Marco Vichi
Avendo letto Morte a Firenze in un momento particolarmente confuso, l'impressione è stata pessima: prolisso, manierato, banale.
Poi la figlia fiorentina insiste, e dopo qualche anno ecco le necessarie scuse a Vichi.
Bordelli (e ci perdoni Véronique) come nome continua ad essere sgradevole, e come sbirro è un po' troppo indolente, e affannato di ricordi, e affamato. Il suo antifascismo è piuttosto improbabile negli anni che precedono e preparano la strategia della tensione (con il golpe progettato da Segni e De Lorenzo) e in cui Bordelli sarebbe stato a capo di uno sperduto commissariato di provincia. La sua amica ex prostituta richiama il cliché delle puttane dal cuore d'oro, rare davvero in quel mondo miserabile e triste. Bordelli ci porta in giro per Firenze e dintorni al pari di una vecchia guida, come se delitti e misteri dovessero abitare solo in borghi e stradine impregnati di storia e fascino, quando il crimine tende invece verso zone degradate o attici direzionali.
E talvolta certe descrizioni (stati d'animo, ricordi, quotidianità) sono prolisse.
Insomma, i difetti non mancano al Vichi, che però quando parla di Firenze sa di cosa parla, e lo fa con quella semplicità che Brecht diceva essere "difficle a farsi." Assolutamente condivisibile il suo fastidio per il fiorentinismo (v. l'intervista più sotto), che fra l'altro lo porta a evitare qualsiasi concessione alla parlata toscana.
Delitti e misteri incrostati nella quotidianità di sofferenze e umiliazioni, di piccole e grandi avidità, di astuzie e ingenuità.
E un'Italia che Vichi non ha vissuto, essendo nato nel 1957, ma che ha visto comunque con memoria vigile e occhi attenti (e gli sarà costata non poco fatica).
E un'infinità di citazioni, riferimenti, intrecci con altri personaggi, sempre amministrati copiosamente, ma con discrezione, quasi con pudore.
Sostiene Camilleri: "Bordelli è un eroe disilluso ma assolutamente autentico nelle ragioni del suo esistere. Un uomo che riconosci come vero e che non è facile dimenticare."
Insomma, nell'ormai fin troppo affollato panorama di investigatori italiani, una presenza - seppur lontana nel tempo - intelligente, disegnata con cura e agilità, amica.
Altro?
Altro.
serie del commissario Bordelli
- Il commissario Bordelli, Guanda, 2002; Tea, 2004 (ambientato nel 1963)
- Una brutta faccenda, Guanda, 2003; Tea, 2005 (ambientato nel 1964)
- Il nuovo venuto, Guanda, 2004; Tea, 2006 (ambientato nel 1965)
- Perché dollari?, Guanda, 2005; Tea, 2007 (ambientato nel 1957)
- Morto due volte, Guanda, 2006; Tea, 2008 (ambientato nel 1958)
- Morte a Firenze, Guanda, 2009; Tea, 2011 (ambientato nel 1966)
- La forza del destino, Guanda, 2014; Tea, 2014 (ambientato nel 1967)
- Fantasmi del passato, Guanda, 2014; Tea, 2015 (ambientato nel 1967)
- Nel più bel sogno, Guanda, 2017 (ambientato nel 1968)
- L'anno dei misteri, Guanda, 2019 (ambientato nel 1969)
- Un caso maledetto, Guanda, 2020 (ambientato nel 1970)
- Ragazze smarrite, Guanda, 2021 (ambientato nel 1970)
- La casa di tolleranza. Tre avventure del commissario Bordelli, Guanda, 2021 (ambientato nel 1949, 1958, 1966)
- Non tutto è perduto, Guanda, 2022 (ambientato nel 1970)
- Nulla si distrugge, Guanda, 2023 (ambientato nel 1970)
- Meglio di niente, Guanda, 2024 (ambientato nel 1970)
il suo sito
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Emiliano Gucci
Intervista a Marco Vichi |
Firenze è sempre stata protagonista nella tua produzione letteraria, dal fulminante esordio con il romanzo L’inquilino alla fortunatissima serie de Il commissario Bordelli, fino a numerosi racconti in cui non perdi occasione per ritrarne la faccia più oscura, il lato nero di quella cartolina idealizzata in tutto il mondo. Comincio quindi con la domanda più ovvia: che rapporto hai con la tua città? E intendo tu come autore, ma anche come uomo.
Firenze è come una bella donna che si fa corteggiare ma non si concede mai. Questo la rende enormemente affascinante, anche perché la sua avvenenza non si può mettere in discussione. Ci sono nato e cresciuto, anche se da più di trent’anni abito sulle colline del Chianti. Forse proprio perché ci vivevo, ho scoperto la sua vera bellezza poco a poco, avventurandomi tra le sue opere come l’erede di un grande castello che un bel giorno decide di esplorarlo. È una piccola grande città che non smette mai di commuoverti, di stupirti. Sarebbe ancora più bella se non fosse stata violentata dalla speculazione edilizia e da una certa politica negli ultimi anni dell’Ottocento, che hanno spazzato via il suo centro medievale per edificare un pezzo di Torino tra il Duomo e Palazzo Vecchio. Per adesso ho parlato della Firenze che si vede e si tocca, dei suoi marmi e delle sue pietre, dei quadri e delle sculture, delle chiese, dei palazzi, delle strade e delle piazze, dei selciati, dei vicoli dove non arriva quasi mai il sole, degli scorci inaspettati, dell’atmosfera che si respira tra le opere dei geni che ci hanno vissuto e lavorato.
Poi però ci sono i fiorentini (ma potrei dire il fiorentinismo), che non sempre riesco ad apprezzare. È stato così fin da quando ero bambino. Mi piacciono quando usano l’ironia, e l’autoironia, per non lasciarsi schiacciare dalle sventure, per liberarsi con eleganza dallo sconforto. Non mi piacciono quando si lasciano trascinare dal sarcasmo fine a se stesso, quando si vergognano dei sentimenti migliori, quando “per una battuta sono disposti a perdere un amico”, quando si compiacciono di perseguitare vigliaccamente chi non può difendersi, magari in dieci contro uno, o quando hanno l’aria di chi sa tutto solo perché sono “nati a Firenze”. Insomma non è facile crescere in questa città, ma per chi riesce a sopravvivere è un’ottima scuola di vita.
Per quanto mi riguarda, mi piace pensare di aver sviluppato gli anticorpi contro il fiorentinismo più deteriore perché sono un bastardo: una nonna veneta, una lucchese, un nonno sardo e l’altro fiorentino. Questa “varietà” mi ha dato modo di confrontare e di scegliere fin dall’inizio.
Ma a parte tutto questo, ultimamente ho avuto la sensazione che Firenze stia cominciando a svegliarsi. Ha un lungo cammino davanti a sé, e potrebbe fare grandi cose. Spero solo che non spenga la sveglia per poi rimettersi a dormire.
Come autore la uso a più non posso, perché la conosco bene e perché ho sempre la sensazione di non conoscerla per niente.
Il commissario Bordelli si muove negli anni Sessanta, in una città che ricostruisci minuziosamente nelle sue geografie ambientali e umane, pagine in cui tessuto urbano e personaggi sono indistricabili. Sembra ti basti questo per alimentare nel lettore (almeno in quello fiorentino) una sorta di nostalgia che lo indurrebbe a non uscire più dalla finzione piuttosto che tornare nella Firenze attuale, mezzo secolo più tardi, dove tutto è cambiato eppure appare identico a se stesso. Ti chiedo se questo è un pensiero che può valere in qualsiasi città o se qua il tempo abbia per te un valore particolare; se corra più velocemente o più lentamente che altrove, e perché.
Non è facile rispondere, anche perché sono convinto che a dominare la nostra interpretazione del mondo è l’immaginario. Ognuno ha la sua percezione del presente e del passato, della città in cui vive, degli altri, di se stesso, cioè di ogni cosa, e inoltre questa percezione cambia con il passare del tempo, con l’età che avanza, è influenzato da quello che abbiamo vissuto e viviamo, dalla nostra tendenza a mitizzare certi ricordi legati a epoche in cui ci sentivamo giovani e belli: insomma troppe variabili per poter trovare un “pensiero” unico e obiettivo. Ma ovviamente è normale che Firenze sia cambiata, così come è cambiato il mondo intero. Se sia cambiata in peggio o in meglio non è possibile stabilirlo in senso universale, dipende da come ognuno si adatta a ciò che lo circonda, come sempre. Un novantenne o un ragazzino di quindici anni vivranno la stessa Firenze in modo del tutto diverso, è inevitabile. Fin dai tempi di Omero si continua a dire “ai miei tempi il mondo era migliore”. La nostalgia, come accennavo prima, è spesso legata alla giovinezza, più che alla realtà delle cose. L’immaginario guida ogni nostro pensiero, esserne consapevoli aiuta a districarsi nel garbuglio dei sentimenti e a conoscersi un po’ meglio.
Firenze è cambiata come è cambiato il mondo intero. Eppure dalla tua idea di letteratura si può dedurre che per raccontarlo, il mondo, non necessariamente sia obbligatorio girarlo, vederlo, viverlo. Tiriamo ancora in ballo l’immaginario, o forse qualcos’altro? Ricordo di averti sentito elogiare Kafka, per la sua America mai visitata, e di averti sentito dire, in merito a Beppe Fenoglio, “non è mai uscito dalle Langhe piemontesi, eppure ha raccontato L’Uomo”. È così? Si può attraversare il tempo e lo spazio, in solitudine, scrivendo rinchiusi nella propria grotta?
Sì, i grandi scrittori riescono a viaggiare stando seduti al loro tavolo, e di conseguenza fanno viaggiare i lettori, sia in mondi lontani, sia nelle profondità dell’animo umano. Insomma sono capaci di creare una sorta di “transustanziazione letteraria” (mi si passi il paragone), in cui la parola diventa la realtà che racconta, una parola capace di farci vivere vere esperienze sentimentali indimenticabili, che nella memoria hanno lo stesso peso e la stessa consistenza della vita cosiddetta vissuta. L’importante non è viaggiare fisicamente (molte persone viaggiano molto senza per questo arricchirsi interiormente), ma viaggiare nella conoscenza, cioè avere uno sguardo sensibile, capace di leggere l’uomo e il mondo, e riuscire a mettere in relazione ogni nuova scoperta con tutte le altre che già abbiamo fatto. È il modo di “guardare”, non cosa si guarda, a farci avanzare nella conoscenza.
I romanzi sono sguardi sul mondo, sono occhi presi in prestito dagli scrittori per guardare ogni cosa in modo nuovo, che poi paragoniamo al nostro. Per questa sorta di magia, anche storie di piccoli uomini che si dibattono tra piccole sofferenze in piccoli villaggi sperduti in luoghi che forse non vedremo mai (penso ad esempio al grandissimo Cechov) possono essere universali.
I romanzi sono vite che viviamo, perché una sola non può bastarci.
Come autore usi Firenze “a più non posso” e ovviamente non sei stato il primo a farlo. Ti chiedo quindi un tuo pensiero su quegli scrittori che in passato hanno stretto con questa città un legame indissolubile: chi senti più vicino, chi ti ha fatto da guida eccetera.
Lasciamo da parte Dante, che con Firenze ha davvero un legame indissolubile, e molto amaro. Di lui mi sono cibato per anni in gioventù, fino ad arrivare a pensare in endecasillabi.
Venendo a tempi più recenti, devo dire che non ho “frequentato” molto gli scrittori fiorentini del Novecento, come ad esempio Pratolini, che conosco pochissimo (rimedierò, mi dico sempre).
Ma l’autore toscano contemporaneo - anche se aveva il padre tedesco e la mamma milanese - che mi ha colpito più in profondità è certamente Curzio Malaparte. Il suo cinismo è solo un luogo comune del tutto sbagliato, che i più continuano a ripetere senza nemmeno averlo letto (un po’ come quando si dice che Leopardi era un pessimista, che è un’assurdità). Malaparte non è cinico, ma esprime invece una profonda sofferenza nei confronti di quanto possa l’uomo essere abietto e meschino, ci comunica la sua infinita commozione per il dolore degli abbandonati, a volte per contrasto, raccontando la viltà sbruffona dei potenti, che altro non sono se non i deboli che sono stati capaci di sopraffare le masse con speranze illusorie.
Malaparte ha visto il peggio dell’uomo, soprattutto durante la Seconda Guerra (un torchio, la guerra, che spreme gli uomini tirandone fuori la vera essenza), e la sua indole lo spinge a non risparmiare al lettore quelle verità. La pelle e Kaputt sono libri che non lasciano in pace il lettore, che scavano un profondo solco nella nostra memoria. Malaparte ha preso il meglio di D’Annunzio (e non è poco), lo ha fatto suo, lo ha ingerito e digerito, per poi restituirlo sotto forma di parole prettamente sue. L’estetismo quasi freddo di D’Annunzio, in lui diventa rovente passione, ironia dolce e spietata, uno strumento per portare alla luce le storie umane, grandiose o misere. La sua voce è tagliente e precisa, oppure sognante e allucinata, quasi sempre sofferente. Le sue pagine sono intrise della fiera rassegnazione di chi sa che può solo raccontare, senza la pretesa di cambiare le cose o di insegnare. Lui lo sa che i suoi racconti sono terribili, e si scusa per questo, ma non può fare a meno di farci vedere come stanno le cose.
Posso dire che Malaparte è per me una guida, un maestro, ma irraggiungibile.
Giù il cappello. E se per chiudere dovessi farci fare qualche passo, in città, magari a braccetto con il tuo commissario Bordelli, o con altri protagonisti dei tuoi testi, dove ci porteresti?
Ci sono zone di Firenze che Bordelli ama particolarmente, e casualmente anche io: ad esempio la collina dove sorge la chiesa più bella del mondo, San Miniato al Monte, dove il santo dopo essere stato decapitato, intorno al 250, durante la persecuzione dell’imperatore Decio, si avviò con la testa sotto il braccio. Questa facciata magica e geometrica, costellata di simboli mistici, è bella da tutte le distanze, sia standoci sotto, sia a guardarla da giù, dal centro della città. È una specie di miracolo architettonico, realizzato quando ancora gli artisti non si firmavano. In cima, al posto della consueta croce, ecco spiccare un’aquila che stringe un panno fra gli artigli, simbolo dell’Arte di Calimala (corporazione dei mercanti di lana), che finanziò la parte superiore della facciata e poi si occupò della manutenzione della basilica. È bello guardare Firenze da lassù, più alti del Piazzale Michelangelo. Ma ho anche un legame personale con questo luogo: nel bel cimitero della Porta Santa riposano molti dei miei avi, e giù dalle sue mura fortificate, sul dietro, nel Giardino delle Rimembranze (ogni cipresso è un caduto fiorentino della Grande Guerra) c’è una scultura in bronzo di un altro avo, Angiolo Vannetti. In quel cimitero, proprio nella zona sopraelevata dove sono seppelliti i miei bisnonni e trisnonni, comincia uno dei racconti brevi di Bordelli, Morto due volte, dove il commissario legge su una lapide un nome che gli sembra di aver già letto sulla tomba di un altro cimitero.
Un altro luogo è invece giù in città, a un passo da Ponte Vecchio, ma non ci passa quasi nessuno: si tratta della via dei Girolami, con le sue due volte che creano una specie di “effetto chiostro”, e dove fino a qualche tempo fa esisteva l’ultimo vespasiano. Anche in quella strada comincia un racconto, scritto molto tempo fa e pubblicato solo da qualche anno, Buio d’amore, una storiella tra il cupo e l’allegro dove si palesa il demonio. E proprio dove il protagonista e il demonio si siedono a parlare, cioè in via dei Georgofili, subito girato l’angolo, venne poi messa l’odiosa bomba della mafia nel ’93.
Un’altra strada dove mi trovo bene è via San Leonardo, forse la più bella di Firenze, la campagna in città, oliveti nascosti dietro ad antichi e alti muri, dietro i quali immaginiamo grandi ville e giardini misteriosi. Mi piace percorrerla camminando in salita, maledicendo ogni macchina che passa, sbirciare dalle fessure dei cancelli, alzarmi sulla punta dei piedi per scorgere un tetto o una finestra, sentire in lontananza il brusio della città. E quasi in cima immagino Ottone che piazza il cavalletto in strada e si mette a dipingere quei muri torti.
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