Carlo Fruttero & Franco Lucentini Due mostri sacri (e a chiamarli così non li si farebbe certo contenti). Nati rispettivamente nel 1926 e nel 1920, sono la più celebre coppia della narrativa e del giornalismo italiani. Da sempre appassionati di giallo, di fantascienza, di umorismo, e di letteratura in generale, hanno diretto per molto tempo (1961 - 1986) la principale collana italiana di fantascienza, Urania, spesso magistralmente ma talvolta operando pesanti (e ingiustificabili) tagli per adattare il testo alla lunghezza standard dei volumi Urania. Hanno anche curato la splendida edizione (anche se non integrale, 1963-1966) del primo ciclo di Fantômas. Nei loro due polizieschi ambientati a Torino hanno raccontato questa città come pochi sono riusciti a fare, evitando il luogo comune di Torino "città del mistero" e dandone un ritratto in cui si mescolano intelligenze, oscurità, miserie, inquietudini. Franco Lucentini, gravemente malato, si è tolto la vita nel 2002. Fruttero è morto nel 2012. Con La donna della domenica hanno avviato una lunghissima e fortunata collaborazione in campo poliziesco, oltre che in altri ambiti:
Nel giugno 1870 Charles Dickens muore improvvisamente, mentre stava lavorando a Il mistero di Edwin Drood, che rimase dunque incompleto e, ovviamente, inedito. Su tale opera si creò una vera e propria leggenda, con manoscritti apocrifi, discussioni vivacissime su come Dickens avrebbe risolto il mistero della scomparsa del protagonista, e non mancarono anche i tentativi di completare il libro con un finale adeguato. Nel 1994 sarà Nanni Loy, nel suo ultimo lavoro, a riportare sugli schermi (tv) il commissario Santamaria nella complicata indagine di A che punto è la notte.
Pubblichiamo un'intervista di Nello Ajello a Carlo Fruttero uscita su Repubblica il 21 febbraio 2002. Fruttero era il meno riservato dei due inseparabili scrittori. In questa chiacchierata parla molto anche di Franco Lucentini e del loro sodalizio letterario. Trent'anni fa, nel 1972, uscì La donna della domenica di Carlo Fruttero e Franco Lucentini. E fu subito un caso letterario. Era uno dei primi gialli italiani di qualità e, insieme, di successo. Vi si criticavano gli usi e i costumi di un intero paese appena uscito dal miracolo economico. Vi si coglieva l'immagine di una Torino elegante e inquieta. Quella città un po' periferica ma industrialmente assai autorevole diventava oggetto di una parodia affettuosa, severa e divertita. E ancora oggi si sorride spesso, rileggendo quel romanzo. Del quale parliamo con Carlo Fruttero, lo scrittore meno riservato dei due, l'unico torinese della coppia (Lucentini è romano). L'idea di scrivere un giallo ambientato a Torino racconta Fruttero, fu di Lucentini. "Franco s'accorgeva più e meglio di me della singolarità di quel luogo. Ne sottolineava la stranezza, la diversità, l'aspetto metafisico. Scorgeva in ogni angolo della città un quadro di De Chirico. Lo faceva ridere l'accento della gente. Cominciammo così a costruire, nei nostri discorsi, una piccola catena di aneddoti o bozzetti torinesi, legati fra loro da una donna, in cui vedevamo un esemplare dell'alta borghesia cittadina. Il primo titolo a venirci in mente fu 'La signora di Torino'." È così torinese il personaggio di Anna Carla, giovane e bella moglie d'un industriale, da far pensare che l'avesse ispirato una persona effettivamente esistita, che fosse ricalcata su un modello vivente. Fruttero smentisce subito. "Anna Carla è, in realtà, un collage di tipi diversi. Succede così con tanti personaggi inventati. Ne prendi un pezzo qui, uno là, e li depositi nella memoria. Poi quando ti serve trovi una faccia, isoli un gesto, riproduci un modo di parlare. Il nostro punto di partenza era dunque questa signora torinese, mondana, più intelligente e assai più spiritosa della media. Occorreva, per inserirla in un romanzo, costruirle attorno un mistero. Sulle prime pensammo a un suicidio: questo sì reale, desunto dalla cronaca. Proprio in quei mesi i giornali davano notizia del suicidio d'un professore universitario. Arricchimmo il caso, aggiungendovi un particolare: il docente non s'era tolto la vita per essere stato bocciato a un concorso a cattedra, ma proprio perché l'aveva vinto. Nell'apprendere la notizia, aveva intravisto innanzi a sé un agghiacciante avvenire accademico e aveva preferito la morte. Centro del libro doveva essere appunto il professore che si butta giù, disperato, sfracellandosi in un cortile dell'università. Pensavamo a una sorta d'inchiesta su questo fatto di cronaca. Ne scrivemmo anche varie pagine, forse Lucentini ancora le conserva. Ma poi decidemmo di fare un giallo vero e proprio." Vi serviva, a questo punto, non soltanto un cadavere, ma un intreccio, degli inquirenti, degli indiziati, un colpevole che vien fuori alla fine. "Certo. Per proiettare la signora di Torino, il personaggio che avevamo pronto in mente, in una luce vivace e brillante, dovevamo metterle accanto un uomo. Sembrava fatale pensare a un amante. E infatti buttammo giù, in questo senso, qualche capitolo prima di accorgerci che così l'intreccio si spostava tutto sulla storia d'amore, avviandosi in una direzione troppo consueta e prevedibile. Un ingorgo, ai nostri occhi. Fu allora che Franco ebbe l'idea dell'omosessuale. Anna Carla intratteneva un rapporto, ovviamente platonico ma strettissimo, con l'omosessuale Massimo, che aveva per suo conto una privata storia d'amore con un ragazzo. Lei era sentimentalmente libera. Poteva quindi amoreggiare con il commissario Santamaria incaricato dell'indagine sull'omicidio dell'architetto senza vivere ingombranti drammi di cuore." Non è il caso di raccontare la trama della Donna della domenica. Sono cinquecentocinquanta pagine irte di personaggi che si aggirano intorno a un delitto: l'assassinio dello strano architetto Garrone. I rapporti snobistico-affettuosi tra Anna Carla e Massimo sono il sale del romanzo, intercalati dai dialoghi fra il commissario e la signora. La quale, confido a Fruttero, mi ricorda un po', nel suo snobismo, quella Fulvia che riceve il sabato sera, come emerge dalla striscia di Pericoli e Pirella pubblicata ogni sabato su questo giornale. "Mah", obietta lo scrittore. "Quella milanese lì è un'intellettuale. La nostra no. Nel senso che Giulio Einaudi non frequenta il suo salotto, e che Ilja Erenburg quando si trova a Torino non va a cena da lei. Il suo snobismo è libero, istintivo, senza schemi." Nel mirino satirico di Fruttero e Lucentini, un intellettuale tuttavia lo si avvista con estrema chiarezza. È quell'"americanista" a nome Bonetto, prigioniero di microscopiche beghe accademiche, destinato a diventare una maschera tipica dell'antropologia culturale italiana. E c'è anche l'acculturato "à la page" che emana effluvi di recente miracolo italiano. È descritto nella figura di Lello, l'omosessuale che sogna la Grecia e le Eolie come paradiso delle vacanze, in contrasto con il suo fidanzato che sogna un soggiorno estivo nel vicino Monferrato. Il tutto a tal punto torinese, così rispondente al tempo e alla gente, da far impazzire di rabbia qualunque sociologo. C'è infine la Torino dell'immigrazione, e il razzismo antimeridionale che la pervade. Questo sentimento ricorre nelle pagine come un'ossessione. Riesce a connotare un'epoca. "Infatti, il tema dei terroni torna di continuo. A quei tempi esso era davvero vivo, invadente. Non a caso, servendoci un commissario, lo inventammo siciliano." E oggi, invece? "Di quel razzismo ''interno'', a Torino non rimane più traccia. È stato assorbito, fagocitato, trasformato dalla presenza degli albanesi. Ormai lo stesso calabrese, perfettamente integrato, parla con fastidio dei romeni e dei marocchini presenti sul posto. Essi insidiano il suo idillio con la città, che ingloba anche il tifo per la Juventus. Nessuno respira più quelle brezze antimeridionali. La Lega non ha qui una sua roccaforte. Bene o male, un'integrazione c'è stata. È una delle poche cose che han girato bene, negli ultimi decenni." Insomma, erano meglio i terroni. "Gli immigrati 'nuovi' sono assai diversi dai meridionali che si muovevano in quel nostro romanzo. Quelli lavoravano, vivevano, si può dire nelle officine. Questi stendono un tappeto per terra e occupano la strada con orologi e sculturine di legno." Nel 1975 Luigi Comencini diresse un film tratto dalla Donna della domenica, con Marcello Mastroianni nella parte del commissario Santamaria. A Fruttero e Lucentini il film piacque. "Era ben recitato", ricorda Fruttero. "Per trovare un altoborghese plausibile il regista ricorse a Trintignant. Anna Carla venne interpretata da Jacqueline Bisset. Era ed è ancora impossibile trovare, fra gli attori italiani, delle facce somiglianti a quelle dei borghesi ricchi e abituati da molto tempo ai soldi. Ci sono invece tante fisionomie di questurini, malviventi o piccoloborghesi. Cercheremmo invano un Michael Douglas che rifà il miliardario carogna. Al massimo si riesce a mettere in scena il mobiliere lombardo. Che magari è miliardario anche lui. Ma fa soltanto ridere." Quel suo vecchio romanzo, Fruttero, le piace ancora? "L'ho riletto qualche mese fa. Ero ricoverato in ospedale. Un dottore ne aveva comprato una copia e mi chiese la dedica. Lo accontentai e me lo feci prestare. Non me lo ricordavo quasi più. È scritto talmente in punta di penna, somiglia così poco alla narrativa da feuilleton popolare, alla Dumas, da far stupire che abbia avuto successo. Mi sono molto divertito affrontandolo da lettore. Come coautore, preferisco invece 'A che punto è la notte'. È più ambizioso, con quel suo titolo biblico. E poi quei personaggi, il terrorista, l'editore di sinistra, il prete gnostico. Sì, ci mettemmo dentro tutta la Gnosi. Il serpente che si morde la coda diventava la Fiat, che lasciavamo intendere fa in fondo la stessa cosa. Emergeva dal racconto una trasparente polemica antiproduttivistica. La produzione considerata il massimo dei mali." A che punto è la notte uscì nel 1979. Ci fossero stati allora i no global, l'avrebbero forse adottato come il loro Corano. "Il regista Nanni Loy, che ne cavò un film per la televisione, aveva bisogno di raffigurare una grande fabbrica. Mi pregò quindi di procurargli l'autorizzazione a girare alcune scene all'interno della Fiat. Ne parlai con Romiti, cercando di spiegargli lo spirito dell'opera, il riposto significato di quel serpente gnostico che diventava una fabbrica, e viceversa. Pur mostrandosi comprensivo, lui provava qualche difficoltà. Finché sbottò: 'Come vuole che io racconti tutto questo ai miei dirigenti, in azienda?'. Alla fine, qualche breve sequenza in Fiat si riuscì metterla insieme." Ma torniamo alla Donna della domenica. Il suo palcoscenico è 'una città di mezza provincia, all'ombra della Fiat'. Chissà se un torinese di oggi sa riconoscervi ancora la sua città. "Avrei qualche dubbio. Anche perché adesso la Fiat è all'ombra della General Motors." |