Alberto Burgos

I precursori del marxismo russo


"Nel commemorare Herzen, davanti a noi si delineano tre generazioni, tre classi che hanno agito nella rivoluzione russa. All'inizio, i nobili e i grandi proprietari fondiari, i decabristi e Herzen. Ristretta è la cerchia di questi rivoluzionari. Essi sono terribilmente lontani dal popolo. Ma la loro opera non è andata perduta. I decabristi risvegliarono Herzen. Herzen svolse un'agitazione rivoluzionaria. Questa fu ripresa, ampliata, rafforzata, temprata dai rivoluzionari-raznocinsty [letteralmente: "di varia casta", cioè persone non di origine nobile, di condizione sociale più o meno elevata, ma in genere senza patrimoni personali e dunque attive nelle professioni liberali, nei livelli intermedi della burocrazia, ma anche mercanti ed esponenti del clero: erano quindi a contatto abbastanza diretto con le ingiustizie e gli squilibri sociali, e perciò concretamente disponibili a impegnarsi nella lotta politica] cominciando da Cernyscevski per finire con gli eroi della 'Volontà del popolo'. La cerchia dei combattenti si era allargata, essi erano più legati al popolo. Herzen li chiamava: 'I giovani piloti della futura tempesta'. Ma la tempesta non c'era ancora."

Così, nel 1912, celebrando il centenario della nascita di Aleksandr Ivanoviç Herzen, Lenin ricordava i tratti di uno dei principali precursori del marxismo russo. (Lenin, Opere scelte, Ed. Progress, 1973, v. 2, p. 108)


Parafrasando un detto peruviano, si potrebbe dire che nella Russia degli zar vi erano solo tre stagioni, l'estate, l'inverno e il massacro: quest'ultimo aveva puntualmente accompagnato le rivolte contadine che, con maggiore o minore intensità, si erano caparbiamente susseguite per centinaia di anni. È più o meno in concomitanza dell'ultima grande rivolta, quella di Emel'jan Pugacëv (ucciso nel 1775), che s'intravedono quei primi fermenti culturali nell'ambito della borghesia i quali avvieranno il processo di avvicinamento di una parte di essa all'unico possibile protagonista della rivoluzione: il mondo contadino. In realtà non fu esso l'artefice esclusivo della rivoluzione, e comunque la saldatura fra borghesia rivoluzionaria e proletariato non solo non si realizzò, ma lasciò il campo allo scontro frontale: come vedremo, prima nel 1905-6, e poi nel '17, anche per le parti più avanzate della borghesia, sull'obiettivo di abbattere l'autocrazia e lo stato feudale prevalse lo storico "terrore per i coltelli e le asce dei contadini. La borghesia vedeva balenare dappertutto queste asce e rimaneva inchiodata dal terrore nei momenti decisivi." (M. N. Pokrovskij, Storia della Russia, Ed. Riuniti, 1970, p. 136)
Alla fine del XVIII secolo, in Russia molti intellettuali (che comunque complessivamente non erano molto numerosi) si radunavano nelle logge massoniche, e queste, se certo non potevano dirsi dei circoli rivoluzionari, erano in ogni caso delle sedi in cui si discuteva molto liberamente e ciò facilitava la circolazione delle idee, cosa certamente non scontata a quei tempi; in queste logge si ritrovarono quindi anche coloro i quali coltivavano il pensier libero, e che oltre a tutto trovarono nei complessi e misteriosi rituali massonici un'ottima copertura per le proprie attività cospirative. Non fu massone, però, il primo grande rivoluzionario russo, Aleksandr Nikolaeviç Radiscev: uomo pacifico ed estraneo a qualsiasi circolo intellettuale, nel suo Viaggio da Pietroburgo a Mosca (1790) osò descrivere le condizioni inumane del contadino e ciò fu sufficiente a farlo finire in Siberia.
Provenivano comunque tutti dalle logge i futuri decabristi: ufficiali che avevano partecipato alla guerra del '12 contro Napoleone (e tutti i giovani intellettuali si erano arruolati), avevano scoperto l'Europa e con essa l'arretratezza miserabile del proprio paese: di qui a trasformare lo sdegno in rivolta il passo fu assai breve.

Nacquero così le prime società segrete, spesso capeggiate, appunto, da ufficiali: tali erano, ad esempio, Nikita Muravëv e Pavel Pestel, i capi della società Slavi riuniti, che operava nelle guarnigioni della Russia meridionale e che avrebbe dovuto organizzare la sollevazione dell'esercito non appena, nell'estate del 1826, Alessandro I fosse stato ucciso dai congiurati di Pietroburgo.
Tutta una serie di imprevisti (dalla presenza di spie fra i cospiratori all'improvvisa dipartita, motu proprio, dello zar) mandò in fumo il piano (che tecnicamente aveva in realtà buone probabilità di successo, dato il vasto seguito che aveva tra i militari) e così il complotto si risolse in un fallito pronunciamento di alcuni reggimenti della guardia, nel dicembre del 1825.
I decabristi avevano certamente pochissimi legami col popolo (che pure era ampiamente rappresentato dai soldati dei reparti ribelli), eppure spetta a loro di aver scoperto la questione agraria, intesa come chiave di volta di un processo rivoluzionario.
Il nuovo zar, Nicola I, che già si era distinto nella persecuzione dei decabristi, si occupò personalmente di dar vita alla Terza sezione della cancelleria privata di Sua Maestà, cioè un'efficiente polizia politica che avrebbe dovuto stroncare sul nascere qualsiasi eventuale attività sovversiva.
Questo pugno di ferro ottenne il risultato desiderato (o meglio, dilazionò di qualche decennio la ripresa attiva di un movimento di opposizione), e il regime si consolidò ulteriormente in seguito alla repressione della rivoluzione nazionalista polacca (1830-1) e, soprattutto, grazie al fatto di essere riuscito ad evitare il contagio rivoluzionario del '48. Ma la situazione economica e sociale dell'impero era sempre più pesante: le rivolte contadine avevano ripreso a diffondersi, il mercato interno tendeva a restringersi sempre più, la bilancia commerciale estera era in grave passivo, e si ampliavano i settori dell'imprenditoria (e anche della media aristocrazia terriera) che reclamavano una svolta.
E qualcosa di nuovo accadde: il 19 febbraio 1861 Alessandro II (Nicola il sanguinario era morto cinque anni prima) fece pubblicare il manifesto che annunciava la liberazione dei servi.
I contadini, dunque, erano resi liberi nelle loro persone e acquistavano il diritto di diventare possessori delle terre che coltivavano. Ma queste erano ridotte alle particelle più scadenti, ed essendo enormemente sopravvalutate i contadini s'indebitavano verso lo Stato per somme esorbitanti, in molti casi superiori allo stesso reddito che avrebbero potuto ricavare dagli appezzamenti; d'altro canto i proprietari mantenevano le proprie rendite parassitarie e una cospicua serie di diritti feudali, in taluni casi acquistandone addirittura di nuovi.
Insomma, non era certo una vera riforma agraria borghese, né tantomeno la soluzione della questione contadina, e il mercato interno non ne ricavava alcun beneficio, anzi; e tuttavia, viste le condizioni di estrema arretratezza del paese, la riforma del 1861 (che istituiva anche alcune limitate forme di amministrazione elettiva urbana e rurale, con ciò permettendo ai gruppi più omogenei della borghesia di organizzarsi e di far sentire in qualche modo la propria voce) fu comunque un enorme balzo in avanti verso la formazione di un moderno paese capitalistico.
Significativamente, però, proprio nei giorni di pubblicazione del manifesto, lo zar "buono" diede personalmente l'ordine di sciogliere a fucilate una dimostrazione di protesta a Varsavia, provocando amarezza e disillusione in tutti coloro che avevano dato credito alla volontà riformatrice dello zar.

Fra questi vi era Aleksandr Ivanoviç Herzen, lo scrittore russo più popolare di quel tempo, che già dagli anni quaranta viveva in esilio, e che nel 1848 aveva assistito all'eccidio degli operai parigini in rivolta: egli - all'inizio con l'ingenua fiducia cui abbiamo accennato nel potere illuminato, e poi in modo sempre più radicale - aveva avuto modo di compiere un approfondito esame della realtà russa, con una finezza di analisi e un'intelligenza non dogmatica che lo avevano messo al riparo dallo schematismo dottrinario di altri suoi illustri contemporanei:

"Esente, era Herzen, dal grande malanno di Bakunin come di tanti altri rivoluzionari: l'ateismo religioso, il travaso dell'assolutismo religioso in una politica profana. E, d'altra parte, la sua serena laicità, spoglia di fanatismi astrattamente razionalistici, non si colorava di uno scetticismo inerte, ma si riversava in una scepsi, cioè in una riflessione critica sulla storia e nella storia, dentro i concreti, contraddittori, drammatici movimenti della società moderna, in una scelta centrale socialista e in una miriade di altre scelte minori in cui una scelta di fondo deve continuamente riordinarsi." (V. Strada, Prefazione a: A. I. Herzen, A un vecchio compagno, Einaudi, 1977, p. LI)
L'analisi di Herzen parte dal cuore stesso della questione agraria, vale a dire della questione russa, l'obscina: questo tipo di comunità era presente in tutta l'Europa medievale come sopravvivenza dell'agricoltura primitiva e nomade: gli arativi venivano strappati al bosco con un lavoro collettivo e quindi tutto il villaggio possedeva poi in comune questa terra; non essendoci particolari tecniche di concimazione o di rotazione delle colture, tutti coltivavano allo stesso modo e quindi era facile suddividere i terreni in parti uguali. Con l'instaurazione del regime feudale i grandi proprietari cominciarono a imporre ai villaggi tutta una serie di tributi, ma ciò malgrado l'obscina, a differenza che nel resto d'Europa, in Russia sopravvisse e anzi restò la forma dominante nell'agricoltura. Talvolta si è erroneamente vista l'obscina come una forma comunistica di produzione: in realtà nell'obscina non vi era affatto produzione collettiva, e ogni contadino coltivava per proprio conto il proprio pezzo di terra. Le parti assegnate, che peraltro potevano essere cumulate dai singoli, erano a tutti gli effetti proprietà privata degli assegnatari: l'essenziale era il carattere non permanente di ciò, ovvero tutto il sistema era basato sulla periodica redistribuzione, decisa dal mir, l'organo amministrativo di autogestione che si dava la collettività, della terra. Fu questo aspetto che affascinò i populisti.
Herzen colse assai acutamente la forza insita in questo, e nel fatto che il popolo russo riconoscesse diritti e doveri soltanto nell'obscina, individuando al di fuori di essa unicamente violenza e sopraffazione. L'obscina era dunque per Herzen una "fortuna" straordinaria, perché aveva conservato l'identità di quello che sarebbe stato il soggetto rivoluzionario russo: il mužik.
"Noi diciamo al contadino: non c'è libertà senza terra e soltanto aggiungiamo: la terra non è sicura senza libertà. La nostra bandiera è molto prosaica, le anime sensibili, le menti sublimi la considerano materiale... Il fatto sì è che il popolo è poeta, ma affatto idealista." "L'inizio e la fine dello sviluppo sono sempre simili tra loro: la società umana ha preso l'avvio dal comunismo e deve pervenire al comunismo. Quest'inizio si è protratto in Russia, a causa della lentezza del suo sviluppo, fino al secolo XIX, ma ciò non significa che siamo condannati a non vederne la fine. La vedremo invece molto presto: 'La storia, come una nonna, ama molto i nipoti più piccini'. Non conta che la Russia non abbia vissuto il periodo intermedio tra la comunità primitiva e la Comune socialista, che non abbia avuto il capitalismo come l'Europa occidentale. I paesi, in cui lo sviluppo economico comincia in ritardo, percorrono in compenso l'intero cammino molto più rapidamente, saltando, per così dire, interi periodi storici. La Russia potrà quindi saltare il periodo capitalistico ed entrare direttamente in quello socialista." (Pokrovskij, cit., p. 160)
1) L'originalità di questa teoria del "salto" e più in generale le idee di Herzen furono la base teorica del movimento rivoluzionario russo, eppure, osserva acutamente Venturi, vi fu uno strano destino che accompagnò l'eredità di Herzen, per come essa si espresse e per come venne accolta:

"Prima di diventare un movimento politico cioè, il populismo non si era espresso in una dottrina, ma in una vita, in quella di Herzen. Il capolavoro di questi, malgrado tante pagine d'intelligente visione politica e tanti scritti letterariamente eccellenti, non è un'ideologia, ma un'autobiografia, Passato e pensieri. Questo carattere autobiografico resterà in tutto il populismo russo, susciterà uomini e caratteri più che dottrine e dogmi. Ma proprio per questo, quando negli anni '60 il populismo diventerà una corrente politica, Herzen sarà in qualche modo dimenticato e rinnegato, avendo trasmesso alla nuova generazione la sua vita di creatore e critico politico, non un pensiero conchiuso. (...) E finalmente riapparirà sempre più chiaramente come l' 'eroe eponimo' del populismo stesso, come il suo creatore." (F. Venturi, Il populismo russo, Einaudi, 1952, p. 6)

A proposito della teoria del salto vale comunque la pena di ricordare quanto scriveva Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale: "Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento (...) non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento. Ma può abbreviare e attenuare le doglie del parto." (K. Marx, Il Capitale, Ed. Riuniti, 1972, 8 v., v. 1, p. 18)


Nikolaj Gavrilovic Cernysevškij, che dal 1855 dirigeva un giornale di critica letteraria, il Contemporaneo, trasformandolo in un battagliero e assai seguito foglio politico, era a contatto quotidiano con la realtà russa, e quindi era molto meno ottimista di Herzen sui tempi di maturazione della rivoluzione: per lui, realisticamente, l'obiettivo primario era il superamento dell'ordinamento feudale e l'abbattimento dell'autocrazia, e l'unica forza in grado di compiere ciò non poteva che essere il movimento contadino
Dopo la guerra di Crimea le rivolte nelle campagne erano riprese con una certa intensità, e dopo il 19 febbraio avevano avuto un'impennata: Cernysevškij stese un manifesto per i contadini in cui veniva delineata, seppur sommariamente, una strategia di lotta, in cui, cioè, si cerava, per la prima volta in Russia, di elaborare una linea politica rivoluzionaria e di esemplificarla a livello di massa.
È in questo profondo conoscitore di Spinoza e di Hegel, nell'intellettuale raffinato che si occupava di estetica, nell'umanista colto ma ben radicato nel suo tempo, che prende forma la prima grande figura di materialista rivoluzionario russo.
Egli, infatti, pur non avendo i contatti culturali che poteva stabilire Herzen, a differenza di altri populisti russi seppe evitare il pericolo di rinchiudere il proprio pensiero in forme utopistiche astratte, "vide e criticò l'inanità e la debolezza dell'utopismo e, imboccata la strada di un democratismo rivoluzionario pratico e concreto rispondente alle condizioni storiche del proprio paese, la mantenne fermamente. Cerniscevski trascorse ventun anni in galera e mai ebbe il più piccolo scoraggiamento." (G. Berti, Introduzione a Il pensiero democratico russo del XIX secolo, Sansoni, 1950, p. XXXIV)

Tre anni prima del manifesto, Cernysevškij aveva pubblicato la Critica dei pregiudizi filosofici contro la proprietà agraria comunitaria, dove costruisce una teoria filosofica dell'obscina che è "la fondazione logico-storica del populismo." (V. Strada, Introduzione a: Lenin, Che fare? , Einaudi, 1971, p. XXX)

Partendo da un'analisi dell'obscina che ricorda molto da vicino quella formulata da Herzen, e mettendo in guardia dalle tendenze slavofile, Cernysevškij prospetta una politica agraria che, mettendo in comune tutta la terra e cioè ripristinando l'originaria epoca comunitaria, diventa la base economica di un nuovo stato. Tralasciando il percorso strettamente teorico (il materialismo filosofico che si evolve naturalmente verso il materialismo economico) che compie Cernysevškij, si può comunque notare come il cuore del suo ragionamento stia nell'aver posto alla base del pensare politico la messa a fuoco del meccanismo generale del divenire storico: è in qualche modo il concetto marxiano di "formazione economico-sociale" che Cernysevškij riscopre e utilizza per disvelare la struttura originale, e al tempo stesso universale, cioè storica (rispondente ai tempi e ai modi che l'historia magistra impone), dello sviluppo russo. Cernysevškij, beninteso, non può essere considerato un marxista in senso stretto, ma di certo si può affermare che nel suo tempo fu il più vicino al metodo marxista: nell'individuare, ad esempio, i modi in cui la libera azione politica può e deve esercitarsi nell'ambito storico, egli non ricorre al "salto" herzeniano, ma individua in uno sviluppo accelerato e contratto la specificità russa.
Cernysevškij non fu marxista (ma senza di lui il marxismo russo sarebbe stato sicuramente molto più povero) soprattutto rispetto alla fisionomia che egli assegnò ai soggetti rivoluzionari: il proletariato industriale restava sostanzialmente ai margini della sua analisi, e del tutto assente era l'immagine di un moderno partito.
Un merito straordinario di Cernysevškij fu comunque quello di aver dato un segno di rigore morale che influenzò enormemente intere generazioni: è risaputa, ad esempio, la grande ammirazione per lui da parte di Lenin, che mutuò dal celebre romanzo di Cernysevškij il titolo di uno dei suoi più importanti scritti, il Che fare? Così ricorda Lenin: "...mi misi a leggerlo sul serio e su di esso passai non alcuni giorni, ma delle settimane. Soltanto allora ne capii la profondità. È un'opera che dà la carica per tutta la vita." (cit. in Strada, Introduzione, cit., p. 89)
Se Cernysevškij viene comunemente ricordato, accanto a Herzen, come il padre del populismo russo, noi preferiamo considerarlo una figura più ampiamente anticipatrice del grande pensiero rivoluzionario russo, affidando rispettivamente a Lavrov, a Bakunin e a Tkacëv la specifica paternità dei tre grandi filoni populisti russi.

In seguito al fallito attentato ad Alessandro II (1866), vi fu una massiccia ondata repressiva, così come non accadeva dall'epoca dei decabristi, e Cernysevškij venne immediatamente imprigionato: fra gli arrestati vi fu il colonnello P.I. Lavrov, professore di matematica all'accademia militare e studioso di filosofia: prima deportato e poi costretto all'esilio, egli si dedicò a una produzione scientifica di notevole livello che ebbe anche modo di sottoporre allo stesso Marx, con il quale intrattenne rapporti epistolari. Rapidamente le sue idee vennero assimilate dai giovani intellettuali e furono in particolare le sue Lettere storiche a divenire il testo di riferimento per la corrente rivoluzionaria che dominò in Russia dalla fine degli anni sessanta fino a metà dei novanta, il populismo, appunto.
Lavrov non solo non pone alla base della storia lo sviluppo delle forze produttive e le contraddizioni che ne derivano (secondo lo schema classico del marxismo), ma nega che la storia in sé abbia un senso, a meno che lo storico, la "persona criticamente pensante", non ve lo introduca:

"Se un pensatore crede nella realizzazione presente o futura del suo ideale etico, tutta la storia si raggruppa per lui attorno agli eventi che preparano questa realizzazione (...) L'ideale nasce nel cervello di un uomo, di qui passa nei cervelli di altri uomini, cresce qualitativamente con lo sviluppo della dignità intellettuale e morale di questi uomini e quantitativamente con il moltiplicarsi del loro numero, diventa poi una forza sociale quando queste persone prendono coscienza della propria comunanza ideale e decidono di condurre un'azione comune." (in Pokrovskij, Storia..., cit., p. 164)
Nei confronti delle grandi masse di uomini, abbrutite dal lavoro e quindi impedite a realizzare compiutamente la propria umanità, ogni privilegiato, cioè chi ha "tempo" per pensare, ha un grande "debito non pagato": quello di trasformare lo stato delle cose, di "sradicare il male." La lotta politica, dunque, non può che nascere da una presa di coscienza soggettiva dell'intellettuale, il quale se ne fa interprete presso le masse guidandole. "Manca all'uomo il tempo per vivere per sé, manca il tempo per pensare, e comunque non c'è nulla a cui pensare." (in: V. Tvardoskaja, Il populismo russo, Ed. Riuniti, 1975, p. 191)

I limiti di personalità pur eccezionali come Herzen e Cernysevškij, li verifichiamo proprio nella debolezza con cui i loro eredi diretti hanno sviluppato le loro teorie: si potrebbe dire, anzi, che i populisti hanno dato un'interpretazione e un'applicazione di quelle prime intuizioni, in chiave decisamente riduttiva. Essi pensavano a una società senza classi, nella quale il lavoro di ciascuno sarebbe stato non solo lo strumento del benessere collettivo, ma anche l'occasione della felicità individuale: tutto questo, però, non aveva a fondamento uno studio scientifico dello sviluppo, e soprattutto in questa carenza d'analisi risiede l'arretramento rispetto a Cernysevkij.

"Un populismo più spontaneo e romantico, meno politico e più legato alle campagne s'affermava così come primo risultato dell'eliminazione violenta degli elementi più coscienti e occidentalizzanti che Cernysevškij vi aveva introdotto." (Venturi, Il populismo..., cit., p. 52)

Mikhail Aleksandroviç Bakunin, che aveva partecipato alla rivoluzione tedesca del '48 e che svolse la sua attività soprattutto in occidente, rovesciò la concezione populista: non è la persona colta che deve insegnare al popolo, ma viceversa, poiché i meccanismi dello sfruttamento sono fin troppo chiari a chi li sperimenta quotidianamente, rivelandosi invece inaccessibili agli intellettuali; questi, casomai, possono usare le loro conoscenze per dare una forma organica alla ribellione spontanea, ma caotica, delle masse. Per Bakunin lo scontro con il potere non poteva avere alcuna mediazione politica ed aveva un solo scopo: la distruzione dello stato.
Le sue posizioni estreme, che avevano al centro l'idea mitica di un popolo "istintivamente rivoluzionario", e alle quali si possono ricondurre i gruppi che, con una definizione abbastanza sommaria, vengono indicati come nihilisti, ebbero una rapida quanto breve affermazione nel movimento rivoluzionario, ma lasciarono tracce significative (ad esempio nell'uso dell'azione individuale, o di stampo prettamente terroristico, da parte dei socialrivoluzionari di sinistra).
I nihilisti, comunque, tutto erano fuorché persone che non credevano in nulla: in una situazione in cui era svanita la speranza delle riforme e in cui non esisteva un vero movimento rivoluzionario, essi erano, al contrario, fanaticamente convinti delle proprie idee, tanto che "credettero e sperarono soprattutto in se stessi, rifiutandosi ormai di riporre la loro fiducia non soltanto nelle classi dirigenti, ma anche nei miti del 'popolo' e dei 'contadini."

Pëtr Nikitich Tkachëv fu uno dei primi rivoluzionari russi a proclamarsi marxista e fornì una sintesi abbastanza originale dell'oggettivismo marxista, del soggettivismo blanquista e del populismo di Cernysevškij: dall'analisi della storia europea, e in particolare delle rivolte contadine e dell'affermarsi delle borghesie nazionali sul feudalesimo, egli ricavò una legge in cui gradualità e salti si combinavano dando luogo a un' "intermittenza" dello sviluppo storico: che in Russia si esprimeva in un fugace momento nel quale il vecchio ordine feudale era ormai stremato e il nuovo ordine borghese non si era ancora affermato: in quella sorta di smagliatura della storia doveva operare risolutamente il rivoluzionario, per dare il colpo di grazia all'antico regime e per impedire l'affermarsi di quello borghese, mediante un putsch socialista. Da notare la curiosa assonanza con una nota teoria gramsciana, ma soprattutto l'affinità con l'idea dell'"occasione rivoluzionaria" che guiderà Lenin nell'impostare la strategia insurrezionale del '17.


Ricostruire le alterne vicende di queste varie forme di "andata al popolo" ci costringerebbe a una parentesi troppo ampia: ciò che invece occorre sottolineare è l'essenzialità di questo insieme di esperienze ai fini della formazione, teorica e pratica, del nuovo grande filone rivoluzionario russo, quello marxista.
Esso non si creò per mera giustapposizione al narodnicestvo, ma ne assimilò profondamente lo spirito e i fini, ne seppe cogliere la grandezza e i limiti intrinseci, e solo in virtù di questo fu in grado di superarlo.
Del resto i primi gruppi marxisti dovettero misurarsi concretamente col movimento populista, contendendogli i migliori quadri, ed anzi i padri del marxismo russo provenivano direttamente dalle file populiste. Plechanov faceva parte del nucleo storico di Zemlja i volja (Terra e libertà), fondata a Pietroburgo nel 1876, e anche Aksel'rod e Vera Zasuliç ne fecero parte. E Lenin ricorda come tutti i primi quadri della socialdemocrazia avessero avuto in gioventù il "culto entusiastico" degli eroi di quel periodo.
Il fatto poi che il fallimento sostanziale dell'andata al popolo abbia spinto i narodniki verso posizioni sempre più inclini all'azione diretta (cioè senza legami con il lavoro politico di massa) e al terrorismo, non deve far dimenticare che su quell'impianto ideologico e sulla matrice anarchica s'innestarono invenzioni politico-organizzative di grande rilievo: dalla scissione di Zemlja i volja, nel 1879, uscì quella Narodnaja volja (Volontà del popolo) che può essere considerata il primo partito russo rivoluzionario. (Fra i teorici di questo gruppo vi era anche Aleksandr Ul'janov, fratello di Lenin, che verrà arrestato e impiccato)
Essa non solo rompeva apertamente con lo schema populista, ma, strutturandosi in forme del tutto diverse rispetto alle vecchie società segrete e ponendosi concretamente il problema di un costante rapporto politico con le masse, affrontava in termini finalmente politici, e non più di semplice impatto violento, la questione dello Stato: esso, ad esempio, non veniva considerato solo nella sua dimensione oppressiva, ma come luogo politico da conquistare e da trasformare in strumento della rivoluzione sociale. La Comune di Parigi aveva in questo senso influenzato grandemente le idee dei populisti.
È assai significativo che Lenin, nel primo numero dell'Iskra, analizzando i problemi politico-organizzativi del momento, pur criticando il blanquismo della Narodnaja volja la indicasse esplicitamente come modello dal punto di vista della figura del rivoluzionario di professione.
Anche questa organizzazione, comunque, rimase prigioniera del proprio spirito cospirativo, e dopo l'attentato del 1881 ad Alessandro II venne praticamente annientata: ormai poteva considerarsi conclusa l'epoca eroica ma fallimentare del populismo, nelle sue varie espressioni, anche se i movimenti che in seguito si ispireranno a queste idee, si dicevano populisti, e in effetti lo erano: "Il 1881 segna dunque una forte cesura, ma non la fine del populismo russo. Eppure, storicamente, un periodo può dirsi veramente conchiuso con quella data. Quando i socialisti-rivoluzionari sorgeranno tutta l'atmosfera politica sarà mutata. (...) Tutto il socialismo russo è populista dal 1848 al 1881." (Venturi, Il populismo..., cit., p. XV)


Dopo, fra le varie tendenze che sopravvivevano o che si erano create, sarà quella del marxismo, o meglio, del movimento operaio marxista ad imporsi, anche perché - come abbiamo già detto - riuscì a superare dialetticamente, storicamente, il populismo raccogliendone gli elementi più vitali. Non fu, del resto, un processo indolore o meccanico:
"la rinunzia all'azione fascinosa esercitata da questa tradizione eroica avveniva a prezzo di una lotta interiore e si accompagnava alla rottura con uomini che volevano restare ad ogni costo fedeli alla 'Narodnaja volja' e di cui i giovani socialdemocratici avevano alta stima." (Lenin, Che fare?, cit., pp. 207-8)
Non a caso, quindi, la prima opera di Lenin (1894) è proprio diretta contro gli "amici del popolo" e quello che si può definire l'atto di nascita del marxismo russo come corrente autonoma di pensiero è dato da due scritti di Georgij Valentinovic Plechanov improntati alla critica del populismo (1883, l'anno della morte di Marx).

La polemica di Plechanov è rivolta contro il soggettivismo del populismo giacobino, inteso come parametro esclusivo della lotta politica e quindi come negazione del rapporto, fondamentale in Marx, tra momento oggettivo e momento soggettivo, tra economia e politica. La resa dei conti si fa implacabile quando Plechanov dimostra l'infondatezza della basilare tesi populista circa l'impossibilità dello sviluppo capitalistico in Russia: l'obscina, dice Plechanov, è ormai "in decomposizione", la Russia è irreversibilmente sulla strada del capitalismo, e sarà con questo nuovo padrone assoluto che il movimento rivoluzionario dovrà fare i conti; e, anticipando la tesi fondamentale che Lenin articolerà nel Che fare?, Plechanov aggiunge che "la formazione quanto più rapida possibile del partito operaio è l'unico mezzo per risolvere tutte le contraddizioni economiche e politiche della Russia contemporanea." (in Strada, Introduzione..., cit., p. LVIII)

In Che sono gli 'amici del popolo' e come lottano contro i socialdemocratici, il ventiquattrenne Vladimir Ul'janov parte dallo stesso ragionamento del suo maestro sull'inevitabilità dello sviluppo economico russo in senso capitalistico, ma non ripete meccanicamente lo schema di Plechanov: ad esempio riprende il concetto, da questi mai utilizzato, di
" 'formazione economico-sociale in quel ruolo centrale che Marx gli aveva assegnato come espressione di una categoria fondamentale del materialismo storico (...) che esprime l'unità (e, aggiungeremo noi, la totalità) delle diverse sfere economica, sociale, politica, culturale della vita di una società; e la esprime, per di più, nella continuità, e ad un tempo nella discontinuità del suo sviluppo storico." (E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di 'formazione economico-sociale', in: Critica marxista, Quaderno n. 4, 1970, p. 49)
Lenin sottolinea il carattere oggettivamente progressivo di questo sviluppo e il fatto che esso si sia già largamente affermato rispetto ai morenti istituti feudali: anche qui vi è una notazione del tutto originale rispetto all'analisi di Plechanov, ma che già sottende quella sopravvalutazione degli elementi di capitalismo presenti nelle campagne che ritroveremo anche in futuro a proposito della riforma Stolypin.
Lenin va dritto al cuore del problema che sarà al centro del dibattito socialista per più di venti anni: vi è un rapporto, e di che tipo, e che problemi comporta, tra la lotta antifeudale e la lotta antiborghese?
Fin da allora Lenin non ha dubbi, né in seguito cambierà idea: il proletariato deve allearsi alla borghesia radicale nello sforzo per abbattere l'autocrazia e il sistema feudale, ma ciò dev'essere visto unicamente come premessa alla lotta finale contro la borghesia stessa.
Ci pare che, anche se schematicamente, si siano delineati i tratti essenziali della rottura totale consumata dal marxismo nei confronti del populismo, anche se nel nuovo partito questo dibattito continuerà inevitabilmente a riproporsi, in particolare per quanto riguarda il giacobinismo di Lenin.

"La storia della socialdemocrazia russa si divide chiaramente in tre periodi.
Il primo periodo comprende una decina d'anni: dal 1884 al 1894 circa. Fu il periodo in cui nacquero e si rafforzarono la teoria e il programma della socialdemocrazia. Il numero dei fautori della nuova corrente in Russia si misurava a unità. La socialdemocrazia esisteva senza movimento operaio, e attraversava, come partito politico, un processo di sviluppo uterino.
Il secondo periodo comprende tre o quattro anni, dal 1884 al 1898. La socialdemocrazia viene alla luce come movimento sociale, come risveglio delle masse popolari, come partito politico. È il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza
(...).
Il terzo periodo (...) si è andato formando e sostituisce il secondo nel 1898 (1898-?). È un periodo di confusione, di disgregazione, di esitazione. Durante l'adolescenza succede che la voce cambi. Ebbene, anche alla socialdemocrazia russa di questo periodo cominciò a cambiar voce, cominciò a suonare in falsetto, da un lato nelle opere di Struve e Prokopovic, Bulgakov e Berdjaev, dall'altro in quelle di V.I. e R.M., B. Kricevskij e Martynov. Ma vagarono sbandati e andarono indietro solo i dirigenti: il movimento, invece, continuava a crescere e a fare enormi passi avanti." (Lenin, Che fare?, cit., pp. 207-8)
Infatti Lenin così chiude il suo libro: "Alla domanda: che fare? possiamo dare una breve risposta: liquidare il terzo periodo."

Per completare il quadro non ci resta che esaminare rapidamente alcune delle voci "in falsetto" di cui parla Lenin, nella fattispecie i marxisti legali.
Erano così chiamati (dal fatto che le loro pubblicazioni non erano clandestine) cinque studiosi russi i quali andarono a formare un gruppo d'élite che - per il prestigio personale e l'indiscutibile valore intellettuale dei suoi membri - fu per un certo tempo una vera spina nel fianco del marxismo rivoluzionario. Con questo ebbero sì in comune la polemica antipopulista, ma la loro critica del marxismo, slegata e precedente a quella di Bernstein e tuttavia destinata a uno sbocco ben più radicale, si sviluppò in modo tale che la loro fuoriuscita dal socialismo divenne inevitabile.
Sul lavoro scientifico dei marxisti legali, e sul vivace dibattito che essi condussero coi populisti, così avrebbe in seguito scritto Rosa Luxemburg:
"Questo brillante torneo, che tenne in ascolto nell'ultimo decennio l'intelligenza socialista russa e si concluse col trionfo indiscusso della scuola marxiana, segna l'ingresso ufficiale del marxismo come teoria storico-economica nella scienza nazionale. Il marxismo 'legale' prese da allora possesso ufficialmente delle cattedre, delle riviste e del mercato librario economico, con tutti gli aspetti negativi del caso. Quando dieci anni dopo le possibilità di sviluppo del capitalismo russo misero in luce meridiana il loro aspetto ottimistico nell'insurrezione rivoluzionaria del proletariato, di questa pleiade di ottimisti marxisti non uno si ritrovò nelle file del proletariato." (R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, Einaudi, 1968, p. 264)

Uno dei motivi d'interesse del marxismo legale sta nel fatto di aver significativamente contribuito alla creazione in Russia di un movimento politico democratico-liberale: questo è sicuramente vero, tuttavia non ci pare che nel corso degli avvenimenti che seguirono la prima rivoluzione, e durante lo stesso 1917, quest'area di pensiero abbia svolto una funzione progressiva. L'ambiguità dell'esperimento costituzionale - ma si potrebbe anche dire la sua sostanziale subalternità alle tendenze reazionarie - crediamo che dia un segno abbastanza inequivocabile di quanto la dottrina liberal-democratica fosse teoricamente distante e politicamente inadeguata rispetto alla specificità della Russia.
La penetrante critica di Struve alla concezione marxiana dello Stato ha sicuramente degli accenti di lucida premonizione, quando mette in guardia dal considerare l'istituto statale come una mera forma del dominio di classe, e non, piuttosto, un'esigenza permanente di organizzazione sociale (e quindi suscettibile di divenire anche, ma non necessariamente, strumento dell'oppressione di classe); come pure ha grande pregnanza l'enunciazione del concetto di democrazia intesa come valore universale; e di estremo interesse il tentativo (sicuramente il primo) di contaminare il marxismo con altre discipline e scuole filosofiche: questioni che in realtà il marxismo russo (e il marxismo-leninismo che in URSS e altrove ne derivò) non seppe e non volle affrontare, e che ci proiettano nella tragica dimensione del "comunismo da caserma."
Ma qui il punto è un altro: in che misura il revisionismo dei marxisti legali si poteva porre come alternativa, o, se vogliamo, come elemento di moderazione (non tanto dal punto di vista politico, bensì da quello più propriamente ideologico) del socialismo rivoluzionario? In altre parole: il processo di transizione della Russia dal feudalesimo al capitalismo e il conseguente progresso, potevano davvero realizzarsi secondo le correzioni create dallo stesso sviluppo capitalistico che tapperanno i buchi della società esistente finché tutto il tessuto sociale non si farà interamente nuovo?
Berdjaev, uno deo teorici del gruppo, scriveva:
"Noi capiamo più a fondo dei populisti i lati oscuri dello sviluppo del capitalismo e della grande industria, eppure salutiamo questo processo, perché esso non solo porterà a superiori forme di vita, ma anche immediatamente aumenta il bene rispetto alle forme arretrate."
In verità viene fatto di chiederci se ha davvero senso parlare di marxisti legali in riferimento a un gruppo che dal marxismo, ancorché interpretato revisionisticamente, si è staccato in modo così rapido e assoluto da essere palesemente altro dal movimento che, pur segnato da innumerevoli divisioni interne e da irrigidimenti ideologici che lo accompagneranno in tutto il corso della sua esistenza, veniva lentamente affermandosi come il vero protagonista politico della storia russa.