4, vol. V, n. 3, f. 382, retro. “Egli [Giacomo Schirò, N.d.A] iniziò il suo discorso dicendo che finalmente si ritornava alla vecchia consuetudine di festeggiare il 1° maggio ed aveva aggiunto altre poche parole quando si udirono alcuni spari, che io e gli altri percepimmo come spari di mortaretti. [...] Anche sulla montagna Cometa vidi persone, ma non posso stabilire se fossero pastori o banditi.” E ancora: “I primi colpi non furono neppure da me avvertiti, o almeno non li intesi passare sulla testa, e quindi penso che avessero avuto una direzione verso l’alto. Non posso dare spiegazione come mai i primi colpi non avessero raggiunto il podio, perché era naturale che si volessero colpire quelli che erano attorno al podio, che dovevano essere le autorità.” 442 Rispettivamente dissero: “Il signor Schirò salì sul podio che è al centro della radura ed aveva pronunciato poche frasi per commemorare la giornata, quando si udirono raffiche di spari. Si credette trattarsi di spari di mortaretti o razzi (“carrittigghi”), ma le raffiche si ripeterono e la gente cominciò ad essere colpita e a cadere al suolo”. “Ad un tratto abbiamo udito degli spari, che da prima furono ritenuti prodotti da mortaretti.” 443 Cfr. dichiarazione resa all’autore nell’aprile 1998. 444 L’elenco delle armi in uso durante il fascismo lo troviamo in una pubblicazione del Comando generale della gioventù italiana del Littorio, edita, nel 1940 a cura dell’Opera di Previdenza Mvsn, Il premilitare. 445 Cfr. La strage di Portella della Ginestra, a cura di G. Casarrubea, vol. III, Documenti, Sentenza di Roma del 10 agosto 1956, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia editore, 2001, allegato n. 6. 446 Cfr. ibidem 447 Per quest’aspetto mi permetto rinviare ai seguenti miei lavori: Portella della Ginestra, cit.; G. Casarrubea, Fra’Diavolo e il governo nero, cit., nonché ai voll. II e III di Documenti editi dalla casa editrice Sciascia di Caltanissetta nel 1999, e nel 2001 a cura della biblioteca comunale di Piana degli Albanesi, diretta da Pietro Manali. 448 Cfr. Agca, Tpui, Esame di testimonio senza giuramento. Testimone Vincenza Spadaro, madre del Grifò, ucciso. 15 maggio 1947. Cart. n.1, vol. D. ff. 107-108.
v. anche il sito della fondazione di vittorio |