Margaret Millar Non è sempre facile riconoscere un innovatore nel campo della letteratura popolare, una persona che crei un nuovo stile e un nuovo modo di vedere il mondo, o muova i primi timidi passi nell'esplorazione di un territorio sconosciuto e spinga altri a emularla.
Lei ha detto una volta che il suo libro preferito è Cercatemi domani, sarò morto (GM 1489). Credo proprio di sì. È un libro ben orchestrato. Come se l'è cavata dovendo ambientare il romanzo in Messico, un paese in cui lei non è mai stata? Ho fatto parecchie ricerche. Nel caso di Baja, in California, avevo delle mappe che indicavano persino l'ubicazione di ogni singolo albero. Mi piacerebbe tanto che quei giorni tornassero di nuovo, così potrei rivedere le mappe di cui le parlavo. Conosco un mucchio di messicani, tra l'altro; e poi, qui a Santa Barbara, in fondo siamo tutti mezzi messicani. Gli vogliamo molto bene. Il titolo del libro che lei preferisce sembra simboleggiare in qualche modo la sua intera opera. È una delle citazioni più interessanti che lei abbia mai fatto da Shakespeare (Cercatemi domani e mi troverete nella tomba), perché è sia tragica che comica. In questo caso, la userò come epitaffio. L'umorismo gioca una parte importante nei suoi libri. Come riesce a gestirlo? Molto semplicemente. Credo che i bambini, i cani e le cose del genere siano molto vicini al mio cuore... e anche molto divertenti. Le cose che fanno rivelano la loro meravigliosa ingenuità e semplicità. Sa come guardano i bambini, no? L'altro giorno, una ragazzina mi ha rivolto un'occhiata piuttosto curiosa. Io non sono grassa, ma purtroppo sono vecchia. Vedendo il costume da bagno che avevo indossato in piscina, lei mi ha chiesto: "Ma che razza di costume ti sei messa?". "Be'" ho risposto io "è un costume da vecchi." E lei ha detto: "Ah". Nessun altro commento. Ma in fondo, era proprio quello che voleva sapere. E ha ottenuto la sua risposta. Un episodio sia umoristico che pieno di verità. Mi fa venire in mente un brano di Ring Lardner. Non so se ricorda, ma c'era un ragazzine che continuava a fare un mucchio di domande a una certa persona, finendo per diventare una sorta di peste. La frase successiva era qualcosa del genere: 'Chiudi il becco' spiegò quella persona". Fantastico, non trova? Torniamo agli inizi della sua carriera. Il suo primo libro, The Invisible Worm, è stato pubblicato nel 1941. Che tipo di romanzo era? Una cosa piuttosto leggera. E con un mucchio di omicidi. Ce n'erano davvero tantissimi. Si collocava nel filone del giallo classico? Non saprei. No. Io ho una vena tutta mia. Buona o cattiva che sia, è mia. Cerco sempre di fare qualcosa di diverso. E, come una volta ha notato Agatha Christie, ho scritto sempre libri diversi. Cosa che considero un gran complimento. Com'era quel periodo della sua vita? E come le è capitato di riuscire a venir pubblicata? Era una vera maledizione divina, perché quando ho cominciato a scrivere passavo le mie giornate a letto. Soffrivo un po' di cuore, a quei tempi. Ricordo che Ken mi portava una quarantina di libri per volta dalla biblioteca. Praticamente, non facevo altro che leggere. Ci eravamo sposati nel 1938 e avevamo avuto una bambina, in quel periodo. Non l'hanno mai guardata stranamente in famiglia, quando ha comunicato ai suoi genitori che aveva deciso di intraprendere la carriera di scrittrice? No, hanno sempre saputo che ero un genio (risate). Davvero. Mi hanno allevata come se fossi un genio. Solo che non sapevano a cosa mi sarei dedicata. Io scrivevo parecchio da ragazza, soprattutto poesie. Credo che la maggior parte degli scrittori in erba cominci con le poesie. Sono così brevi... Che cosa l'ha portata verso il mystery e la suspense? Mio fratello, non c'è il minimo dubbio. Avevo due fratelli più anziani di me, rispettivamente di sei e di otto anni, che portavano a casa ogni sorta di riviste. Alcune di quelle riviste, specialmente i pulp magazines, oggi non escono più. Cose come Black Mask e via dicendo. Detective Fiction Weekly era la mia rivista preferita. Ricordo che leggevo con piacere i racconti di Eric Stanley Gardner. I miei fratelli avevano l'abitudine di nascondere le riviste sotto i materassi, ma una bazzecola del genere non è certo in grado di fermare una ragazzina di dieci anni che è disposta a tutto. Così leggevo tutto quello che leggevano anche loro. Ken ha sempre scritto e, naturalmente, anche lui leggeva parecchio. La sua maggiore ambizione era di leggere tutti i libri della biblioteca pubblica, e credo che prima o poi ce l'avrebbe fatta. Dal canto mio, ricordo che non leggevo molti libri in quel periodo. Nemmeno gialli. Ma credo che fosse un'età molto tenera. Conoscevo a memoria tutta la pubblicità sui pulps prima ancora di sapere come nascevano i bambini. Lei ha pubblicato molti straordinari romanzi negli anni Cinquanta, eppure quella decade sembra essere stata dominata dagli scrittori al maschile. Come ci si sentiva a essere una scrittrice di gialli negli anni Cinquanta? Benissimo. Mi trovavo stupendamente in quegli anni. Direi che, come principio, non ho mai prestato molta attenzione a quello che facevano gli altri. Avevo le mie cose da fare e il mio modo di scrivere, che rispettavo giorno dopo giorno. Ricordo che lavoravo sodo. Ero una terribile perfezionista riguardo a qualsiasi cosa. A volte, capitava che passassi un'intera giornata a limare una frase. Se non mi suonava bene, ci lavoravo tanto finché non riuscivo a modificarla. Aveva ritmi precisi? Io sono una persona a cui piace lavorare di mattina. Ken, invece, prediligeva il pomeriggio. Non ha mai avuto l'impressione di infrangere alcuni ruoli femminili che erano diventati ormai stereotipi, dato che gli anni Cinquanta pare siano stati quelli in cui la donna si è imposta soprattutto come casalinga? Mio Dio... Odiavo quella parola. E la odio ancora adesso. Tutti si informavano su quello che facevo e cercavano di collaborare. Tranne mio padre, che era un po' perplesso. Se non ricordo male, c'era un libro che l'aveva quasi sconvolto. Mi pare che mi abbia domandato: "Ma sei proprio certa di voler scrivere un intruglio del genere?". Una torre per il profeta (Classico del Giallo n. 656) è forse il suo libro che la maggior parte della gente predilige. Sì, è vero. L'ambientazione è reale; si basa su posti che esistono davvero. Un mio giovane amico insisteva perché scrivessi un giallo che avesse come sfondo quei posti in cui lui si era imbattuto. Non faceva che girare in lungo e in largo per tutto il paese, quel ragazzo. Aveva risalito le montagne guidando per strade davvero incredibili. Sa quelle dove bisogna tenere le mani costantemente sul volante, se non si vuole finire in un burrone? Un bel giorno, ha rimorchiato Ken e me e ce ne siamo andati tutti e tre a vedere quel posto assolutamente incredibile che dava sul mare da un lato e sul lago dall'altro. Con quella torre che sorgeva lì in mezzo. Cadeva a pezzi, tanto era stata dimenticata dall'incuria. E lì intorno, una sporcizia incredibile. Vetri, tubi contorti e oggetti vari sparsi dappertutto. Ho deciso subito che poteva essere lo sfondo ideale per un romanzo. Piuttosto stranamente, Ronald Reagan si è trasferito lì vicino, in seguito. Perciò non era una cattiva ambientazione per un culto religioso. Speravo solo che lui non stesse pensando di fondarne uno, altrimenti mi avrebbe chiesto di farne parte. Forse aveva già cominciato a fondarlo, in un certo senso. Sì, lo so. E ha avuto un adepto, che però non ero certo io. Ha mai parlato delle proprie idee con suo marito? No, abbiamo sempre cercato di evitarlo. Quando ero a Hollywood, ho visto un mucchio di tizi che andavano in giro a spifferare a destra e a manca quello che stavano scrivendo o che avrebbero scritto. Poi scoprivo sempre che non ne facevano niente. Avevano come perso il mordente. Avendo parlato di un intreccio per un loro particolare romanzo, non trovavano più gusto nello scriverlo. E non provavano più alcuna necessità, nel processo creativo. Così Ken e io abbiamo preso l'abitudine di starcene ben zitti. Lui non mi diceva mai più di quello che gli dicevo io. E se si impantanava in qualche punto della stesura, non potevo neppure aiutarlo, perché lui era un critico nato. Ha fatto il critico prima ancora di fare il romanziere. Un bel giorno, ha letto un mio libro e ha detto: "È grande, davvero, MA...". Il grande "MA". La mia vita è sempre stata attraversata da un mucchio di "ma". Comunque, facevo quasi sempre quello che mi diceva lui, perché nutrivo un grande rispetto per le sue opinioni. E lui lo sapeva. Che cosa l'aveva portata fino a Hollywood? Stavo lavorando a una sceneggiatura di Sapore di paura (GM n. 1967) che poi è stata venduta alla Warner Brothers. Eravamo nel 1947. Ricordo che c'era anche Ronald Reagan, un'altra volta. E poi Errol Flynn. La mia segretaria si mise a flirtare con la guardia del corpo di Errol Flynn, e questo mi ha consentito di frequentare gli ambienti del famoso attore. Non ho mai considerato molto le sceneggiature cinematografiche. A me piace scrivere dialoghi, e credo che avrei potuto continuare all'infinito. Ma andavo così velocemente che qualcuno mi mise in guardia. Vai più piano, mi dicevano, non puoi continuare a scrivere con quel ritmo. Volevo tornarmene a casa. Eppure, non avevo dubbi sul fatto che avrei potuto scrivere una sceneggiatura in quattro settimane, perché la vicenda era già perfettamente delineata. Lei ha vissuto ad Ann Arbor per qualche tempo. Le piaceva abitare in una città universitaria? Lo detestavo. È lì che ho ambientato II segreto di Virginia (GM n. 2226), un romanzo in cui l'ambiente universitario è trattato persino con troppo riguardo. Credo di non essere il tipo della moglie accademica. Sa quelle che se la tirano da morire, no? Io non ero affatto una ribelle allora, ma non ci tenevo per nulla a confondermi con quello sciocchezzaio. Ken faceva l'assistente universitario e la cosa mi andava bene, ma neanche lui aveva un debole per la vita accademica. In realtà, quando ha ottenuto il dottorato non ne ha fatto niente. Credo che fosse importante per lui conseguirlo, ma non ha mai permesso a nessuno di chiamarlo "dottore". Una torre per il profeta e altri suoi libri mi fanno venire in mente le opere di Flannery O'Connor. Questo è il complimento migliore che potesse farmi. Crede che i suoi libri siano diversi da quelli degli scrittori "seri" o ufficiali? No, non c'è molta differenza, A parte il fatto che io sono etichettata come giallista e loro no. Lei lavora con dei personaggi che sono "diversi", che sono ai margini della società. Credo che questi tipi sociali siano i suoi personaggi più riusciti. Lo credo anch'io. Ne ho conosciuti tanti... Non so perché, ma per qualche ragione Ken e io facevamo spesso amicizia con personaggi del genere. Forse ciò avveniva perché loro vedevano in noi una coppia felicemente sposata e volevano in qualche modo venire adottati da Ken e dalla sottoscritta. Così avevamo per amici pescatori di aragoste e una gamma sociale che comprendeva un po' tutti. Qualche volta, andavo in centro città e mi mettevo a curiosare tra i banchi di pegni. Mi divertiva osservare la gente che andava là e le cose che venivano impegnate. Si potrebbero scrivere dieci intere trilogie su un semplicissimo banco di pegni. Sono talmente interessanti... Naturalmente, Ken e io non abbiamo mai scritto sulla stessa persona. Anche se avessimo cominciato dalle stesse premesse e dagli stessi personaggi, avremmo finito per scrivere libri completamente diversi. Non ci sarebbero venuti uguali neppure se lo avessimo voluto. Uno dei personaggi che preferisco nei suoi libri è quel ragazzina di Mermaid che mangia a più non posso e fa sempre lo sputasentenze. Lui è un tipo buffo, eppure quello che gli succede è davvero tragico. È tragico quello che capita a tutti. Cosa ne pensa di uno dei suoi romanzi, The Fiend? Oh, mi è piaciuto scriverlo. In effetti, credo di aver detto qualcosa di simile a ogni libro che abbiamo menzionato nella nostra conversazione! Mi ha sempre interessato il discorso delle molestie sui bambini. E le fissazioni che tipi come Charlie hanno su di loro. È quasi impossibile vincere fissazioni del genere. Comunque, non volevo scrivere qualcosa di troppo sgradevole. Anche se è un personaggio a suo modo diabolico, Charlie è qualcuno che almeno si può capire. Il rapporto tra lui e sua madre è stato molto triste. La perdita della vista ha modificato il suo modo di lavorare? Oddìo... lei ha tirato in ballo un argomento molto sgradevole per me. Perché se c'è qualcosa che interferisce con il processo della scrittura, questo è proprio la perdita della vista. Sono sempre stata abituata a scrivere a mano, proprio come Ken. Non mi capitava mai di fermarmi per pensare a quello che avrei dovuto scrivere dopo. Ma adesso sono stata costretta a usare una macchina da scrivere. Batto tutto a macchina, poi cerco di ingrandire in un modo o nell'altro quanto ho scritto usando un apparecchio speciale e vi apporto le necessarie correzioni. Quindi scrivo tutto da capo e porto il materiale da un copista. Ma le continue interruzioni e la paura che quella maledetta macchina non funzioni come dovrebbe quasi mi uccidono, perché... be', credo che le macchine mi odino. Mi guardano e dicono: "Eccola che arriva! Diamole una bella lezione!". Difatti si rompono sempre, e io sono costretta a perdere un mucchio di tempo. Non potrebbe assumere una segretaria? Non sopporto di avere una persona del genere per casa. Mentre continuo a lavorare, riscrivo un mucchio di cose. Ho cominciato a perdere la vista diciannove anni fa. Avevo avuto dei problemi all'occhio destro, e i medici dissero che al massimo in dieci anni avrei perso anche l'altro. E così è stato; avevano perfettamente ragione. Ora vedo solo luci e ombre. Non distinguo chiaramente i visi; cosa che è sempre molto imbarazzante, perché sono costretta a salutare tutti in modo che la gente non pensi che voglio fare la snob. La porta stretta (Classico del Giallo n. 208) ha segnato una tappa decisiva per lei. Ha vinto persino un Edgar. Quel libro ha rappresentato una svolta netta sua carriera? Non credo che abbia rappresentato una svolta. Io sono sempre stata abituata ad andare avanti come un rullo compressore. Nessuno poteva fermarmi. Ecco, la sensazione che ho provato è stata proprio questa. L'altro suo libro che mi ha dato fortissime emozioni è stato Uno sconosciuto nella mia tomba (Mystbooks e GM n.2214). Mia sorella sta rileggendolo proprio adesso. E cosa mi dice di Rose's Last Summer? Mi sono divertita a scriverlo. E, com'è ovvio, Rose era basata su alcune donne di mia conoscenza, molte delle quali sono ancora in vita. Ho conosciuto molta gente alla quale piaceva alzare il gomito. Io sono stata allevata, anche se non in modo fanatico, sulla tradizione dei libri di Horatio Alger. E sono rimasta tale e quale anche adesso. E come me Ken... ecco perché siamo rimasti sposati per tanti anni. Lavoro duro uguale successo. Esatto. La virtù non è l'unica ricompensa del lavoro, ma solo con quella si riesce ad arrivare da qualche parte. Suo marito è una stella di prima grandezza nella letteratura poliziesca, o meglio nella letteratura tout-court. Cosa provava a vivere con uno scrittore del genere, e per di più da sua diretta concorrente? Be', a dire la verità io ho cominciato a scrivere prima di lui. Ecco perché, quando veniva qualcuno a trovarci, parlava con Ken e mi diceva: "Ah, ma scrive anche lei?", io rispondevo immancabilmente: "No, scrive anche lui". Quando Ken scrisse il suo primo libro, dopo essere stato dimesso dalla Marina, io avevo già prodotto due o tre romanzi, credo. È stata lei a consigliargli di scrivere? Sì, direi proprio di sì. Senza forzarlo, intendiamoci. Lui si sentiva portato per la scrittura e non voleva che in famiglia fossi solo io a tener alta la bandiera. Lei può supporre che la relazione tra di noi abbia fatto un gran bene alla mia carriera, ma le cose stanno esattamente all'opposto. E adesso voglio dirle qualcosa di curioso. In Europa usano dei poster, poster enormi, per fare pubblicità ai libri. Be', il nostro editore europeo ne aveva uno mio e uno di Ken, ma il bello è che ha saputo solo molto tempo dopo che eravamo marito e moglie. Proprio una cosa buffa. Perché suo marito ha scelto lo pseudonimo di Ross Macdonald? Macdonald era il nome di suo padre. Ha mai discusso di Lew Archer con lei? No, mai. Non è che io ami molto i detective che tornano di romanzo in romanzo. Comunque, il fatto è che hanno molto successo. Non so perché non mi piacciono. Forse perché sono ripetitivi e finiscono per dire sempre le stesse cose, per di più male. Ma questo non vale per Ken, naturalmente. In molti di quei libri, gli scrittori finiscono per plagiare interi paragrafi, e a volte addirittura intere pagine, dai loro romanzi precedenti. Io me ne sono stancata così presto che ho dato il benservito al mio personaggio fisso dopo tre romanzi. Si trattava di Paul Pry, uno psichiatra. Sono felice di non essere mai stata costretta a puntare su di lui. Pensi che si parlava di me e recensivano i miei libri persine sullo Psychiatric Quarterly... li prendevano proprio sul serio! [Risate]. Preferisco di gran lunga Aragon. Ora sto scrivendo nuovamente su di lui. Ho già pensato a un titolo per il mio nuovo romanzo, ma non glielo dirò perché tanto l'avrò cambiato almeno dieci volte, prima che il libro sia terminato. È interessante il fatto che gli ambienti in cui si muove Aragon siano in qualche modo misteriosi. Be', lui è un messicano. È affabile e comprensivo con tutti, e in questo senso rappresenta il tipo di messicano che abbiamo dalle nostre parti. I messicani di qui si esprimono in un perfetto inglese e sono nati a Los Angeles o a Santa Barbara. Ho scritto su un altro investigatore messicano, Pinata, in Uno sconosciuto nella mia tomba. Crede che le sue opere sarebbero più note, oggigiorno, se lei avesse cominciato presto a scrivere romanzi con un personaggio fisso? Sì, ne sono certa. Il libro che sta scrivendo adesso è diverso da quelli che scriveva negli anni Cinquanta? Non lo so. Qualche volta do un'occhiata a come scrivevo negli altri miei libri e mi dico che non riuscirò mai a emularli. Poi guardo una frase del libro a cui sto lavorando e penso che allora non riuscivo a scrivere così. Non potrebbe farsi aiutare da un giovane e promettente scrittore... che so, magari in cambio di qualche ispirata parola di saggezza? Ma chi le vuole parole del genere? E poi, io non ho nessuna saggezza da propinare. Avrei bisogno della vista, invece, ma questo è un po' più difficile. Ama i cani? Li adoro. La foto riprodotta sulla sovraccoperta di Mermaid mi mostra in compagnia del mio terranova, che adesso pesa la bellezza di ottantacinque chili. Oh, era un po' il mio bambino. .. Avevo anche due pastori tedeschi che si comportavano benissimo. Non avevano fissazioni e non si alteravano mai. Ora non farei più una cosa del genere, ma non ho mai avuto guai con loro. Ora ho anche un pastore australiano. Abito qui al secondo piano e l'ho portato con me quando aveva appena otto settimane. Adesso pesa sui quaranta chili ed è il più simpatico pastore australiano che abbia mai visto. È molto grande per la sua razza, ed è un vero tesoro. Sempre calmo e tranquillo, disposto a fare amicizia con tutti. È il peggior cane da guardia che sia mai esistito. Giuro che un'intera gang dei bassifondi potrebbe salire fin qui e lui sarebbe pronto a giocherellare con tutti. Ken, invece, ha sempre voluto un elefante, che lei lo creda o no. Avevamo abbastanza spazio per ospitare un elefante, ma è che non li conoscevamo troppo. Lei fa parte di qualche movimento animalista? Vorrei, ma non so come fare. Sono uscita da un movimento che si chiamava "Società per un trattamento etico degli animali", perché mi sono resa conto che non aveva abbastanza mordente. Quando si imbattevano in casi di crudeltà, non esercitavano tutta la loro influenza. Ma oggi i tempi sono cambiati. Anni fa, mi ero abituata a uscire con una pelliccia ecologica, che imitava abbastanza bene il visone. Naturalmente, tutti la scambiavano per autentico visone, e la cosa è andata avanti per vent'anni. Continuavo a dire alla gente: "Guardate che è finta!", così aprivo la pelliccia e mettevo bene in vista l'etichetta. Non mi metterei una pelliccia vera per nessuna ragione al mondo. Sono sempre stata un'attivista, anche se adesso non posso più fare tutte le marce che facevo in passato. Vediamo, l'ultima marcia di protesta a cui ho partecipato è stata quando l'Iran ha offerto un milione di dollari per la morte dello Scià. Devo dire che avevo il cartello più carino. Diceva: "I Khomeinisti vadano a quel paese". Ho protestato contro un mucchio di cose... contro le piattaforme petrolifere, per esempio. Ah, e naturalmente per la pace. E poi contro le autostrade fatte nelle località più incredibili. In quei casi, ci recavamo direttamente sul posto e toglievamo i picchetti che delimitivano l'area di costruzione. Non dovrei dirlo, lo so, ma è proprio quello che facevamo. Comunque, non sono mai stata arrestata. Avevo un'amica che mi chiamava sempre per sapere se finalmente mi avevano messo dentro! Vede, lei era già stata arrestata e non voleva che me ne dimenticassi. Non credo che mi sarebbe piaciuto finire in galera. Non alla mia età, perlomeno. Oggi, 13 dicembre, sarebbe il compleanno di suo marito. Sì, ma non solo il suo compleanno: anche il nono anniversario del giorno in cui sono stata costretta a portarlo in una casa di cura. È stato un giorno molto triste, ma io non sono andata in giro a strapparmi i capelli o a lamentarmi con la gente. Non ho pianto per anni. Mi viene in mente quando gli amici di Ken si dispiacevano perché lui era stato colpito dal morbo di Alzheimer. Un giorno, il medico che lo curava mi ha detto: "È lei la vera vittima, non suo marito". E questo perché Ken non capiva nemmeno ciò che gli stava succedendo. E io ero la sola che si prendeva cura di lui e gli stava sempre dietro. C'è stato un momento memorabile che non dimenticherò mai. Stavo lottando come una disperata per tentare di fargli mettere un paio di scarpe... a Ken piacevano molto le scarpe, e infatti ne aveva comprato un mucchio di paia. Be', lui è andato nello stanzino e si è messo ad annodare i lacci delle scarpe l'uno con l'altro. Aveva capito male. Pensava che gli avessi chiesto di annodare tutte le scarpe insieme, così... C'è mai stato un momento nella sua malattia in cui lui si sia reso conto di quello che gli stava capitando? No, non ne aveva la minima idea. Quando parlava, si esprimeva in un gergo incomprensibile, fatto per lo più di balbettamenti. Ma un giorno ha detto: "Non sono molto felice". Così io gli ho replicato: "Ken, hai una malattia, che si chiama morbo di Alzheimer...". Prima ancora che avessi finito la frase, già non c'era più con la testa. Non riusciva neppure ad ascoltarmi. Negli ultimi sei mesi di vita, non sapeva più chi fossi. Avrei potuto essere chiunque, qualsiasi cosa. Quando l'ho portato in quella casa di cura, nove anni fa, non si rendeva conto di dove fosse. Per lui era solo un posto come un altro. La prima cosa che ha fatto dopo la festa per il giorno di Natale è stata davvero buffa. Stranamente, si ricordava ancora che dopo Natale si è soliti togliere l'albero, no? Così ha proceduto a togliere tutte le decorazioni dall'albero, aiutato da alcune vecchiette alle quali lui faceva da maestro. Be', per farla breve, hanno spogliato completamente l'albero. La donna che allora dirigeva la clinica ha pensato che fosse una cosa estremamente buffa, anche se poi ha dovuto far ridecorare l'albero. Il fatto di prendersi cura di Ken ha cambiato le sue abitudini di scrittura? Ha avuto qualche influenza sulla quantità della sua produzione letteraria? Ancora oggi non so come ci sia riuscita. A scrivere, voglio dire. È stata proprio una cosa incredibile. La mia vista, tra l'altro, mi impediva persino di guidare, e questo mi obbligava a dipendere da altre persone. Alla fine non ce l'ho più fatta e ho dovuto assumere un infermiere che badasse a Ken almeno un paio d'ore al giorno. Qualche volta mi sentivo davvero male. Passavo delle ore terribili, specie quando dovevo vestirlo o svestirlo. Allora me ne andavo nella mia stanza e cominciavo a singhiozzare. Gridavo: "Dio, ridammi il mio cancro!" Avevo avuto un inizio di cancro, anni prima, tanto che i medici avevano dovuto asportarmi una parte del polmone destro. Be', ho pensato spesso a quei momenti quando, sette anni fa, mi hanno tolto l'intero polmone. II mio desiderio era stato esaudito... una delle piccole ironie della vita. La vita è molto, molto crudele. Personalmente, difendo in maniera molto energica l'idea della "morte con dignità", o se vuole l'eutanasia, e mi dispiace che questa idea sia stata sconfitta nello stato di Washington. Presto dovremo esprimerci al riguardo anche qui in California. Le esperienze terribili che ha dovuto affrontare hanno fatto di lei una persona cinica? Credo di essere diventata molto realistica. Non direi cinica, però, perché in fondo il cinico è uno che da un prezzo a ogni cosa ma non vede il valore di nulla. E io non sono affatto così. In questi ultimi tempi, ho imparato ad apprezzare molto la bontà della gente. Ma non per questo mi sfuggono le cattiverie umane. da Il Giallo Mondadori, n. 2318, 1993 - intervista di Michael Pettengell, traduzione italiana di Mauro Boncompagni |