"Sono stato trascinato alla politica rompendo con tanti amori. Volevo fare dei film, occuparmi di poesia. Amavo Chaplin, Leopardi, Ungaretti, Montale. Ed ero tutto proiettato verso quel mondo. Poi è arrivata la bufera del Novecento. Il secolo mi ha preso per il collo e mi ha consegnato alla politica. É andata così e non me ne pento affatto." Sono giorni di vigilia in casa Ingrao. In attesa di mercoledi 30 marzo, allorché il grande dirigente del PCI compirà i suoi primi 90 anni, tra cerimonie ufficiali e l'affetto dei figli suoi e di Laura, «che gli insegnò a capire i carcerati.» Quei figli rispetto ai quali, confessa divertito, «d'essere senza dubbio e a tutt'oggi più a sinistra.» E allora, a distanza di un anno dall'ultima volta (quando parlammo degli 80 anni dell'Unità e di Ingrao «inventore» de l'Unità moderna) torniamo di nuovo a casa sua. Nell'appartamento luminoso di Via Balzani a Roma, tra i dipinti di Vespignani, Chagall e Guttuso, così «in rima» col suo '900. E per un'occasione ancora più speciale. Perché si tratta di parlare di una vita intera. Delle sue scelte di fondo. Dei crocevia esistenziali. Delle cose fatte bene, e di quelle fatte male o non fatte. E tra le cose ben fatte per Ingrao c'è senz'altro la milizia nel PCI, il partito a cui ha dedicato l'esistenza. Del quale dice: «È stato un grande partito di popolo che ha guidato la Resistenza e ci ha resi più liberi.» Benché poi per Ingrao quello stesso partito sia stato «colpevole di ritardi ed errori. Che hanno contribuito alla sua fine nel 1989. E indirettamente anche alla deriva moderata, da cui è uscito Berlusconi.» Ma c'è una parola chiave che è la sintesi dell'avventura umana di Pietro Ingrao: comunismo. Ecco, nel festeggiare questo compleanno con lui, vogliamo chiedergli proprio questo, a mo' di filo conduttore: che senso ha per lui quella parola? Perché non intende abbandonarla? E perché anzi la rilancia, dopo il crollo di un'intera tradizione? Vorrei cominciare da una questione «biografica» ineludibile: il tuo rapporto con il comunismo. Ebbene, la tua recente adesione a Rifondazione è una riconferma, oppure è una revisione del tuo essere comunista? «Mi pare indubbio che sia una riconferma. Fino a prova contraria Rifondazione si definisce comunista, o no? Del resto non ho mai avvertito dentro di me una rottura con l'ideale e la prospettiva comunista, benché sia convinto di aver commesso molti errori nella mia vita. Cosi come sono persuaso che il comunismo marxista, leninista e stalinista - quello del '900 di cui sono figlio - abbia commesso tanti sbagli. Al punto da sfociare in una palese sconfitta storica. Nondimeno io resto legato aIl'ideale comunista.» Rivendichi piena coerenza con la tua milizia nel PCI, variante del comunismo novecentesco? «Certo che la rivendico. E tuttavia vedo oggi con chiarezza non solo gli errori commessi dal comunismo leninista, ma anche quelli di cui porto la responsabilità personale...» Quali furono all'interno del PCI gli errori più gravi e le scelte mancate che rimpiangi? «Uno su tutti: il 1956. Allora vennnero aIla luce i crimini e le deviazioni di Stalin e dello stalinismo. Ma in quel momento mancarono, sia da parte del PCI sia da parte mia, l'autocritica e la correzione necessaria.» Se non sbaglio tu distingui tra leninismo e stalinismo. Ma ravvisi ancora nell'Ottobre 1917 una data spartiacque. Non credi però che già il leninismo contenesse in sé tante tragiche deviazioni? «Senza dubbio la Rivoluzione d'Ottobre è un grande spartiacque storico mondiale. Culminato nella conquista del potere da parte di due partiti comunisti: sovietico e cinese. E addirittura nella fondazione di un impero. È altresì vero, però, che l'errore di fondo non sta solo nello stalinismo, ma risiede già nel leninsmo. E a tale conclusione sono arrivato tardi, diciamo alla fine degli anni '60. E ci sono arrivato ragionando sulla libertà. Sulla libertà come pratica politica di confrontò e di dibattito dentro il partito. Nell'organizzazione leninista infatti, già ai tempi di Lenin, non era prevista libertà di ricerca e di confronto tra posizioni diverse o contrapposte.» Cos'è che a un certo punto hai avvertito come insostenibile: il modello di società? La violenza di partito? La dittatura del proletariato o che altro? «Da un certo momento in poi tutto ciò ha rappresentato per me un serio problema. Qualcosa di inaggirabile. Anche perché la dittatura del proletariato nella versione di Marx era l'indicazione di una tendenza generale del mondo. Di un processo di socializzazione democratica della politica. Viceversa, nell'accezione leninista e russa, essa conteneva una tara di fondo sulla questione della libertà. Un vizio legato all'oppressione e alla repressione esercitata dal partito concepito da Lenin.» La tua critica investe dunque la Terza Internazionale. Hai mai pensato che si potesse ricostruire un altro filo muovendo da un'altra tradizione, cioè dal socialismo europeo? «Ci ho pensato, specie dalla seconda metà degli anni 70 in poi. Posso raccontarti a riguardo un episodio preciso, che concernel a mia vita, risalente al 1978-79. Ero stato presidente della Camera sino al termine della legislatura interrotta dalla morte di Moro. In quel frangente viene riconfermato l'impegno per una presidenza comunista della Camera, anche per la legislatura sucessiva. Il partito mi chiede perciò di ricoprire ancora quell'incarico, ma io rifiuto. Ricordo aspre discussioni in direzione, per indurmi ad accettare. Con Pecchioli che si alza e mi intima di obbedire, in nome della disciplina di partito. Tenni duro e dissi ancora di no. Tanti anni dopo ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dallo stesso Pecchioli che era stato lui a sbagliare, anche se egli ribadì di non comprendere le ragioni del mio rifiuto. E adesso lo dico a te il motivo. Sentivo il bisogno di rileggere l'accaduto di tutti quegli anni. E la questione che più mi stava a cuore era proprio quella a cui tu alludevi: capire quel che era stato il socialismo europeo. Avvertivo infatti la crisi che attraversava non solo il comunismo europeo, ma anche quello italiano. E volevo capire quanta parte di verità c'era in quel socialismo continentale, che storicamente era stato oggetto di forte condanna da parte del PCI.» Ti interessavano i padri - Kautsky, Bernstein, Adler - oppure i moderni eredi della SPD e delle altre socialdemocrazie? «Gli uni e gli altri. Con particolare attenzione alla socialdemocrazia di allora: Brandt e Palme prima di tutto. Naturalmente distinguevo tra la destra socialdemocratica e la sinistra. In particolare mi interessava la sinistra giovanile tedesca degli Yusos. Ad ogni modo io rifiutai di ridiventare presidente della Camera, da un lato perché avvertivo l'esigenza di riflettere sul comunismo leninista e stalinista. E dall'altro per riprendere contatto con quelle forze socialdemocratiche con le quali pensavo si dovesse stabilire un rapporto, dopo la sconfitta ormai annunciata e incipiente del comunismo sovietico.» Mentre il PCI rifluisce e s'arrocca nella riproposizione del compromesso storico, tu scopri la Riforma dello Stato. Quello poteva essere un terreno di incontro con i socialisti italiani. E invece... «I socialisti italiani in quel momento sono Craxi. Tuttavia c'era ancora a quel tempo un socialismo al quale resto molto legato. Quello di Riccardo Lombardi e della sinistra del PSI. Con loro mantenevo un dialogo aperto, per costruire assieme una saldatura tra culture che avrebbe potuto impedire l'egemonia craxiana. Ma era una realtà, quella del socialismo europeo, con la quale noi del PCI non avevamo un vero rapporto. Perciò volevo conoscere i tedeschi, gli austriaci, gli svedesi. Per vedere se esisteva un mondo del socialismo con il quale ci si potesse intendere. Ma tutto questo è finito in una sconfitta. Una sconfitta comune.» Veniamo al fatidico 1989. All'anno della svolta PDS che ti ha visto contrario al punto di uscire poi dal partito. Non si poteva anticipare quella svolta? Condizionarla e spingerla in direzione di quel socialismo di cui parlavi? E non è stato infecondo dire soltanto no da parte tua? «No. Non erano possibili altre strade. Io ho detto di no, ma sono rimasto a lungo nel partito a combattere come minoranza, mentre una parte se ne andava. Occhetto aveva in testa un approdo radicalmente diverso da quello di un partito socialista di sinistra. E non solo lui. Anche D' Alema. Dal mio punto di vista i DS, sebbene aderiscano al socialismo europeo, rappresentano ormai una forza moderata e di centro. Personalmente lo compresi quasi subito. Certo, ho sperato all'inizio che la posizione di D' Alema fosse diversa. Che con lui fosse possibile sviluppare una discussione. Ma ho dovuto rendermi conto che anche lui aveva in mente un modello ben lontano dai partiti socialisti. Insomma, erano e sono molto più moderati di Brandt. E i fatti lo hanno confermato. Meglio prenderne atto. Quanto a me mi riconosco in altri valori. I valori della sinistra, del movimento operaio, della liberazione del lavoro.» E invece, al di là della tradizione, da dove ricomincia per te la sinistra? «Il partito della Rifondazione al quale mi sono iscritto mi pare rilanci proprio il grande obiettivo della liberazione del lavoro. Quello della lotta contro lo sfruttamento. In nome della riappropriazione da parte dei lavoratori del loro destino e del loro "fare". Su questo si innesta oggi una grande e ulteriore idealità, che in passato non era così centrale: la pace. Non a caso Bertinotti parla oggi di non-violenza.» La non-violenza senza specificazioni non rischia di cristallizzarsi in qualcosa di mistico e persino di religioso? «La non-violenza è un definirsi in rapporto alla storia e a quel che siamo stati. Ebbene, il marxismo metteva al centro un'idea di rivoluzione non solo sociale e di valori, ma anche armata di forza. Il potere andava preso materialmente. Con le armi. Di qui il mito di una rivoluzione che si impadroniva dei punti chiave dello stato ed estrometteva i borghesi. C'era in questo un'idea di naturale violenza, ribadita da Marx e poi da Lenin. Oggi viceversa si ipotizza la possibilità di prendere, o meglio, di raggiungere il potere. Senza ricorrere all'urto armato cioè ad una logica che la mia generazione politica non ha mai escluso dal suo orizzonte.»
D'accordo, il Piano Solo e la strategia della tensione. Ma davvero sostieni che la presa violenta del potere fosse tra gli obiettivi del PCI? Francamente a me non pare affatto. «Si supponeva seriamente che l'avversario potesse spostare il terreno dello scontro. E la storia dà conferma di tentativi e trame di questo tipo. Come che sia, per tornare alla non-violenza, essa vuole esprimere la distanza da un'intera epoca nella quale la violenza era considerata inseparabile dalla politica. Il che non signifIca che i comunisti debbano starsene inerti a subire la violenza, che non occuperanno più le terre in Brasile, o che non intraprenderanno più azioni organizzate di massa, anche energiche. L'importante - ecco il punto - è disinnescare il rapporto fino ad oggi ineluttabile e necessario tra la politica e la violenza. Un nesso tipico della politica novecentesca, e non solo della politica comunista. Consentimi infine di ricordare che è proprio l'accento messo oggi da Bush sulla guerra preventiva - e sulla violenza necessaria ad affermare i valori e il predominio USA - a rendere attuale su scala planetaria il tema della non-violenza. In una con i diritti civili, democratici e sociali contro ogni forma di oppressione e di gerarchia imperiale fondata sulla guerra.» Torniamo più da vicino alla tua biografia. Ai Littoriali e al tuo fascismo giovanile, in passato oggetto di polemiche. Come avvenne il tuo passaggio al comunismo? «Sono stato avanguardista, e poi nei Guf. E ho condiviso almeno una parte dell'ideologia fascista. Scrissi nel 1934 a diciannove anni una poesia, brutta in verità, dedicata alla fondazione di Littoria. E partecipavo del clima di allora. Ma proprio ai Littoriali di Firenze e di Roma conobbi dei coetanei, che mi aiutarono a rifiutare il fascismo. Vuoi qualche nome? Antonio Amendola, uno dei figli di Giovanni Amendola - nonché fratello di Pietro e Giorgio - che era già un antifascista scatenato. Gli anni decisivi della svolta per me furono quelli tra il 1934 e il 1937, quando a Roma si formò un gruppo di giovani, già antifascisti o divenuti tali da poco. E il capofila era Bruno Sanguinetti, figlio del proprietario dell'Arrigoni, a cui devo molto.» Quando giunse per te il momento preciso della rottura politica col fascismo e su quale punto? «Con la guerra di Spagna, nel 1936. Quando arrivai alla conclusione che non solo non ero più fascista; ma che intendevo combattere a fondo il regime. Compresi allora la natura violenta, irrazionale e bellicista del fascismo, impegnato a rovesciare la democrazia spagnola. Cambiano così il clima e i discorsi. Prima, con Amendola, parlavamo di ragazze, di libri e di film, girando a piedi in quella Roma e senza una lira in tasca. Dopo, la politica diviene assolutamente centrale. Del resto con Hitler ormai al potere, era iniziata la persecuzione di tanti intellettuali in Germania. Di quelli che amavo di più. Ad esempio stravedevo per Rudolph Arnheim, il grande teorico del cinema, costretto poi ad emigrare. Lo incontravo a Villa Torlonia, alla rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini. Proprio Arnheim mi raccontava della tragedia nazista e contribuì ad orientarmi verso l'antifascismo. II mio fu un cammino lento. Lungo il quale fui aiutato anche da uomini come Alicata, Trombadori, Bufalini, Lucio Lombardo Radice, già schierati contro il fascismo e che facevano opera di proselitismo e di cospirazione, contro le indicazioni di Benedetto Croce. Quel Croce al quale essi avevano scritto, e che li aveva invitati a studiare. Fu così che anche io divenni un cospiratore.» Cospiratore per amore o per forza? «Amavo la poesia e il cinema, ieri come oggi. Ho studiato al Centro Sperimentale per un anno. Nato in un borgo di provincia ero appassionato all'espressione estetica, all'incastro delle parole. Poi qualcuno mi ha detto: "Non se ne parla, sei nato in un'altro secolo!" Chi? Quei coetanei di cui ti raccontavo. Che mi dicevano: "Fai pure le tue poesie, ma non vedi la guerra, quell'operaio sfruttato, quelli che soffrono?" Sono loro che mi hanno tirato dentro la politica, le bufere del secolo e il comunismo.» E a chi ti chiede se ne valesse la pena, visti i tragici prezzi del comunismo, che rispondi? «Rispondo che malgrado gli errori che lo hanno portato alla sconfitta il comunismo ha evocato la grande questione di questo secolo: la liberazione del lavoro. Ci sono milioni e milioni persone nel mondo che subiscono e soffrono inginocchio. E liberarle è ancora la questione del mio tempo.» da l'Unità, 26 marzo 2005 |