Nel 1966, con il rinnovo del contratto degli elettromeccanici, accadde un fatto sorprendente: dopo quasi vent'anni di divisione le tre grandi Confederazioni sindacali - CGIL, CISL e UIL ed i rispettivi sindacati di categoria, FIOM-CGIL, FIM-CISL, UILM - ritrovarono un terreno unitario di confronto. Fu più che altro una spinta proveniente dal basso, dalle grandi fabbriche: al Nord, ed in particolare nel triangolo industriale Milano - Torino - Genova, nel corso di un decennio vi era stato un fortissimo afflusso di immigrati provenienti dal Mezzogiorno, e molti di essi trovarono un impiego nelle aziende che, sull'onda del boom, erano in forte espansione. Nuovi segmenti di classe operaia andarono dunque a rinvigorire un movimento sindacale indebolito dalle fratture ideologiche e da molti anni di strapotere padronale. Gli organismi tradizionali di rappresentanza sindacale, le Commissioni Interne, che pure avevano lottato duramente, si erano in qualche modo irrigidite su una linea difensiva, e l'ingresso in fabbrica di giovani che non avevano pregiudizi di tipo ideologico portò fra i lavoratori un vento di cambiamento. Nel 1969 la stagione dei rinnovi contrattuali si aprì all'insegna di queste nuove energie, e in moltissime aziende si crearono comitati di lotta spontanei, in aperta polemica con la prudenza delle Commissioni Interne, duramente provate dalla repressione degli anni precedenti. Era "l'autunno caldo": le lotte operaie raggiunsero livelli di adesione e di combattività che non si erano mai visti in precedenza e i sindacalisti più intelligenti capirono che non si poteva sprecare questo formidabile potenziale: l'idea di fondo fu quella di sostituire le vecchie strutture di rappresentanza sindacale con organismi che fossero maggiormente legati alla base, e che fossero eletti direttamente all'interno dei reparti, indipendentemente dal sindacato di appartenenza: i delegati scelti in questo modo andarono a costituire i nuovi consigli di fabbrica. Essi furono l'elemento centrale della riscossa operaia e proprio sotto la spinta di questo forte movimento unitario CGIL, CISL e UIL si posero concretamente il problema di superare le divisioni che le avevano viste separate dal 1948, e i tre Congressi confederali si svolsero all'insegna di questa prospettiva. A Firenze, alla fine di ottobre del 1970, si tenne la prima grande assemblea nazionale unitaria delle tre Confederazioni (Firenze 1): il dibattito, che peraltro seguiva le vivacissime discussione interne alle tre organizzazioni, vide sostanzialmente due schieramenti: da una parte le categorie dell'industria, e in particolare i metalmeccanici, che premevano per arrivare in tempi brevi alla costituzione di una grande organizzazione unitaria, dall'altra i sindacati del pubblico impiego ed i vertici più legati a posizioni politiche moderate, che erano assai poco convinti. L'assemblea si chiuse con un compromesso: una sorta di dichiarazione d'intenti che poneva l'obiettivo dell'unità organica; vennero quindi indicate le linee intorno alle quali proseguire il dibattito, fissando come seconda scadenza una nuova assemblea da tenersi prima dell'estate '71. Il dibattito era molto acceso, e su di esso pesava moltissimo il forte imprinting politico di ciascuna confederazione: alla CGIL erano iscritti prevalentemente comunisti e socialisti, alla CISL facevano riferimento i democristiani e in generale i cattolici (compresa, tuttavia, quella parte radicale del cattolicesimo sociale che influenzò notevolmente alcuni sindacati di categoria, in particolare la FIM), nella UIL si erano raggruppati i laici moderati, repubblicani, una parte dei socialisti, socialdemocratici, e proprio quest'ultima componente era la meno convinta rispetto al processo unitario. Nel febbraio del 1971 si tenne una riunione delle Segreterie di CGIL, CISL e UIL (Firenze 2), in cui si definì una prima tempistica di attuazione degli orientamenti emersi a Firenze 1; nel maggio dello stesso anno le tre Segreterie si riunirono di nuovo ed emersero i punti sui quali non vi era accordo: l'autonomia nei confronti dei partiti, l'incompatibilità fra cariche sindacali ed altri incarichi, l'affiliazione internazionale e l'assetto delle organizzazioni contadine (in cui la DC aveva tradizionalmente molto peso); nodi che solo parzialmente verranno sciolti nella riunione interconfederale del 24 novembre 1971 (Firenze 3), nella quale venne addirittura deciso di convocare i Congressi di scioglimento delle singole Confederazioni per il settembre 1972. I socialdemocratici continuarono ad essere in dissenso rispetto a questa scelta, mentre i metalmeccanici avrebbero preferito tempi più rapidi. Agli inizi del 1972 la CGIL diede attuazione concreta ad alcuni dei principali punti riguardanti incompatibilità ed autonomia (chiedendo a tutti i propri dirigenti di dimettersi dalle assemblee elettive istituzionali), ma il segretario della UIL, il repubblicano Vanni, criticò aspramente questa scelta unilaterale, si associò alle remore dei suoi colleghi socialdemocratici e dichiarò che l'unità era ancora impossibile: la maggioranza della UIL fu d'accordo (contrari i i socialisti) e la prospettiva dell'unità, che era sembrata così vicina, ritornò ad allontanarsi. La CISL confermò il suo orientamento unitario, ma la frattura non si ricompose. Le spinte unitarie della base, tuttavia, non potevano essere ignorate, e dopo polemiche molto aspre si trovò una soluzione di compromesso, un patto federativo tra le Confederazioni che garantisse la massima unità d'azione e prevedesse la costituzione di organismi dirigenti unitari. Fu così che nel luglio 1972 nacque la Federazione CGIL-CISL-UIL. Una struttura per molti versi macchinosa e poco flessibile, perché i suoi organismi dirigenti, ai vari livelli, erano sostanzialmente la sommatoria degli organismi di ciascuna Confederazione; e soprattutto non si era sciolto il nodo centrale, se cioè quella soluzione fosse il livello più alto possibile di unità o un momento di transizione verso quel sindacato unitario così fortemente voluto nelle fabbriche. Molti sindacati di categoria, in particolare dell'industria, fecero un più deciso passo in avanti, unificando di fatto le tre organizzazioni, costituendo la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, la FULC (chimici), l'FLC (edili), la FULTA (tessili e abbigliamento), ecc.. Nel 1973 si svolsero i Congressi delle tre Confederazioni, che riconfermarono la linea unitaria, ma senza trovare l'accordo politico che potesse delineare un'agenda precisa. Paradossalmente, la difficilissima situazione economica e sociale che il Paese si trovò a vivere in quegli anni favorì il perdurare di questo compromesso. Con la guerra del Kippur si verificò la prima grande crisi petrolifera mondiale: il prezzo del greggio s'impennò, l'inflazione iniziò a galoppare, e la Federazione unitaria fu costretta ad impegnarsi soprattutto sul fronte della difesa del potere d'acquisto dei salari. Questo fu anche il periodo dell'emergere del terrorismo, della strategia della tensione, e la mobilitazione unitaria in difesa della democrazia fu un terreno prioritario di impegno da parte delle Confederazioni. Intanto l'inflazione cresceva del 15-20% su base annua ed i sindacati conseguirono un importantissimo risultato ottenendo nel 1975 una revisione del meccanismo della scala mobile: fu infatti introdotto il punto unico di contingenza (che entrò gradualmente in vigore nel 1977), cioè un meccanismo automatico che adeguava buona parte del salario rispetto all'aumento del costo della vita e quindi salvaguardava le retribuzioni reali dei lavoratori. La disoccupazione raggiunse in quel periodo punte drammatiche e i nodi strutturali dell'economia italiana (divario nord - sud, evasione fiscale, competitività) non trovarono soluzione alcuna. La grande assemblea unitaria dei quadri tenutasi all'Eur nel febbraio del 1978 avrebbe dovuto segnare l'inizio di una nuova strategia del movimento sindacale, che si mostrò disponibile a cedere su alcune rivendicazioni economiche in cambio di provvedimenti atti a contrastare inflazione e disoccupazione: fu la cosiddetta svolta dell'Eur, fortemente voluta dal Segretario della CGIL Luciano Lama, che tuttavia non conseguì i risultati sperati. Malgrado tutto, i rapporti fra le Confederazioni sembrarono raggiungere un livello particolarmente favorevole, dato che il clima politico generale era reso meno aspro dall'ipotesi di un incontro, di un accordo fra le tre grandi correnti politiche italiane, i comunisti, i democristiani, i socialisti. Era la prospettiva del compromesso storico, che però naufragò anche sotto i colpi micidiali del terorrismo (16 marzo 1978: rapimento di Aldo Moro): ancora una volta la complessità del gioco politico influiva negativamente sullo sviluppo dei rapporti unitari, e contemporaneamente i sindacati dovevano fronteggiare una forte controffensiva padronale, culminata nella conclusione drammatica della vertenza Fiat. Alla fine del ‘79 la Fiat licenziò 61 operai accusandoli di aver commesso atti di violenza e di intimidazione dentro la fabbrica e nell’autunno dell’80 annunciò la cassa integrazione * per quasi 24.000 lavoratori, metà dei quali dopo un anno sarebbero stati licenziati: vi erano sicuramente grossi problemi di esportazione delle auto sui mercati internazionali, ma una decisione di quella portata aveva anche motivi squisitamente politici, legati appunto al proposito di ripristinare l’ordine, e infatti tra i circa 12.000 che sarebbero stati definitivamente espulsi dalla produzione vi erano praticamente tutti i quadri sindacali e comunque i lavoratori sindacalmente più attivi. Il sindacato rispose con lo sciopero a oltranza e lo stesso Berlinguer andò davanti ai cancelli di Mirafiori a portare la solidarietà del PCI. Che la Fiat puntasse più a una resa dei conti che alla soluzione di problemi produttivi divenne esplicito quando la direzione aziendale annunciò la sospensione dei licenziamenti e la riduzione del periodo di cassa integrazione: dopo quasi un mese di sciopero c’era stanchezza fra i lavoratori e soprattutto paura per il futuro, e molti premevano per sospendere la lotta e cercare qualche compromesso con l’azienda; il colpo decisivo arrivò con la marcia dei 40.000: a metà ottobre un imponente corteo di capireparto, impiegati, dirigenti, insieme alle loro famiglie, sfilò per le strade di Torino chiedendo di poter tornare a lavorare e accusando i sindacati di portare alla rovina l’economia. Non si era mai visto niente del genere, era il segnale di una violenta spaccatura fra operai politicizzati e lavoratori intermedi, e, soprattutto, di una generale perdita di consenso da parte del sindacato: che infatti il giorno dopo firmò un accordo che era un inevitabile atto di resa. Dopo questa vicenda fu chiaro che ciò che separava le tre Confederazioni non era solo un problema di diversi riferimenti ideologici, ma soprattutto una differenza di fondo nella strategia complessiva per uscire dalla crisi economica. Sfortunatamente il dibattito si andò focalizzando non tanto sui nodi strutturali quanto sulla questione del costo del lavoro: un successo indiscutibile di Confindustria, che aveva ben compreso come i successi sindacali degli anni precedenti (dai rinnovi contrattuali all'entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, alla riforma delle pensioni) in buona misura fossero stati resi possibili dal consenso diffuso che i lavoratori avevano saputo conquistarsi in gran parte degli altri settori sociali. Dunque occorreva rispondere su questo terreno, e un'abile campagna mediatica (giornalisti: altro che "schiena dritta"!) concentrò l'attenzione dell'opinione pubblica su un aspetto specifico della crisi, cioè sul fatto che la causa principale delle difficoltà economiche era da ricercarsi nella mancata competitività del sistema Italia nei confronti degli altri paesi, a sua volta determinata dall'eccessivo costo del lavoro. Insomma, al solito era colpa degli operai, ed il meccanismo che garantiva l'adeguamento automatico dei salari rispetto all'aumento del costo della vita veniva sbattuto in prima pagina come causa di tutti (o quasi) i mali. Il PCI si ritrovò praticamente da solo a contrastare questa martellante campagna di disinformazione, che Confindustria condusse fino al punto di disdire (1981) unilateralmente l'accordo del 1975 sulla scala mobile. Le elezioni politiche del 1983 portarono alla Presidenza del Consiglio Bettino Craxi, il quale puntò decisamente ad isolare il PCI, trovando proprio nella scala mobile il terreno più favorevole per questa offensiva: il giorno di S. Valentino, nel 1984, il governò approvò un decreto che di fatto smantellava la scala mobile. CISL, UIL e la componente socialista della CGIL si dichiararono disponibili ad un accordo in questo senso (anche per ridurre drasticamente il peso della CGIL e diventare i soggetti portanti di una nuova concertazione), e ancora una volta i comunisti della CGIL si trovarono isolati. Al punto che quando si arrivò al referendum che doveva decidere se mantenere o meno il meccanismo della scala mobile, la maggioranza degli italiani (55%) approvò le scelte del governo. La Federazione CGIL - CISL - UIL cessò di esistere (e con essa, di conseguenza, anche anche le Federazioni unitarie di categorie) e bisognerà attendere molti anni perché le tre Confederazioni riescano a ritrovare una qualche unità. * un complesso meccanismo, più volte modificato e che si applica con modalità differenti a seconda dei settori, volto a garantire un certo reddito, per un periodo determinato, ai lavoratori sospesi dalla produzione per una crisi di quel settore: lo Stato, in altre parole, interviene direttamente, tramite l'INPS, per fornire ai lavoratori (che, non gravando sui costi aziendali, non vengono licenziati) un'indennità sostitutiva della retribuzione |