Ezio D'Errico
Eccolo qua l'ennesimo "Simenon italiano", ma D'Errico (1892 - 1972) se l'è andata a cercare, avendo creato un personaggio, il commissario Emilio Richard, che è capo della Seconda Brigata Mobile della Sûreté di Parigi.
Che poi non ci sia una signora Richard, o meglio, ci sia ma in quanto sorella zitella (con tanto di adeguato nome: Genoveffa) del commissario, non fa che aumentare le affinità. Oltre a tutto Richard, come Maigret, è bonario, umano, ecc..
I maligni sostengono che in realtà
D'Errico puntasse proprio ad essere il "Simenon italiano", avendo scritto il primo libro con Richard nel 1934, quando sembrava che il papà di Maigret si fosse definitivamente stufato del suo figliolo.
Effettivamente D'Errico ricalca su Maigret il proprio personaggio, dipingendolo, tuttavia, in una chiave malinconica ben lontana dal roccioso commissario di Simenon, come ad esempio ci ricorda Giuseppina La Ciura nel suo blog: "Poi una fila interminabile di anni grigi, di servizi estenuanti, di piantonamenti avvilenti, di inchieste faticose, di colluttazioni e battaglie, con la delinquenza di tutti i bassifondi francesi... poi la morte dei genitori, la necessità di aiutare la sorella, un nipote che gli era rimasto sulle braccia e che bisognava mantenere agli studi... e allora, avanti, a economizzare il soldo, avanti a ricercare i servizi più gravosi per arrotondare con qualche indennità il magro stipendio… trent’anni e soltanto quindici giorni d’amore in un alberguccio di marinai. ” (da L’uomo dagli occhi malinconici).
D'Errico non fu solo autore di gialli, ma anche pittore, uomo di teatro, sceneggiatore (ma i film erano decisamente mediocri, tranne Terrore sulla città, 1956, di A. G. Majano) e scrittore d'avanguardia, tuttavia al poliziesco ha dedicato molte delle sue energie creative.
Negli anni '50 scrisse per la radio varie serie di gialli (Squadra Mobile, 1950; Il mio amico commissario; 1953-4; Città Notte a puntate, 1956; Scusi se la disturbo, 1958), mandati in onda con un notevole gradimento da parte del pubblico.
Qui altre notizie su D'Errico. Su di lui il bel saggio di Loris Rambelli Ezio D’Errico: paura e fascinazione, Pirani Bibliografica, 2012.
Ci risulta che oggi siano disponibili solo pochissimi titoli fra i suoi polizieschi.
- Qualcuno ha bussato alla porta, Mondadori, 1936, 1978
- Il fatto di via delle Argonne, Mondadori, 1937
- La famiglia Morel, Mondadori, 1938
- Il Trapezio d'argento, Mondadori,1939; Libreria dell'Orso, 2007
- Il quaranta-tre-sei-sei non risponde, Mondadori,1939
- Plenilunio allo zoo, Mondadori, 1939
- L'uomo dagli occhi malinconici, Mondadori,1939 - in Supergiallo n. 7
- La donna che ha visto, Mondadori,1940
- L'affare Jefferson, Mondadori, 1940
- I superstiti dell'Hirondelle, Mondadori, 1940
- Il naso di cartone, Mondadori, 1940
- L'uomo e la stella, Mondadori, 1940
- Un grido nella nebbia, Mondadori, 1940 - in Supergiallo n. 8
- La notte del 14 luglio, Mondadori, 1941
- La casa inabitabile, Mondadori, 1941; Libreria dell'Orso, 2004
- Segni particolari nessuno, Mondadori, 1941 - in Supergiallo n. 9
- La scomparsa del Delfino, Mondadori, 1941
- L'ospite inatteso, Mondadori, 1942
- La Tipografia dei Due Orsi, Mondadori, 1942; De Ferrari, 2007
- Il segreto, Mondadori, 1943
- Non avrete la sua testa, il Giallo, 1946
- La nota della lavandaia, Mondadori, 1947
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Salvatore Ferlita
Ezio d'Errico l'illustre sconosciuto che ha inventato il giallo italiano |
Il 19 aprile di trent'anni fa moriva Ezio d'Errico, scrittore, pittore e drammaturgo, nato ad Agrigento nel 1892. Moriva nel più colpevole isolamento, circondato dai suoi quadri e con accanto solo la moglie.
Autore di gialli pubblicati con Mondadori, di opere teatrali tradotte e rappresentate anche all'estero, tra i primi pittori astrattisti in Italia, d'Errico, una sorta di genio rinascimentale, è ancora un universo da esplorare.
Le sue vicende biografiche sembrano avvolte da un alone di mistero: lasciata presto la Sicilia si trasferisce a Parigi, dove tenta l'avventura di pittore e dove conosce artisti di rilievo. Poi, ritorna in Italia, a Torino, per insegnare disegno: tra i suoi allievi Armando Testa, il quale, come in seguito ammetterà, conosce le opere di Picasso, Chagall e Mirò grazie alle sue piccole riproduzioni sulla rivista "Graphicus", per la quale lo stesso d' Errico disegna tra l'altro la prima copertina astratta in Italia.
Ma oltre alla bohème parigina, l'artista agrigentino, in qualità di ufficiale dei carabinieri, conosce anche l'ambiente di corte di Russia, dove incontra lo Zar. In seguito prende parte alla caccia ai briganti in Calabria, e per qualche tempo si ferma a Napoli, per poi trasferirsi a Roma, dopo la seconda guerra mondiale.
Dirige riviste di forte presa sul pubblico, come "Crimen" e dal 1936 in poi compone i primi racconti kafkiani e una ventina di romanzi gialli, negli stessi anni in cui dava alle stampe i suoi polizieschi Augusto De Angelis. Grazie proprio a quest'ultimo e a d'Errico fa irruzione nel giallo italiano l'inquietudine, che mette in crisi la scienza della deduzione e il culto della logica; a dominare invece è l'intuizione, l'empatia psicologica del detective con le vittime e i sospettati.
D'Errico per i suoi polizieschi si ispira chiaramente al creatore di Maigret, tanto da guadagnarsi il soprannome di "Simenon italiano": infatti, il personaggio da lui creato, l'ispettore Richard, conduce tutte le sue indagini in una Parigi fredda sì, ma sanguigna e popolare.
D'Errico, che è meno conosciuto come giallista, è anche commediografo di successo, rappresentato in tutta la penisola; nel 1953 sarà Giorgio Strehler a mettere in scena la sua commedia intitolata "La sei giorni". E mentre va pubblicando gialli come "Qualcuno ha bussato alla porta", "La famiglia Morel", d'Errico scrive straordinarie raccolte di novelle, come "Parabole", "Da liberati", "Noi due disarmati". Sono tra le cose migliori che vedono la luce alla fine degli anni Trenta, attraversate come sono da un elegantissimo surrealismo grottesco e da un'irrefrenabile ansia metafisica. Vengono alla mente i nomi di Bontempelli, Buzzati e Kafka.
Da questo ricchissimo humus narrativo nasce il d'Errico drammaturgo, quello che a 64 anni suonati rinnega tutta la sua produzione teatrale precedente, i drammi borghesi che tanto piacevano al pubblico, per tentare, sotto l'influsso di Beckett, di Camus e di Jonesco, la via della sperimentazione, del vero teatro d'avanguardia. È questo il vero d'Errico di statura europea, l'autore dei dieci testi, pubblicati nel '68, raccolti sotto il titolo "Teatro dell'assurdo".
Ma proprio quando d'Errico si cimenta in qualcosa di veramente nuovo, sconcertante, i teatri italiani gli chiudono le porte. Il successo però gli arride all'estero (in Germania, in Austria, in Svizzera, in Francia, a Buenos Aires) dove dal critico Martin Esslin viene accostato ai grandi del tempo: Beckett, Jonesco, Genet, Arrabal, Tardien, Vian e Buzzati.
Repubblica, 19.04.2002
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Loris Rambelli
Per fatto personale |
C’è un appuntamento mancato nella mia vita.
Fra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera del 1972 ero a Roma.
Allora negli elenchi telefonici della Sip, si poteva ancora trovare il nome di Ezio D’Errico. Avevo preso nota dell’indirizzo (via Isonzo, 42) e mi ripromettevo, con l’improntitudine, di solito fortunata, dei laureandi, di scrivergli una lettera, ma rimandavo.
Su quella lettera sono ritornato spesso col pensiero, anche quando non era più possibile scriverla; avrei voluto dire: porto il cognome di un suo personaggio, quel radiocronista che fa sentire per un attimo la sua voce nel dramma Il formicaio… Ma a quei tempi ritenevo di avere letto troppo poco di D’Errico e volevo presentarmi più preparato ad un eventuale incontro.
Invece, di ritorno da Roma, dopo poche di settimane, appresi dalla «Fiera Letteraria» la notizia della sua morte. D’Errico era scomparso all’età di ottant’anni il 19 aprile 1972.
Ma come! Io ero a Roma, nella sua città, desideravo incontrarlo, e lui se ne andava così, in punta di piedi! Me ne risentii come per uno sgarbo fatto a me. Mi arrabbiai moltissimo.
Gli ho tenuto il broncio a lungo. Poi mi sono rappacificato. Ma non prima di avere letto un suo articolo in cui sosteneva una sacrosanta verità, una verità lapalissiana: che non si può veramente fare la conoscenza di uno scrittore se non attraverso le sue opere.
E tuttavia, concedeva D’Errico, non si può neppure impedire alla nostra fantasia di creare un’immagine fittizia dell’autore che stiamo leggendo. «Poiché non è da escludere» concludeva «(ma sì, lasciatemi questa illusione… a voi in fondo che cosa vi costa?) che qualche lettore abbia questa curiosità e che il suo cervello stia forse già foggiandosi di me stesso chissà quale assurdo ritratto, mi affretto a trascrivere fedelmente i dati quali risultano dal mio passaporto, affinché tutti sappiano come comportarsi: Nazionalità: italiana; Altezza: metri 1,70: Fronte: regolare; Naso: idem; Bocca: idem; Mento: idem; Segni particolari: nessuno!».
Segni particolari: nessuno… Che poi diventò il titolo di un suo romanzo poliziesco.
D’Errico aveva due modi diversi di presentarsi ai lettori. Uno era questo, di confondersi nella folla anonima dei suoi stessi personaggi: uomini comuni, naufraghi della vita, per lo più.
L’altro era quello di emergere con un profilo spiccatamente individuale: di apparire sempre estroso, infaticabile, preso dalla smania di sperimentare, insofferente di ripetere le stesse cose, incapace di soffermarsi a lungo nella pratica di un’attività, che perdeva ai suoi occhi ogni attrattiva nel momento in cui riteneva di avere raggiunto un grado soddisfacente di competenza.
La prima immagine è in sintonia con la sua poetica; la seconda, credo fosse più aderente alla sua vita vissuta.
Certo che la sua ammirazione andava agli uomini dinamici, come dimostra un affettuosissimo ricordo dell’editore romano Gianni Battista, meglio noto con lo pseudonimo di Gianni Darsena, presso il quale nel 1945 D’Errico pubblicò il suo romanzo L’uomo dell’isola:
Ben pochi lo chiamavano il professor Gianni Battista. Per quasi tutti era «Gianni». Invece era professore universitario, così come era giornalista, scrittore, editore, uomo d’affari: ma non credeva ai titoli, alle qualifiche, alle catalogazioni. Credeva soltanto nel lavoro che per lui era passione, staremmo per dire vizio. L’unico vizio della sua vita. […] Debbo fare uno sforzo per pensare immobile, fermo, inoperoso, l’uomo che era la personificazione dell’attività e della gioia di vivere.
Neppure D’Errico credeva alle catalogazioni; non sopportava di appartenere ad una scuola, di aderire ad un gruppo, di prendere la tessera di un partito, così come non si sentiva legato ad alcun paese, neppure nel senso più alto di Patria (come stona sentir dire di lui «siciliano», «agrigentino»); si considerava «internazionalista», «cittadino del mondo». Era nato per caso ad Agrigento da padre pugliese e madre milanese.
E sulla necessità di cambiare continuamente mestiere ci scherzava sopra, come nell’ironica autopresentazione in una raccolta di novelle apparsa a Roma nei primi anni Quaranta.
Ho fatto molti mestieri (non “tutti i mestieri”… badiamo bene) […]. Io cambio mestiere col passare degli anni […]. A vent’anni andavo a cavallo, a trenta dipingevo, e fumavo la pipetta, a quaranta… Be’ insomma adesso faccio lo scrittore, il che non toglie che fra dieci, venti o trent’anni, farò magari l’esportatore di orchidee o il presidente di una repubblica Sud Americana.
C’è poi il passo di una lettera a Carlo Belli, il teorico dell’Astrattismo in Italia, in cui D’Errico, che in quel momento si sentiva osteggiato dal “gruppo astrattista milanese”, reagisce tratteggiando, quasi a colpi di spatola, questa apologia di sé stesso.
…io dipingo, plasmo, scrivo articoli, commedie, novelle, romanzi, biografie, faccio scuola, mi occupo di pubblicità, di tipografia, di impaginazione e di cento altre cose. Questa potrebbe sembrare puerile vanteria in bocca a chiunque, ma io posso dirlo perché sono così intelligente da strafischiarmene di tutto quello che faccio, da ridere dei miei quadri e delle mie commedie (anche se Bragaglia se ne sta occupando), delle mie novelle e dei miei romanzi, ho l’intelligenza di strafregarmene della mia intelligenza, e di giocarmi tutta la mia vita almeno due volte all’anno, cambiando mestiere, paese, amici e attività, perché posso rifare cento volte la mia vita…
Dicono che avesse un pessimo carattere, anzi lo dice e lo ripete lui stesso.
Questo per quanto riguarda il personaggio D’Errico, che non ho potuto incontrare di persona.
Per quanto riguarda lo scrittore… be’, allo scrittore, visto attraverso i suoi romanzi polizieschi, sono dedicati i saggi raccolti in questo volume [Ezio D'Errico: paura e fascinazione, Pirani Bibliografica Editrice (www.biblied.com), «Archivio del Giallo», numero 2, 2012], convinto come sono che l’opera di questo autore «eclettico», come si è ribadito spesso, sia invece unitaria, nella sostanza, e che, al di là del mezzo con cui si esprime, al di là delle sfaccettature che corrispondono ai generi letterari, sia riconducibile a costanti facilmente individuabili, anche nei suoi venti romanzi gialli scritti alla maniera di Simenon fra il 1936 e il 1940.
grazie a: Vicolo Cannery
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Pietro De Palma
Un manierista del Ventennio : Ezio d’Errico |
Ezio d’Errico fu figura avventurosa: giornalista, autore radiofonico, pittore astrattista assai conosciuto e geniale romanziere, anche di polizieschi; un personaggio sempre alla ricerca di qualcosa, di nuovi stimoli, estremamente curioso: Carlo Carrà, in una critica su una mostra di quadri astrattisti di Ezio d’Errico, pubblicata sull’ “Ambrosiano” nel 1936, lo definì “pittore irrequieto”. Una caratteristica che notiamo in altri spiriti ribelli dell’epoca: Pound, Antheil. Ma loro si indirizzarono in un filone di pensiero che guardava con simpatia al nazismo e ad un certo elitarismo spirituale; D’Errico, era invece semplicemente, secondo me, quello che comunemente si dice di un artista, che crede in se stesso e nella sua arte e che non riconosce altri padroni a se stesso che non essa stessa: se non un “un anarchico”, almeno “un anarcoide”.
D’Errico aveva già insegnato grafica in una scuola per tipografi, e pubblicato “un Primo e un Secondo Manifesto dell’Arte tipografica”, qualificandosi come elemento di spicco dell’astrattismo italiano, rivestendo anche una posizione di critica delle correnti pittoriche europee; ma non sopportava l’irregimentazione, non sopportava un potere superiore al suo cui piegarsi e per questo non aveva proseguito nella carriera di ufficiale dei carabinieri, pur essendo arrivato al ruolo di Maggiore.
Nel 1936 cominciò la sua carriera di scrittore di romanzi polizieschi, dando alle stampe il suo primo romanzo, molto interessante proprio per capire le sue caratteristiche peculiari, Qualcuno ha bussato alla porta, cui seguirono molti altri romanzi, in tutto una ventina.
Dopo la Guerra, dopo aver pubblicato nel 1947 il ventesimo romanzo col commissario Richard, “La nota della lavandaia”, ripudiò tutti i romanzi gialli da lui prodotti precedentemente e si oppose alla loro ripubblicazione, e per un certo tempo diresse la rivista “Crimen”, per poi interessarsi al teatro: scrisse dei lavori che lo imposero nel cosiddetto “Teatro dell’Assurdo” di cui divenne un elemento di spicco. Durante l’occupazione di Roma, pare avesse svolto un’attività clandestina di stampa antifascista, e del resto Louis Kibler in Ezio d’Errico’s Theater of the Absurd: Three Plays, lo definisce “a rabid anti-fascist” (Introduction, pag.14).
Nell’ambito del poliziesco, nato in Italia sotto l’egida della Mondadori, egli si mosse intelligentemente: diversamente da De Angelis, anche per non trovarsi in certo modo limitato dall’ottusità delle censura di regime che indicava persino gli scenari in cui doveva muoversi un autore che volesse ambientare in Italia le sue storie poliziesche, egli scelse come fondo per i propri drammi la Parigi simenoniana. E proprio a Simenon egli si rifece, scegliendo di iniziare le avventure del suo personaggio fisso, il Commissario Richard, nel momento in cui il Commissario Maigret di Simenon scomparve dalla scena letteraria: infatti Simenon, come accade a tutti coloro che diventano famosi per qualcosa e poi vi restano appiccicati contro la loro volontà, si scocciò e nel 1933 mandò in pensione il suo Commissario Maigret, dopo aver risolto il suo ultimo ufficiale caso, L’écluse n° 1, anzi, più propriamente, lo mandò a occuparsi del giardino di una villetta sulla riva della Loira - quasi che fosse un altro Nero Wolfe - abitandovi assieme alla moglie.
Va detto però che d’Errico non è il solo autore che prende Simenon come proprio esempio: tutt’altro! Vi è infatti tutta una genia di autori italiani del periodo fascista da Varaldo a De Angelis, che vi si rifanno.
Il motivo è semplice: gli autori italiani, quasi tutti autori e giornalisti e altro, imprestati al romanzo di genere poliziesco, furono messi assieme da quell’autentico genio che fu Alberto Tedeschi, chiamato giovanissimo dallo stesso Arnoldo Mondadori a dirigere la neonata Collana dei Gialli Mondadori, sorta, sull’esempio della francese Le Masque, in poco tempo, dopo che il Fascismo pur avversando il genere poliziesco in quanto corruttore dell’animo dei giovani fascisti, accorgendosi purtuttavia che il Giallo era divenuto un genere seguito da moltissimi italiani, aveva posto delle limitazioni ad esso: il 20% della produzione gialla di una collana editoriale sarebbe dovuta essere riservata ad autori italiani (che al momento non c’erano e quindi bisognava inventarli) che poi avrebbero dovuto articolare le loro storie rispettando alcune prerogative dettate dal Minculpop: delitti commessi in ambienti non sani ma quasi sempre depravati, i delitti si imponeva che avvenissero in ambienti esotici, e che preferibilmente le storie non si appuntassero su “delinquenti di casa nostra” ma stranieri, che non ci dovessero essere suicidi, e che il lieto fine fosse obbligatorio sancendo con la risoluzione del delitto un ritorno all’ordine naturale delle cose.
Così in breve un corposo numero di “italici” scrittori comparve nella collana Mondadori, da Varaldo a Mariotti, da De Angelis a Spagnol. L’esempio che si ricalcò non fu però quello del detective super-uomo di filiazione sherlockiana, che in quegli anni proveniva dagli Stati Uniti d’America, ad es. il vandiniano Philo Vance, ma quello che ci arrivava dalla Francia: Simenon aveva alla fine degli anni ’20 inventato il Commissario Maigret che risolveva i casi basandosi sull’esperienza personale, sul buon senso e sull’indagine quotidiana basata su testimonianze di gente comune: non quindi delitti di spessore straordinario, maturati in circostanze assolutamente eccezionali se non imprevedibili, con delle messinscene fantastiche, ma fatti delittuosi avvenuti nella quotidianità di ogni giorno: in sostanza Simenon toglieva il delitto alle classi aristocratiche e al jet-set (nato sulla presupposizione di De Quincey che il vero delitto “fosse una delle belle arti” e che la morte ordinaria per es. di un facchino non dovesse essere oggetto di studio di un detective come si deve) e lo consegnava al mondo di ogni giorno, cioè al vivere borghese e al realismo quotidiano.
Praticamente la diversità del personaggio Vance da quello Maigret, si può facilmente cogliere, comparando le descrizioni che vengono rese di entrambi, nei rispettivi romanzi di presentazione:, La strana morte del Signor Benson per Philo Vance e Pietr-il-Lettone per Maigret.
Mentre la descrizione di Philo Vance è quello di un super-uomo, anzi di un super-detective, in possesso di tutte le armi psicologiche per poter districarsi nei casi più straordinari del suo tempo, oltre che esser versato in tutto lo scibile e in ogni tipo di sport fisico, e naturalmente un vero uomo dei quartieri alti : “Vance era quello che molti chiamerebbero un dilettante. Ma la parola non gli rende giustizia. Era un uomo insolitamente colto e brillante. Aristocratico per nascita e per istinto, si teneva severamente appartato dalla comune umanità. Nei suoi modi appariva un indefinibile disprezzo per ogni sorta di manchevolezza. La grande maggioranza di quanti entravano in contatto con lui, lo consideravano uno snob. Eppure, nella sua condiscendenza e nel suo disdegno non c’era traccia di falsità. Il suo snobismo era di carattere intellettuale, oltre che sociale. Detestava la stupidità più ancora, credo, della volgarità o del cattivo gusto... Vance era francamente un cinico, ma di rado inclinava all’amarezza: il suo era, piuttosto, il cinismo irriverente di un Giovenale. Lo si può meglio descrivere come un annoiato e altezzoso, ma quanto mai consapevole e penetrante spettatore della vita. Nutriva un acuto interesse per tutte le reazioni umane; il suo era l’interesse dello scienziato, non dell’umanista. Era dotato, esteriormente, di un raro fascino personale. Perfino chi trovava difficile ammirarlo, trovava egualmente difficile non lasciarsene catturare. Quel tanto di donchisciottesco nelle sue affettazioni, l’accento dalla lieve inflessione inglese . eredità dei giorni oxfordiani dopo la laurea . colpivano quanti non lo conoscevano come dei vezzi. Ma la verità è che in lui c’era ben poco del poseur. Era insolitamente attraente, nonostante la bocca ascetica e crudele, come le bocche di certi ritratti dei Medici; e poi, c’era un’alterigia lievemente derisoria nello spicco delle spracciglia. Nonostante i tratti aquilini e severi, il volto era finemente sensibile. La fronte, ampia, inclinata, era quella dell’artista, più che dello studioso. Aveva occhi grigi distanti, naso diritto e delicato e un mento piccolo ma prominente, con una fossetta d’insolita profondità. Alto un metro e ottanta, aggraziato, Vance dava una sensazione di energia e di resistenza nervosa. Esperto schermitore, era stato capitano della squadra universitaria, mentre negli sport all’aria aperta, che amava con moderazione, possedeva un talento per riuscir bene, pur senza troppi allenamenti. Nel golf vantava un handicap di soli tre punti e, in una stagione, aveva giocato nella nostra nazionale di polo contro l’Inghilterra.. Nel modo di vestire era sempre elegante, scrupolosamente corretto fino all’ultimo dettaglio, ma non appariscente.
Vance possedeva nozioni di psicologia veramente fuori dai comune, per aver coordinato e razionalizzato, grazie agli studi e alle letture, il dono di un giudizio delle persone istintivamente acuto. Le sue basi si fondavano su solidi principi accademici. I corsi da lui frequentati comprendevano la storia delle religioni, la letteratura greca classica, biologia, educazione civica, e ancora, economia politica, filosofia, antropologia, letteratura, psicologia teorica e sperimentale e lingue antiche e moderne (S.S. Van Dine, La strana morte del Signor Benson, trad. Pietro Ferrari, L’Unità/Mondadori, 1992, pagg. 12-13-14), la descrizione di Maigret è composta, solida, essenziale.
Maigret è un uomo come tanti, in possesso di una grande volontà e tenacia, oltre che di acume. Inoltre egli non ha proprio nulla di leggendario, semmai viene spesso paragonato al granito, è come la roccia: non si spezza. E per di più è di nascita plebea: “La presenza di Maigret al Majestic aveva inevitabilmente qualcosa di ostile. Era come un blocco di granito che l’ambiente rifiutava di assimilare. Non che somigliasse ai poliziotti resi popolari dalle caricature. Non aveva né baffi né scarpe a doppia suola. Portava abiti di lana fine e di buon taglio. Inoltre si radeva ogni mattina e aveva mani curate. Ma la struttura era plebea. Maigret era enorme e di ossatura robusta. Muscoli duri risaltavano sotto la giacca e deformavano in poco tempo anche i pantaloni più nuovi. Aveva in particolare un modo tutto suo di piazzarsi in un posto che era talora risultato sgradevole persino a molti colleghi.
Era qualcosa di più della sicurezza, ma non era orgoglio. Arrivava solido come il granito, e da quel momento pareva che tutto dovesse spezzarsi contro di lui, sia che avanzasse, sia che restasse piantato sulle gambe leggermente divaricate” (Georges Simenon, Pietr il Lettone, trad. Y. Mélaouah, RCS, 2009, pag. 20).
L’impostazione conferita da Simenon al suo personaggio, piacque agli autori italiani, ed è per questo che gran parte di essi improntarono le loro storie a personaggi che si muovevano nei loro contesti di vita, imitando la metodologia maigretiana.
Il Commissario Richard appare quindi approfittando dell’assenza dell’altro Commissario e nell’immaginario viene ricalcato su di esso: come Maigret, che in Pietr-Le-Letton scritto nell’inverno del 1929 e pubblicato nel 1931, era stato definito nelle prime pagine del romanzo, “.. imponente e massiccio, con le mani in tasca e la pipa ad un angolo della bocca..”, Richard appare imponente anche lui, anzi di più. “..Due guardie... si voltarono... e una disse all’altra: “Strano!.., Quel grassone laggiù somiglia al Commissario Richard”. “Sei matto? Chi ha mai sentito Richard ridere a quel modo?” (pagg. 37-38, Qualcuno ha bussato alla porta, “ I Maestri del Giallo”, Mondadori-De Agostini,1991).
Una figura imponente quindi, che deve incutere rispetto e timore; ma in aggiunta a questo, Richard, quando non è davanti agli agenti si lascia andare e ride sguaiatamente: questo modo di fare chi ci ricorda? Quale altro personaggio è grosso e ride sguaiatamente? L’esimio Dottor Fell, una delle creazioni di John Dickson Carr! Può d’Errico aver letto qualcosa di Carr durante il suo soggiorno parigino, dal 1931 fino al ritorno in patria nel 1933 ? Non sappiamo. Forse è solo un nostro pensiero peregrino, il pensiero di chi ha letto troppi gialli e che fa delle connessioni anche non provate ?
E come non pensare ancora al grande attore francese Charles Boyer, uno dei grandi miti degli anni Trenta, come origine del riferimento al pittore vittima del romanzo, che si chiama guarda caso Charles Boyer? E sarebbe sbagliato pensare che abbia voluto guardare al grande filosofo tomista Tilmann Pesch, quando inventava il personaggio dell’illusionista Tikmann? Nei romanzi di d’Errico c’è tutto e il contrario di tutto. Anche altro troviamo, per esempio la descrizione fisica del commissario Richard: ma, mentre come abbiamo visto per De Vincenzi, la presentazione del personaggio è fatta quasi prendendo ad esempio la presentazione di Maigret, per Richard non è così; questo ci sembra il dato caratteristico di d’Errico, che comunemente viene assimilato a Maigret, ma in realtà se ne discosta: il romanzo non comincia col loro personaggio, ma lo introduce secondo un modulo già bel oliato, alla maniera delle Introductions avec Theme, Variations et Finale che tanti musicisti Biedermeier come Henri Herz per esempio avevano composto nell’Ottocento: il Tema non è mai presentato subito, ma dopo un’introduzione, così da metterlo in piena luce, dopo averlo annunciato e fatto aspettare, avendo così un’attesa maggiore; e subito dopo vi sono le Variazioni, cioè lo svolgimento dell’azione, con il Finale scoppiettante che è parallelamente accostato alla conferenza finale di tanti romanzi polizieschi dell’Età d’Oro del Giallo. Infatti, Richard appare, dopo l’Introduzione del primo Capitolo, “27, Rue Lepic”, in cui viene trovato l’impiccato, nell’omonimo secondo capitolo, “Il commissario Richard”, dove viene meticolosamente descritto: ha un volto flaccido, sbarbato, non è calvo ma i capelli gli descrivono sul lucido cranio una tonsura come quella dei frati, ha gli occhi piccoli e grigi, e le sopracciglia arcuate, circonflesse, cespugliose e nerissime, i capelli sono neri non tinti: “...due accenti circonflessi così caratteristici da far sì che, vista una volta, quella faccia non si poteva dimenticar più”, danno al Commissario Richard un’aria inconfondibile. E ancora: “.. È inutile che io mi travesta e mi trucchi, perché... tutti mi riconoscerebbero solo dalle sopracciglia” (pag. 13, op. cit.).
Secondo noi, il particolare delle sopracciglia è una citazione di due personaggi: innanzitutto, Mefistofele. Il personaggio goethiano, per molto tempo era vissuto solo nella mente di chi aveva letto il romanzo; ma, successivamente varie erano state le occasioni in cui il pubblico aveva potuto vedere il personaggio Mefistofele recitare e farsi un’idea sul suo aspetto, a partire dalle opere liriche (Il Mefistofele di Boito o il Faust di Gounod ) sino al cinema. Proprio il cinema aveva dato una prima espressione al personaggio Mefistofele, fornendo una sua descrizione peculiare in quello che è uno dei capolavori dei primi anni del cinema novecentesco, il Faust di F.W. Murnau, uno dei più grandi cineasti tedeschi del secolo: qui vediamo le famose sopracciglia arcuate, nerissime. È il personaggio del Mefistofele del Faust di Murnau, che ha ispirato prima Carr e poi d’Errico? Ma, non dimentichiamoci che d’Errico dice che esse non erano solo nerissime e circonflesse, ma anche cespugliose. Anche qui si può cogliere un riferimento letterario e poi cinematografico, e ci perdonino i lettori di questo umile articolo per le frequenti digressioni e i paragoni iperbolici, ma le sopracciglia cespugliose ci fanno tornare alla mente quelle di Spencer Tracy quando impersonava “Dottor Jekill e Mr. Hyde”: solo che il film in cui Spencer Tracy recitava risale al 1941 (regia Victor Fleming): quindi apparentemente, a patto che d’Errico come ipotizziamo avesse citato il personaggio di Stevenson, ci troveremmo che non avrebbe tratto nessuna ispirazione visiva da alcunché; in realtà, prima del film di Victor Fleming, vi fu un’altra celeberrima versione cinematografica dell’opera di Stevenson, approntata dal cineasta statunitense di origini armene, Rouben Mamoulian: Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1932), con Fredric March nella doppia interpretazione di Jekyll and Hyde; come si vede molto vicina come tempo storico alla pubblicazione del primo romanzo col commissario Richard (fra l’altro con l’interpretazione del doppio personaggio, Fredric March vinse l’Oscar come miglior attore protagonista).
D’Errico si muove quindi, a parer nostro, non creando solo un personaggio di aria maigretiana, ma anzi molteplici altri personaggi, parecchi riconducibili ad altrettanti famosi, e inspirato anche dal cinema, di cui ogni lettore possa ricordare il carattere peculiare, anche inconsciamente, così da rendere Richard personaggio già conosciuto e amato, quand’anche appena presentato, e subito simpatico: è il personaggio che si è fatto da sé, senza raccomandazioni. Per questo si vanta, gli piace che si parli di lui, così diverso in questo da quel commissario così schivo che era De Vincenzi: “.,.l’uomo veniva dal nulla, aveva percorso faticosamente tutti i gradini della gerarchia e se il suo nome si era imposto negli ambienti polizieschi lo doveva solo a se stesso” (pag. 13, op. cit.).
Non solo. Egli prende le distanze dal modello dello Sherlock Holmes d’oltre manica, tanto per capirci, e delinea il suo “modus agendi”, così diverso, perché al contrario degli indizi, fa leva su una conoscenza dell’uomo, su una fenomenologia psicologica, molto vicina al modello francese di Maigret, tanto da identificarvisi: “Un’identica antipatia mostrava per i colleghi di Scotland Yard, con i quali però aveva qualche volta dovuto collaborare. Brava gente, ma troppo calma… e poi siamo sempre lì, la letteratura li ha rovinati… la cenere del sigaro, il bottone della giacca, il pelo del cane color marrone… non fatemi ridere. Coi bottoni e la cenere del sigaro, a Parigi, non si è mai arrestato nessuno… pazienza ci vuole; naturalmente, anche un po’ di fiuto, e poi… e poi conoscere gli uomini… non gli uomini come li descrivono sui libri, che sono o tutti eroi o tutti farabutti, ma gli uomini come sono nella vita reale, ossia mezzo eroi e mezzo farabutti… ecco il segreto. Il difficile è capire la proporzione della miscela, una volta capita la formula, si intuiscono le reazioni… ogni uomo ha un debole… sarà il giuoco, saranno le donne, sarà la collezione di francobolli, la gola, l’arte, la politica… insomma, ogni uomo nella vita tende a qualche cosa che, di solito, è diversa e distante dal suo mondo quotidiano. Quando quella tale proporzione fra eroismo e farabutteria pencola a favore del secondo ingrediente, si ha un precipitato di criminalità. Questa è la vera chimica, non quella di Sherlock Holmes. E per conoscere gli uomini, bisogna aver fatto, come me, venticinque anni di piantonamenti, di pedinamenti, di soste sotto la pioggia insieme agli scaricatori della Senna, bisogna aver sentito le confidenze dei ballerini di Montparnasse e dei deputati in orgasmo per la caduta del ministero, bisogna aver trincato coi duri delle Halles, quando all’alba, dopo una notte passata a scaricare i quarti di bue, vanno a prendere il cicchetto al’osteria dell’Escargot o alla taverna del Vecchio Granatiere, bisogna aver passato qualche ora a colloquio col condannato a morte, nella cella della gran sorveglianza, mentre i compari del signor Deibler montano il “rasoio nazionale” al boulevard Arago” (op. cit., pag. 14).
A parere nostro, la presa di distanze da Sherlock Holmes, fa anche leva sul sentimento francese anti-inglese, che è in quel momento storico anche il sentimento anti-inglese italiano di Mario Appelius che interpretando in senzo nazionalistico “l’empietà delle sanzioni internazionali contro l’Italia che aveva mosso guerra e conquistato l’Etiopia” (1936, l’anno dell’Impero che è anche l’anno di pubblicazione del romanzo) pronunciava ad ogni piè spinto: “Dio stramaledica gli Inglesi”. Così, assai furbescamente, D’Errico è come se avesse inviato nelle menti dei suoi lettori un messaggio che ora diremmo subliminale: “Richard prende le distanze da Sherlock Holmes, cioè non prende a modello un inglese, e quindi si merita la vostra simpatia”. Ci preme sottolineare un altro carattere dei romanzi di D’Errico: il vissuto personale. D’Errico, come abbiamo ricordato, fu un notevole pittore astrattista. Ora quasi a ricordare la sua vita bohémien, e i suoi stenti, ecco un breve inciso di vago sapore autobiografico, che il Nostro lega alla vittima, il pittore Charles Boyer: costui, “fanatico del cubismo, vendeva poco” (op. cit. pag. 21):
“L’unica stanza pigliava luce da un ampio abbaino a tabacchiera. Da una parte una tenda di cretonne tesa su un fil di ferro celava evidentemente una cucinetta e l’acquaio; il letto basso, alla turca, era nell’angolo opposto. Le pareti erano tappezzate di quadri e di tele senza cornice, il cavalletto e un vaso di terraglia pieno di pennelli erano già cose fuori posto, inutili e tristi, come gli abiti di un morto che non si buttano via e che intanto nessuno indossa” (op. cit., pag. 40).
E ancora più interessante, perché rivela il profondo dell’anima di un artista che vorrebbe che gli altri capissero la sua arte, ma intorno a lui vede solo persone che la rifiutano, o si aggirano sperduti o peggio criticano ridicolizzandola, è il passo in cui Richard nella soffitta abitata dalla vittima e dalla sua piccola e misera famiglia, si aggira tra le sue tele : anche questo sicuramente è un passo che rimanda alle scelte di D’Errico pittore astrattista:
“Il commissario con la scusa di osservare le tele da vicino, provò a muovere qualche passo, ma si sentiva impacciato, goffo, peggio ancora, intruso, fra quei quadri che non capiva e che tuttavia avevano qualche cosa di eccezionale nel modo in cui erano stati concepiti e dipinti. Gli pareva di aggirarsi fra gente che parlasse una lingua diversa dalla sua, con accenti strani, con termini inusitati e dei quali non potesse ridere perché avevano un’inflessione triste e umana, se pur di un’umanità diversa e sconosciuta” (op. cit. pag. 40).
Non è un caso che seguiranno molte altre avventure di Richard a riconfermare nell’Italia anteguerra una simpatia che mai vacillò. Ma D’Errico, copia anche De Angelis. Infatti, quella empatia, quella caratteristica che faceva dire a De Vincenzi di entrare nelle menti delle sue vittime, è presente anche in Richard; e “Il banchiere assassinato” venne pubblicato nel 1935, un anno prima di “Qualcuno ha bussato alla porta” (1936). Del resto un altro riferimento ideale a De Angelis è verificabile in altro romanzo di D’Errico, “La casa inabitabile” (1941). È questo un romanzo peculiare nella collana, perché fu con la sua pubblicazione che Il Giallo Mondadori anteguerra si interruppe. Anche esso si apre come il primo: mentre il primo capitolo è una introduzione, in cui viene presentata la trama che fa da sfondo al romanzo: “Villa Garnier”, nel secondo capitolo “Maurice Proux – Tutti gli sports”, fa la sua entrata il Commissario Richard. Nel romanzo ritroviamo frequenti accenni al riferimento italiano di d’Errico, cioè Augusto De Angelis (come anche specificato nella prefazione di Loris Rambelli), riferimenti che sono letterari e che rimandano al decadentismo dannunziano, di cui l’opera di De Angelis è pervasa:
“.. Angelica Proux ardeva come un cero; il suo corpo magro ne aveva preso il colore e gli occhi la fiamma febbrile. Camminava lentamente per le camere del suo piccolo alloggio divenuto improvvisamente vasto come una cattedrale, e ogni tanto appoggiava la fronte ai vetri ruscellanti. I fanali del Quai Victor Hugo riflettevano nell’asfalto bagnato riverberi d’oro che giungevano serpeggiando fino al marciapiede opposto. La Marna era una voragine nera, sulla quale i ponti battuti dalla pioggia si accampavano come tentacoli spettrali lanciati dalla strada fra le due rive. Il paesaggio familiare sconvolto dalla bufera era irriconoscibile, così come avevano cambiato aspetto gli oggetti più comuni della casa percossa dalla sciagura” (Ezio d’Errico, “La casa inabitabile”, Libreria dell’Orso, Pistoia, 2004, pag. 84).
Si notino l’uso sapiente degli aggettivi e i preziosismi lessicali: tutto deve contribuire a inquadrare l’atmosfera opprimente e gotica di tragedia annunciata se non consumata, anche una pioggia, che diventa espressione di disperazione e tristezza cosmica; la misura opprimente e disperata di una persona che ha perduto le persone care, che vorrebbe trovare in se stessa le energie per reagire o comunque vivere nel chiuso del suo dolore, senza necessariamente essere infastidita da chi è estraneo alla sua tragedia, che gli comunica vuote condoglianze, si rivela in un altro passo, seguente a quello prima descritto: “Ora la donna poteva misurare in tutta la sua vastità l’orrore che l’aveva colpita, e la solitudine che la circondava aveva l’altezza cupa che hanno per il prigioniero le mura del carcere. Di giorno c’era sempre qualche vicina che, sia pure infastidendola con le sue condoglianze, la costringeva ad ascoltare un’altra voce umana” (op. cit., idem).
Ci ha ricordato qualcosa? A noi questi passaggi hanno ricordato un’opera recente che l’anno scorso ha vinto il Premio Tedeschi: il romanzo di Enrico Luceri, un autore che, mischiando riferimenti consci e inconsci, ha creato un bel romanzo; e che ci rammenta, quanto gli autori del ventennio abbiano influito sulla narrativa contemporanea di genere: Scerbanenco, Varaldo, d’Errico, De Angelis; proprio Alessandro Varaldo, secondo noi, ha influito, in certa misura, con il suo Ascanio Bonichi, sul Corrado Archibugi di Massimo Pietroselli.
Nel caso di d’Errico, però, secondo noi, assistiamo ad un intendimento cui, da parte sua, anche Aveline, più o meno in quegli anni, ma in Francia, cercava di dare voce: assistiamo alla rivalutazione del Romanzo Giallo in quanto non Narrativa di Genere ma Narrativa tout-court. Ezio d’Errico come Claude Aveline? Il paragone non ci sembra improponibile: in entrambi i casi, anche se in d’Errico non c’è mai la consapevolezza dell’intellettuale che vuole sghettizzare il genere di proposito, c’è comunque l’uso sempre maggiore e a seconda dei casi, di un uso della lingua per intenditori: e in questo eleva il tono dell’opera poliziesca rivalutandola letterariamente.
E leggendo un altro passo di questo notevole romanzo, “si può fare anche un altro pensierino” : “...ma la notte essa restava atrocemente sola, e l’insonnia la faceva ambulare da una camera all’altra costringendola a misurare a gocce la spaventosa lunghezza delle ore” (op. cit., pag.. 85).
Sarà una nostra astrazione il fatto che anche il ricorso all’insonnia voglia essere, in un’atmosfera spettrale o comunque misteriosa, l’evocazione gotica e fantastica, del “non morto”? Chi è insonne non può dormire anche se lo voglia, come il non morto vorrebbe morire, e invece è destinato a vivere in uno stato a metà che non è né vita né morte. Un altro legame che lega d’Errico a De Angelis? O un riferimento che lega d’Errico alla letteratura dell’incubo? O alla ghost-story ? E gli stessi personaggi che appaiono in “La casa inabitabile” sono rapportabili a personaggi realmente esistiti? Gaetano Fournier, il bettoliere del “Cigno Bianco” non ci ricorda nel cognome il grande Pierre Fournier, sommo violoncellista che proprio negli anni di d’Errico era al culmine della fama? E Sebastiano Trimard, il vecchietto acquirente di Villa Garnier, non può rimandare ad un oscuro artista del Seicento, Sebastiano Strada (“trimard” in francese equivale anche all’italiano “strada”), che un pittore come d’Errico poteva conoscere?
Insomma, i romanzi di d’Errico sono - secondo noi - enormi calderoni dove bolle un po’ tutto, e dove i riferimenti a cose e persone non sono proprio “puramente immaginari”.
In Italia, le opere di d’Errico sono esaurite da molti anni: negli ultimi cinque anni, sono tuttavia stati ripubblicati, da piccoli editori: “La casa inabitabile”, “Il trapezio d’argento”, “La tipografia dei due orsi. Tutto il resto è esaurito. Qualcosa dei giallisti italiani del Ventennio, tra cui d’Errico (“Qualcuno ha bussato alla porta”), fu pubblicato in una collana Mondadori degli anni ’70, i GIM (Gialli Italiani Mondadori): ma anch’essi non sono facili da reperirsi . Lo stesso romanzo, fu poi ancora una volta ripubblicato nella collana “I Maestri del Giallo” della Mondadori-De Agostini, nel 1991, a ricordare ancora una volta l’importanza di quel romanzo, nella carriera del Nostro.
Con la “La casa inabitabile”, romanzo pubblicato col numero 266 della serie de “I Libri Gialli” di Arnoldo Mondadori Editore, nell’ottobre 1941, si chiuse temporaneamente l’avventura della mitica serie di romanzi polizieschi italiani: infatti, prendendo ad esempio un banale fatto di cronaca nera (due studenti milanesi di buona estrazione sociale che avevano compiuto una rapina in una villa e picchiato una cameriera, una volta arrestati, dichiararono di essere stati esaltati dalla lettura dei gialli), Mussolini decise di farne sospendere le pubblicazioni.
Quindi... benediciamo in fondo se perdemmo la guerra: non sapremo mai cosa non abbiamo guadagnato, ma sappiamo sicuramente cosa avremmo perso: la capacità di divertirci e di appassionarci, leggendo un bel Giallo Mondadori.
da: blog giallo mondadori, dicembre 2009 |