Rudolf Ivanoviç Abel

Rudolf Ivanoviç Abel (ma il suo vero nome era Vilyam Genrikhovich Fisher) nacque nel 1903 a Pietroburgo: fin da piccolo fu a stretto contatto con gli ambienti rivoluzionari perchè il padre, operaio, era un militante bolscevico, e quando questi fu deportato in Siberia lo seguì.
La matematica fu sempre una delle grande passioni di Rudolf, che infatti si iscrisse alla Facoltà di Ingegneria: è il periodo della guerra civile seguita alla rivoluzione d'ottobre ed il giovane studente svolge un'intensa attività politica, in particolare fra gli altri studenti immigrati; impara le lingue straniere e prende la laurea in ingegneria radiotecnica.
Applica fruttuosamente le sue conoscenze prestando servizio in vari reparti di logistica e telecomunicazioni dell'Armata Rossa, e al momento del congedo gli si presentano due alternative: seguire la carriera professionale o proseguire il lavoro tecnico in un settore legato alla sicurezza, entrando a far parte del servizio segreto.
Sceglie questa seconda strada e nel 1927 entra a far parte dell'organico dell'NKVD, Narodnyi Komissariat Vnutrennikh Del, Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, nel dipartimento incaricato dello spionaggio. Per diverso tempo si occupa principalmente di comunicazioni, ma nel 1933 viene inviato in Germania, dove Hitler era appena andato al potere, e con tutta probabilità collaborerà con l'Orchestra Rossa, la rete spionistica antinazista.
Sul suo lavoro in effetti si sa ben poco, perché - trattandosi di uno dei più importanti agenti sovietici - le notizie che lo riguardano sono state sempre avvolte nel riserbo; sicuramente, però, egli si distinse, perché salì di grado e nel 1948 viene inviato negli Stati Uniti, presumibilmente per dirigere la rete informativa.
A differenza di molti agenti, Abel non utilizza una copertura diplomatica ma fa il suo ingresso negli USA con un passaporto falso: si stabilisce a New York con due diversi nomi e si fa passare per pittore e fotografo. Le due identità vennero ricavate da due americani realmente esistiti ma morti in tenera età: con una procedura abituale Mosca aveva per entrambe costruito a tavolino una "leggenda", cioè un'accurata biografia, tanto credibile quanto completamente inventata.
Causalità o "sfacciata audacia" (come disse la pubblica accusa) che egli avesse installato il proprio studio di pittore - con tanto di antenne per onde corte - proprio di fronte al Federal Building, sede di tutti gli organi di polizia di Brooklyn e Long Island?

Nel 1957 viene arrestato, processato e condannato a trent'anni. È appunto dagli atti del processo che sono state ricavate le poche notizie che fanno un po' di luce sulla sua attività, indirizzata soprattutto sulla raccolta di informazioni di tipo militare: pare che sia stato proprio lui a svelare a Mosca i progetti dei primi sottomarini nucleari e le mappe delle installazioni missilistiche statunitensi.
Si avvalse certamente di una rete ampia ed efficiente, e il fatto che i soli nomi emersi pubblicamente siano quelli di funzionari sovietici fa ritenere che, al contrario, egli avesse reclutato più di un membro delle forze armate o dei servizi statunitensi, cosa che però il governo americano negò ostinatamente, quasi a voler occultare le gravissime falle che in quegli anni si aprirono negli apparati governativi.
In ogni caso su tutta la sua vicenda permane ancora il mistero, perché ciò che racconta Abel contrasta notevolmente con le varie ricostruzioni fornite dalle autorità di Washington.
A tradire Abel fu il tenente colonnello del KGB Reino Hayhanen e stretto collaboratore - in gergo "aiutante dell'agente residente" - di "Mark" (il nome in codice di Abel): era a Parigi e durante una di quelle colossali sbronze di cui Abel sapeva e che temeva sarebbero state fatali, si lasciò scappare chissà cosa: resosi conto di cò che aveva fatto aveva solo due alternative, l'ambasciata sovietica (e relativo trattamento) o quella americana. Scelse la seconda e spiattellò tutto quello che sapeva su Martin Collins ed Emil Goldfus, alias Abel. Poi al processo fu il testimone chiave dell'accusa.

La storia venne anche arricchita di particolari ad effetto: uno dei tanti ragazzi che recapitavano a domicilio i giornali avrebbe ricevuto da una cliente un quarto di dollaro, che, sorpresa!, cadendo a terra si sarebbe aperto; la moneta proveniva da una giacca lasciata alla signora da Emil Goldfus e conteneva un microfilm. Inverosimile, naturalmente, che una spia che gli stessi americani giudicarono di straordinaria abilità avesse commesso un errore così grossolano.
Ma anche la versione di Abel contiene qualche particolare colorito: egli infatti sostiene di aver ripetutamente beffato gli uomini dell'FBI arrivati a casa sua per arrestarlo: pur non conservando mai in casa nulla di compromettente, proprio quel giorno aveva fatto un'eccezione, dovendo a tutti i costi terminare un lavoro urgente, ed aveva un cifrario e due microfilm: mentre gli agenti perquisivano, il primo lo usò tranquillamente per pulire alcuni pennelli sporchi di colore e lo buttò poi nel wc insieme a un microfilm; l'altro, nascosto nel fermacravatta, lo distrusse mentre lo portavano via in automobile. Quando poi stava viaggiando in aereo per essere portato in una località segreta dove l'avrebbero interrogato, Abel commentò che era contento di andare in Alabama, perché non c'era mai stato: i suoi angeli custodi trasecolarono e gli chiesero come diavolo avesse fatto a capire dov'erano diretti: "guardando le stelle" rispose con un sorriso malizioso.
Non necessariamente le due storie sono del tutto false (ma ovviamente il capo dell'FBI, il famigerato John Edgar Hoover, (*) liquidò Abel con toni sprezzanti "Una vita intrisa di menzogne"), perché i trucchi del mestiere sono innumerevoli, e spesso non è possibile distinguere quelli reali da ciò che esce dalla penna di qualche scrittore dotato di buona immaginazione. Nelle spy stories, ad esempio, almeno un tempo si dava ampio spazio a travestimenti e chirurgia plastica, che nella realtà sono stati praticati assai poco in quanto suscettibili di facile deterioramento.
Il processo, conclusosi con la condanna a trent'anni, si svolse senza particolari colpi di scena, ma sono interessanti alcune deposizioni: William P. Tomkins (capo della Sezione Sicurezza Internazionale del Dipartimento di Stato) rese omaggio alle capacità di Abel definendolo "il più grande professionista dello spionaggio che abbia mai incontrato" e Burt Silvermann, pittore, vicino di casa di Abel a Brooklyn, lo descrisse così: "Un uomo sensibile, generoso, colto e anche un buon pittore. Era altrettanto dotato per la tecnica che per le arti. Aveva comperato una chitarra e sei mesi dopo suonava Bach come Segovia. Adorava anche la matematica e nei momenti liberi si dilettava a leggere Einstein. Parlava correntemente quattro lingue e la sua biblioteca era piena di classici. Politicamente era un liberale, come tutti gli artisti. Ma era un molle. lo gli dicevo sempre che con gente come lui McCarthy non ha da farsi cattivo sangue."
Su quest'ultimo aspetto è da notare che la realtà era esattamente all'opposto: Abel non parlò, nè tanto meno fece nomi, confermandosi un uomo di ferro e di grande competenza. E rifiutò seccamente l'offerta del governo USA: la libertà e molte decine di migliaia di dollari se avesse vuotato il sacco.
Egli stesso ebbe a dire: "Molti ritengono che gli agenti segreti, abituandosi all'idea di un eventuale insuccesso e arresto, cessino di pensarci, il che provoca la perdita della vigilanza. Per la verità, si deve evitare di pensare continuamente alla possibilità di essere arrestati. La tensione nervosa si riflette indubbiamente sulle condizioni psichiche e sul lavoro dell'agente segreto. Come il soldato al fronte si abitua all'idea della possibile morte, così l'agente è sempre cosciente del pericolo che incombe su di lui. Ma un uomo ragionevole non consente a tale consapevolezza di opprimerlo. Egli prende le sue misure per ridurre il pericolo al minimo, ma si obbliga a pensare, più che alla propria sicurezza, al modo migliore per adempiere al proprio incarico."
L'avvocato di Abel, James B. Donovan (autore di Il caso del colonnello Abel, Rizzoli, 1968), ricorda che - malgrado il rapporto di vera e propria amicizia che si instaurò fra i due - nemmeno con lui Abel ammise esplicitamente di essere un agente sovietico: lo confermò solo indirettamente quando Donovan suppose che Mosca l'avesse abbandonato: "Non sono stato 'cancellato'. Naturalmente non possono compromettersi."

Febbraio 1962: l'umidità gelida che sale dalla Spree rende ancora più uggiosa l'alba berlinese, e sul ponte di Glienicke, posto di frontiera tra il settore sovietico e quello occidentale, si svolge una scena inconsueta ma non rarissima: due macchine scure si fermano alle opposte estremità, ne scendono varie persone, ma solo due s'incamminano sul ponte: l'uomo proveniente dal settore est è corpulento, un po' nervoso, e indossa un colbacco; l'altro è minuto, ha il volto affilato e lo sguardo fermo, e incrociandosi forse si lanciano un'occhiata. È il classico scambio di prigionieri: da una parte Abel e dall'altra Gary Powers, il pilota dell'aereo-spia U2 abbattuto dai sovietici due anni addietro: l'americano non aveva usato la pastiglia di cianuro e ai russi aveva raccontato un bel po' di cose interessanti.

"Willie" Fischer, decorato con l'Ordine di Lenin, morì di cancro nel 1971 e presumibilmente passò gli ultimi anni a insegnare il mestiere in qualche sezione di addestramento del KGB.

Abel - Fischer

(*) Persona degna di nota il signor Hoover: grande organizzatore, estremamente energico, riuscì a costruire un apparato di prim'ordine, oltre a tutto facendo credere al grande pubblico che il Federal Bureau of Investigation fosse semplicemente un corpo investigativo e non un organismo di controspionaggio e una vera e propria polizia politica. Quando nel 1924 entrò a far parte del Bureau, questo aveva poco meno di 600 dipendenti, poche risorse e una fama di grande inefficienza: diventatone direttore cinque anni dopo, s'impegnò duramente per rafforzare tutta la struttura, dotandola delle tecnologie più sofisticate, decuplicando l'organico (attraverso, però, una selezione durissima; oggi i dipendenti sono più di 30.000, fra agenti e impiegati), instaurando una disciplina interna particolarmente rigida, e innovando in modo radicale le metodologie di approccio al crimine: a lui si devono l'allestimento dell'accademia nazionale di Quantico per l'addestramento degli agenti, l'immenso archivio per le impronte digitali, i modernissimi laboratori scientifici, le svariate unità speciali (celebre quella che si occupa dell'analisi comportamentale).
Il comunismo era la bestia nera di Hoover e non si può negare che egli abbia ottenuto successi considerevoli, infiltrando di agenti tutte le organizzazioni della sinistra americana (i maligni dicevano che il PCUSA contasse più sbirri che compagni), distruggendo il movimento delle Pantere Nere, inventando il controllo capillare su tutte le biblioteche in modo da individuare i potenziali sovversivi, dirigendo con impeto la caccia alle streghe; a onor del vero risultati importanti li conseguì anche nel campo strettamente criminale, incastrando Al Capone, eliminando John Dillinger, risolvendo il clamoroso caso del rapimento del figlio di Lindbergh.
Negli oltre quarant'anni in cui diresse con pugno di ferro l'FBI, Hoover vide passare sette Presidenti (su ciascuno dei quali, naturalmente, aveva cospicui fascicoli) ed accumulò un potere immenso: "Me ne fotto dei diritti civili" usava dire, e i suoi metodi fascistoidi furono la delizia di tutti coloro i quali si discostavano dallo stile di vita americano. Peccato che Hoover stesso avesse qualche vizietto: fu infatti segretamente immortalato in una fotografia che lo ritraeva en travesti durante una delle numerose orge a cui partecipava...