James Ellroy È stato lo stesso Ellroy a rivelare a suo tempo quanto su di lui abbiano pesato i drammi dell'infanzia e dell'adolescenza: il divorzio dei genitori, la morte della madre, uccisa quando egli aveva solo dieci anni, e quella del padre mentre James, diciassettenne, si era appena arruolato volontario nell'esercito. E poi una vita disperata, alcool, droghe, follia. Un altro omicidio segna Ellroy: Elizabeth Short era piuttosto nota a Long Beach, California, e la sua abitudine a vestirsi di nero le valse il soprannome di Dalia Nera: quando, nel 1947, in un quartiere meridionale di Los Angeles, il suo corpo nudo fu trovato squarciato all'altezza della vita, mutilato e con orrendi segni di tortura, la notizia divenne il fatto di cronaca nera dell'anno, e, anzi, assunse una valenza ben maggiore, perché il colpevole non venne mai trovato (malgrado le indagini siano state fra le più intense di tutta la storia giudiziaria statunitense) e il mistero diventerà il caso irrisolto più famoso degli USA. Si trattò di una vicenda che ebbe un'enorme rilevanza sotto il profilo mediatico e che diede vita ad uno di quei tipici fenomeni americani, laddove un fatto tutto sommato trascurabile (ogni anno negli USA vengono commessi ben 15.000 omicidi, uno ogni mezz'ora, e a fine anni '40 la media non sarà stata poi tanto diversa) diventa qualcosa di clamoroso e da inizio a una vera e propria saga (inchieste, memoriali, servizi televisivi, film, ecc.). Per Ellroy, evidentemente, il motivo per cui quell'omicidio mai risolto ha assunto un peso insopportabile è da ricercarsi in talune analogie con la morte, mai chiarita, della madre: un cold case con un valore simbolico profondo e senza vie d'uscita. I primi lavori di Ellroy sono quasi una sorta di marcia di avvicinamento verso quell'omicidio (i due si confondono macabramente), perché solo dopo vari anni che aveva intrapreso la carriera di scrittore egli diede al proprio editore The Black Dahlia. Che è uno dei più agghiaccianti noir che si siano mai letti, tanto più allucinato e violento quanto - così come in altre opere di Ellroy - finzione e realtà vengono mescolate senza pudore, senza pietà, senza possibilità alcuna di redenzione. Da leggere solo quando si è di ottimo umore, ma da leggere, per dio.
il suo sito: http://www.ellroy.com/
Giuro che avevo paura ad incontrare James Ellroy. Non per il personaggio, ex alcolista, ex tossico, ex topo d'appartamento ossessionato dalla morte della madre... E neppure per l'argomento dei suoi libri, tra i più duri, feroci e senza pietà che siano mai stati scritti. Quasi tutti i miei amici sono così e se dovessi giudicare uno scrittore dagli argomenti che tratta dovrei andare a cena con la pistola. No, è che fa sempre paura, e imbarazza un po', incontrare un maestro. Perché per gli scrittori della mia razza e della mia generazione, James Ellroy è un maestro. Con la tetralogia di Los Angeles è riuscito a dare uno degli affreschi più belli e più neri dell'America tra i '40 e i '60. Con la trilogia di Lloyd Hopkins ci ha regalato una delle figure più contraddittorie e complesse nel panorama dei detective. Con "American Tabloid" è riuscito a raccontare la metà oscura della storia americana - l'omicidio di Kennedy - con le categorie narrative, la tensione e la suspense del noir. Con "I miei luoghi oscuri" è riuscito a scendere così nel profondo dell'anima che credevo che dopo quel libro per lui non fosse possibile scrivere più niente. Adesso arriva con "Sei pezzi da mille", che riprende dove "American Tabloid" sì è interrotto, e riesce di nuovo a compiere il miracolo: tenerti incollato per più di 700 pagine con dialoghi serratissimi, azioni essenziali, documenti, colpi di scena ed emozioni, che passano attraverso gli anni che seguono la morte di John Fitzgerald Kennedy. Cominciamo dai maestri. I miei sono un italiano e due americani. Giorgio Scerbanenco, Raymond Chandler e James Ellroy. I suoi? Per me sono Dashiell Hammett e Don De Lillo. Il suo "Libra" è la diretta ispirazione di "Sei pezzi da mille". E Chandler, niente? No. Chandler scriveva trame poco plausibili, che spesso non tornavano. Era più che altro concentrato sulle stile. Scriveva dell'uomo che avrebbe voluto essere. Hammett invece scriveva dell'uomo che aveva paura di essere. I suoi personaggi sono killer mafiosi, poliziotti corrotti, squillo coinvolte in affari bruttissimi, agenti della CIA, trafficanti di tutto. Uno dei protagonisti di "Sei pezzi da mille" è Pete Bondurant, ex poliziotto, violento e feroce, che ammazza e tortura... Ma non fa solo quello. Ama sua moglie Barb e quell'amore esiste, appartiene al personaggio e in un certo senso è qualcosa che dà speranza. Tutti i miei personaggi hanno uno scopo preciso come tutto quello che scrivo. Bondurant andava benissimo in "White Jazz" per far vedere la storia dei cubani e degli esiliati. Fa un'apparizione in "American Tabloid", e proprio per questo rapporto che aveva avuto con i "cubs" andava bene come personaggio anche per quel libro. Molti dei miei personaggi tornano perchè mi piace narrare storie ampie, corali, che abbraccino un grande spazio temporale. Non credo si debba sacrificare le trame per dare spazio ai personaggi e viceversa. Mi piacciono le storie, mi piace la lingua, mi piace il milieu e mi piace giocare su queste tre cose. I suoi libri hanno stili diversi. "White Jazz" era sincopato, al limite della comprensibilità. "I miei luoghi oscuri" violentissimo e preciso. Chi sceglie lo stile? La storia? I personaggi e la storia. "White Jazz" dal punto di vista stilistico è una narrazione in prima persona, frazionata e fratturata con omissioni e frasi incomplete ed è la voce di un poliziotto cattivo come Dave Kain, un bianco che butta dentro in tutto il be-bop della Los Angeles del 1958. Funziona solo per quel libro, che ho trovato attinente alla realtà del narratore e che non userò mai più. Lo stile di "Sei pezzi da mille" deriva da "American Tabloid": è uno stile che ho voluto così, molto dum-dum-dum, che deve impersonare la violenza della narrazione e la violenza della vita che vivono i miei personaggi. Dentro e al di fuori di se stessi. È vero che prima di scrivere costruisce scalette lunghissime? La gabbia narrativa per "Sei pezzi da mille" era di 346 pagine. È il risultato di ricerche, di note accurate e dei miei pensieri che metto sulla carta. Io so, prima ancora di scrivere la prima parola, come andrà a finire la storia e questo tipo di sensibilità mi porta ad ampliare e migliorare le descrizioni e lo stile. Devo solo aggiungere un 10-15 per cento ed ecco il libro. È questo quello che c'è in lui. Questa serena calma da professionista della scrittura? Parla tra sé, con estrema, naturale tranquillità. È questo quello che c'è? Non lo so. A un certo punto dice... Credo in una vita semplice e sana che ti aiuti a sviluppare il talento, a scrivere con metodo un certo numero di ore al giorno. Come Stephen King. Voglio scrivere libri migliori e più buoni. Vivere a lungo, scrivere meglio, come Hemingway. Nei suoi libri ci sono sempre personaggi storici, come Howard Hughes, Frank Sinatra. In certi romanzi sono quasi più i personaggi storici che quelli inventati. Quanto c'è di vero e quanto c'è di inventato in "Sei pezzi da mille"? È una cosa che non mi chiedo e che non mi voglio chiedere. Dov'è il confine tra realtà e fantasia? Io voglio creare una sovrastruttura per cui sia i personaggi che gli eventi possano essere allo stesso tempo fittizi e reali e non voglio che i miei lettori riescano a distinguere cosa è vero e cosa no. Voglio creare un affresco e confondere questi confini. Noi viviamo in un paese pieno di misteri. E scriviamo di misteri, con rabbia e con passione. Lei ha scritto due libri sull'omicidio Kennedy. Qual è il suo rapporto con un mistero fondamentale come quello della morte di Kennedy? Non me ne importa niente dell'omicidio di Kennedy, è stato solo uno degli omicidi politici di una lunga serie che va dal '58 al '68. Ho solo cercato di esprimere cos'è la vita. Le spiego cos'è la vita: è quello che fanno agenti della CIA, malfattori, informatori, poliziotti e politici corrotti, uomini dell'FBI, pazzi dell'estrema destra, esiliati cubani. Una società chiusa che in un modo o nell'altro, perché si trovano in posti chiave, influenza moltissimo alla base quelle che sono le politiche pubbliche di tutti gli Stati Uniti. Non credo che l'America fosse innocente prima di JFK, la sua morte ha segnato un momento di transizione tra i fatti di "American Tabloid" e "Sei pezzi da mille". Scrivere di queste cose serve a cambiarle? Non me lo chiedo e non mi importa. Scrivo per me. Racconto storie. Ne "I miei luoghi oscuri" arriva così in fondo da raccontare le cose più intime di se stesso e della sua vita, compresa l'autopsia di sua madre uccisa brutalmente da un maniaco. Non credevo che uno scrittore potesse arrivare così in fondo nel suo cuore. Con quel libro non cercavo di scavare da nessuna parte. Non volevo esorcizzare nessun demone. Volevo solo scoprire chi aveva ucciso mia madre e nel fare questo ho dovuto scrivere pezzi della mia biografia. L'ho scritto per onorare mia madre. Non è stato un libro difficile: ho solo dovuto dire la verità. grazie: L'Espresso - 19 aprile 2001
Com’è nato il titolo del suo ultimo romanzo? Ho preso la frase “Il sangue è randagio” da una lirica di A. E. Housmane e con quel titolo volevo proprio descrivere questo gruppo di randagi e vagabondi, uomini e donne che sono protagonisti delle storie che ho raccontato e che hanno vissuto a pieno le storie dell’America dal 1968 al 1972 che racconto nel mio libro. Cani randagi che in branco se ne vanno a cercare sangue che li riscaldi: sangue politico, sangue sessuale, sangue di tutti i generi. E con una sanguinosissima rapina degna di film come “Heat” di Michael Mann o “Dark Knight” si apre il suo romanzo? Raccontare quella terribile rapina avvenuta nel 1964 a Los Angeles è stato un trucco per spiegare subito ai lettori, qual’era il clima di violenza che c’era in quel periodo. Ho riassunto un po’ i quattro anni di disordini che misero a ferro e a fuoco la città proprio con quella scena. Ho cercato di rinchiudere in tutte le pagine successive del libro il senso di suspense che ho dato a quella scena d’avvio. Quanto è difficile mescolare realtà e fantasia nei suoi romanzi? Non rispondo mai a chi mi chiede cosa c’è di vero e cosa c’è di inventato nelle mie storie, perché credo di essere riuscito a far sparire da quello che scrivo ogni traccia che possa far distinguere il vero dal falso. Ho fatto in modo che sparissero i punti di cucitura fra la realtà e la fantasia nella trama dei miei libri. Se questo mix riesce, anche se noi viviamo in un momento di profondo di scetticismo sia politico che sociale dove spesso è possibile fare credere a tutti qualsiasi tipo di complotto, il mio operato di narratore è riuscito e risulta credibile ai miei lettori. Tre personaggi reali come Howard Hugues, J. Edgar Hoover e Richard Nixon ritornano spesso fra le pagine di “Il sangue è randagio”? Nixon non era mai apparso in “American Tabloid” e “Sei pezzi da mille” e fa il suo debutto proprio fra le pagine del mio ultimo romanzo e devo ammettere che la figura dei cattivi deve essere una costante nella mente di chi mi legge i miei libri. Senza cattivi non funziona una buona storia drammatica. I lettori devono imparare a familiarizzare con questi personaggi negativi che sono sempre molto sfacettati. Ho scelto Hugues perché è stato un miliardario che poteva tutto, tossico, xenofobo, mentre Hoover è stato la perfetta incarnazione del potere burocratico e della politica. Voglio che i miei personaggi siano pervasi dal dramma dei miei libri e che il tutto diventi coerente e che diventi un corpus integrato. Perché ci ha impiegato quasi otto anni a scrivere un’opera del genere? In realtà sono stati i miei drammi familiari personali (a partire dal divorzio da mia moglie) a distrarmi per lungo tempo. Poi ho scritto per la televisione e per il cinema ma solo perché avevo bisogno di liquidità e tecnicamente ci ho impiegato solo due anni a scrivere “Il sangue è randagio”. Non è stato una fatica scriverlo, anzi potrei dire che è stata una vacanza da tutto quello che mi era accaduto intorno. Ma svelerò chiaramente cosa mi è successo in questo periodo nel mio prossimo libro “The Hilkiller Curse - My Pursuit of Women”. È vero che riparlerà qui anche della tragica scomparsa di sua madre? No. Parlerò solo di me e del mio rapporto con le donne. Ed è proprio l’elemento femminile spesso al centro de “Il sangue è randagio”, grazie a personaggi come Joan Rosen Klein e Karen Sifakis… Volevo scrivere qualcosa di diverso rispetto al passato. Un libro profondamente ideologico, un volume che descrivesse un periodo di rivoluzione. Volevo che parlasse di quando nella vita della gente arriva a una conversione, un nuovo modo di vedere le cose. E per questo che sono stati fondamentali per me quei due personaggi femminili che io ho costruito ispirandomi a due donne che ho conosciuto e frequentato per lungo tempo. Con i personaggi di Joan e Karen ho voluto rendere omaggio a due donne che hanno avuto con me un rapporto speciale e che nel romanzo danno del filo da torcere all’investigatore privato Don Crutchfield. Avere cambiato stile nel tempo l’ha fatta soffrire, o ha rappresentato per lei il raggiungimento di un obbiettivo personale? Io ho sempre scritto ogni mio libro nello stile e nella lingua che era idonea a quello che volevo realizzare. Per “Il sangue è randagio” ho scelto di inserire spesso dei dossier narrativi che chiarificano le vicende nelle quali sono coinvolti i miei protagonisti perché mi sono accorto che in “6 pezzi da mille” era stato troppo coinciso e non avevo descritto in maniera profonda la situazione emotiva dei miei personaggi. Bisogna sempre essere attenti alla filosofia dei propri personaggi e per farlo bisogna adattare lo stile dove possibile. Per la prima volta nella sua carriera ha mandato una lettera personale ai librai nella quale raccontava che avrebbe seguito con entusiasmo la promozione in tutto il mondo il suo libro. L’ho fatto solo per accondiscendere alle richieste del mio editore americano. Perché nella narrazione ha scelto di fermarsi poco prima del Watergate? Quell’evento mi ha sempre annoiato. Poi la maggior parte dei protagonisti di quello scandalo sono ancora vivi e potrebbero denunciarmi e crearmi della grane legali se parlassi di loro. La trilogia è davvero finita? Si è finita. Posso svelarvi che realizzerò presto una quadrilogia ambientata a Los Angeles. Un quadro che avrà un respiro ancora più ampio a quello che ho descritto nel mio primo quartetto dedicato a L.A. È vero che questo ciclo sarà ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale? No comment (e sorride…). Lei ama Beethoven. Secondo lei “Il sangue è randagio” è paragonabile a una delle sue sonate? Potrei dirvi che si può avvicinarlo alla “Sonata n. 29” che è amplissima, meravigliosa e a un respiro quasi infinito. Ascolta musica mentre scrive? No. L’ascolto come esercizio personale, quando sono solo e al buio, mi serve per concentrarmi e ricaricarmi. Che rapporto ha con la scrittura? Non soffro quando scrivo, ma mi impegno molto nel farlo. Cosa rappresenta per lei L.A.? Non la conosco così bene da poter dire che sono un esperto di quella città. Ci sono cresciuto e adesso ci sono tornato a riabitare ma non ho una relazione speciale con quella città. L’ho semplicemente ricreata nelle mie storie. Io scrivo di L.A. quello che sento personalmente di quei luoghi, che però non è esattamente la sua realtà. Ho una mia Los Angeles nella quale mi piaceva vivere e assaporare certe storie che ho scritto che non è però quella di oggi, così come la mia America non è quella della realtà ma bensì quella che racconto in storie come “Il sangue è randagio. Scrivere un nuovo romanzo è una sfida con se stesso, con il suo editore o con il pubblico? È sempre una mia prova personale, una mia sfida. Ho una collaborazione ottimale con tutte le case editrici che mi pubblicano in tutto il mondo e che mi supportano ed hanno per me un’attenzione davvero speciale. Ma io ho sempre la dannata ossessione di dare il meglio di me stesso nel mio lavoro di scrittore. Vorrei che i miei lettori leggessero le mie opere con lo stesso ritmo ossessivo con cui io le scrivo. C’è un suo romanzo o un suo racconto che avrebbe voluto scrivere in maniera diversa? No. |