Eric Hobsbawm

Il secolo breve


Nessuno può scrivere la storia del ventesimo secolo allo stesso modo in cui scriverebbe la storia di qualunque altra epoca, se non altro perché non si può raccontare l'età della propria vita allo stesso modo in cui si può (e si deve) scrivere la storia di periodi conosciuti solo dall'esterno, di seconda o di terza mano, attraverso le fonti dell'epoca o le opere degli storici successivi. L'arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro e per la maggior parte di essa, dalla prima adolescenza fino a oggi, sono stato consapevole degli avvenimenti pubblici, vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso.
Per questo motivo ho evitato quasi sempre nella mia carriera di storico di trattare professionalmente dell'epoca che si sviluppa dopo il 1914, sebbene non mi sia astenuto dallo scrivere intorno a questo periodo in altre sedi, non storiografiche. L'epoca di cui «mi sono occupato», come dicono gli addetti ai lavori, è l'Ottocento. Penso che ora sia possibile considerare in una prospettiva storica il Novecento, cioè quel Secolo breve che va dal 1914 alla fine dell'Unione Sovietica, ma mi accosto a questo periodo senza la conoscenza della letteratura scientifica che lo riguarda e solo con una qualche infarinatura delle fonti archivistiche che i numerosissimi storici del ventesimo secolo hanno accumulato. [...] I lettori devono accettare sulla fiducia la maggior parte delle affermazioni di questo libro, a prescindere da quelle che risultano palesemente valutazioni personali dell'autore.
Non ha senso sovraccaricare un libro come questo con un vasto apparato di rimandi eruditi. Ho cercato di limitare i rimandi alle sole fonti delle citazioni, a quelle delle statistiche e di altri dati numerici - fonti diverse forniscono talvolta cifre diverse - e a occasionali fonti di supporto per affermazioni che i lettori potrebbero trovare insolite o inattese e per alcuni punti dove la discutibile opinione dell'autore potrebbe richiedere qualche appoggio. [...] Il 28 giugno del 1992, senza preannuncio, il presidente francese Mitterrand fece un'improvvisa e inattesa comparsa a Sarajevo, centro di una guerra balcanica che doveva provocare nel resto di quell'anno la morte di 150.000 uomini. Il suo scopo era di ricordare all'opinione pubblica mondiale la gravità della crisi bosniaca. Infatti la presenza di un anziano e prestigioso statista in condizioni di salute assai precarie, che sfidava il fuoco delle artiglierie e delle armi leggere, fu un evento degno di nota e fu oggetto di ammirazione. Tuttavia, un aspetto della visita di Mitterrand passò quasi sotto silenzio, benché fosse uno dei più importanti: la data. Perché il presidente francese aveva scelto di andare a Sarajevo proprio quel giorno? Perché il 28 giugno era l'anniversario dell'assassinio dell'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando, avvenuto a Sarajevo nel 1914, un episodio che condusse, nel giro di qualche settimana, allo scoppio della prima guerra mondiale. Per ogni europeo colto dell'età di Mitterrand balzava agli occhi il nesso tra la data, il luogo e il ricordo di una catastrofe storica innescata da errori di valutazione politica. Scegliere una data così simbolica era il modo più efficace per drammatizzare le possibili implicazioni catastrofiche della crisi bosniaca. Ma quasi nessuno colse l'allusione, se si eccettuano pochi storici di mestiere e qualche cittadino anziano.
La memoria storica non era più viva. La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l'esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento.
La maggior parte dei giovani ,alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l'attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancor più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi. Ma proprio per questo motivo gli storici devono essere più che semplici cronisti e compilatori di memorie, sebbene anche questa sia la loro necessaria funzione.
Nel 1989 tutti i governi, e soprattutto i ministeri degli Esteri, avrebbero tratto grande beneficio da un seminario di storia sugli accordi di pace successivi alla prima guerra mondiale, accordi che la maggior parte di loro dimostrava di aver dimenticato.

(Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli)

   

Altichieri Alessio

Eric Hobsbawm: l'illusione del comunista perfetto

È il libro dell'anno, perché è la confessione di un comunista che non ha mai abiurato.
Eric Hobsbawm, il maggior storico britannico, autore della gigantesca Storia della rivoluzione industriale, giunto a 85 anni ha scritto la propria autobiografia (dal titolo deliziosamente inglese, Tempi interessanti, per descrivere il «secolo breve» ma terribile che proprio lui ci ha raccontato), in cui risponde finalmente alla domanda che nessuno ha osato porgli: perché non ha mai stracciato la tessera del partito?

Il libro di Hobsbawm esce con curiosa puntualità, perché anche a Londra s'è aperto uno di quei ricorrenti dibattiti, sull' equiparazione tra fascismo e comunismo, su cui noi italiani credevamo d'avere il monopolio: Martin Amis, figlio di Kingsley, si domanda con tormento come milioni di persone abbiano potuto credere in Stalin, anche di fronte all' evidenza dei suoi orrori. E Hobsbawm, naturalmente in modo indiretto, ora gli risponde: la Rivoluzione d'Ottobre, dice, era più importante degli uomini, perfino di Stalin.

Il fascino di Hobsbawm, come sa chi l'ha letto, sta nella sua scrittura. Sarà un grande storico, figurarsi, ma è di sicuro un ottimo narratore, come queste memorie ora rivelano: «Io sono uno dei pochi abitanti al di fuori di quella che fu l'Unione Sovietica ad aver visto Stalin in carne e ossa» scrive con ironia: ma lo Stalin che egli incontrò era quello imbalsamato nel mausoleo sulla piazza Rossa, prima che fosse rimosso, nel 1961, dalla destalinizzazione. Infatti il primo e vero unico viaggio di Hobsbawm in URSS (raccontato nelle pagine anticipate dal New Statesman avvenne nel 1956, con qualche immediata delusione: a Leningrado, «città che non imparerò mai a chiamare San Pietroburgo», provò imbarazzo quando una ballerina del Kirov, forse Alla Shelest che aveva ballato nel Lago dei cigni gli fu portata davanti, «ancora sudata», e gli s'inchinò con una profonda riverenza: «Non mi sembrava una buona pubblicità per il comunismo». E altrettanto sbalorditiva era «l'assoluta mancanza di senso pratico» di una società senza elenchi del telefono, mappe stradali, orari ferroviari, a causa d'una «paura delle spie quasi paranoica».
Eppure... «Eppure c'era qualcosa» scrive Hobsbawm. C'era per esempio la modernissima metropolitana di Mosca, «che marciava a orologeria e, mi dicono, ancora marcia», beffarda allusione al fatiscente tube di Londra. O c'era, antropologicamente più importante, «lo straordinario spettacolo di una società intellettuale, a malapena uscita dal mondo contadino una generazione prima».

Così lo storico giunto da Londra, che avrebbe voluto incontrare intellettuali che puntualmente «non erano potuti venire a Mosca per motivi di salute» o «erano al momento a Gorkij», insomma non si dovevano vedere, passò il Capodanno al circolo degli scienziati di Mosca, dove il gioco di società era elencare proverbi popolari: e se lo straniero presto esaurì la sua scorta di motti inglesi, i sovietici avevano una miniera di saggezze su coltelli, asce, falci, «cioè ciò che avevano portato dai villaggi di analfabeti in cui molti di loro erano nati».

Stupirsi se Hobsbawm lasciò l'URSS, «benché politicamente immutato», «depresso e senza voglia di tornarci»? Ma ciò avveniva prima dei «dieci giorni che sconvolsero il mondo»: non quelli della rivoluzione del 1917, narrati da John Reed, bensì i dieci giorni, dal 14 al 25 febbraio 1956, del XX Congresso in cui Kruscev denunciò lo stalinismo: «In parole semplici: la Rivoluzione d'Ottobre creò un movimento comunista mondiale, il ventesimo Congresso del PCUS lo distrusse» sentenzia lo storico e «aprì la crisi».
Perché il comunismo non era nemmeno immaginabile senza l'Unione Sovietica, «il Paese che aveva strappato le budella alla Germania nazista ed era uscito dalla guerra come una superpotenza». In pratica: «La vittoria della causa in altri Paesi e la liberazione del mondo coloniale e semicoloniale dipendevano sul sostegno dell'URSS». Perciò, «malgrado tutti i difetti dell'URSS, la sua esistenza dimostrava che il socialismo era più d'un sogno». (Qui si potrebbe citare la fedeltà al partito, anzi al Partito, che chiedeva «disciplina, efficienza professionale, identificazione emozionale e totale dedizione»: travolta da un crollo nell'unica bomba nazista caduta su Cambridge, nel 1941, un'amica di Hobsbawm, Freddie, si sentì morire tra le fiamme ed esalò l'ultimo grido: «Viva Stalin, ragazzi, e addio!». Per sua fortuna, o per alta intercessione, la compagna Freddie si salvò e tanto basti a spiegare la fede nel partito).

Che la destalinizzazione equivalesse alla fine del comunismo mondiale si vide presto, con le crepe che subito s'aprirono in Polonia e in Ungheria: «Ciò che sconcertava le masse degli iscritti era il fatto che la spietata denuncia dei misfatti di Stalin non venisse dalla "stampa borghese", le cui cronache, se pure venivano lette, erano respinte a priori come calunnie e bugie, ma da Mosca stessa. Era impossibile non prenderne nota, ma anche impossibile sapere che cosa ne avrebbero dovuto pensare i seguaci».

Mesi orrendi, quelli dei fatti d'Ungheria, per un comunista: «Praticamente mezzo secolo dopo, ancora mi si chiude la gola se ricordo l'intollerabile tensione in cui vivevamo mese dopo mese, in momenti interminabili a causa di decisioni su cosa dire o fare, da cui sembrava che dipendessero le nostre vite future».

Hobsbawm, come tanti altri, visse per più d'un anno «sull'orlo dell'equivalente politico di un esaurimento nervoso collettivo». Ed è qui che, finalmente, lo storico si rivolge da solo la domanda che mai gli hanno posto: «Perché, allora, rimasi nel partito?». Dopo il '57, spiega, si sentiva un dissidente: «Mi riciclai da militante a simpatizzante, a compagno di viaggio o, per dirla in altro modo, da iscritto effettivo del Partito Comunista Britannico a socio spirituale del Partito Comunista Italiano, che soddisfaceva assai meglio le mie idee sul comunismo». Perché, allora, conservare la tessera? «Primo, perché ero diventato comunista come un cittadino dell'Europa centrale al momento del collasso della Repubblica di Weimar».

Corriere della Sera, 15 settembre 2002


Hobsbawm, ebreo nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917, cresciuto a Vienna e «convertito al comunismo» nella Berlino del 1932, prima dell'emigrazione in Inghilterra, non poteva tagliare, dice, «il cordone ombelicale con la speranza della rivoluzione mondiale». Ma la seconda ragione, più forte, fu l'orgoglio: «Perdere l'handicap dell'iscrizione al partito avrebbe migliorato le mie prospettive di carriera, se non altro in America. Sarebbe stato facile scivolarne fuori, silenziosamente». E invece? «Invece volevo dimostrare a me stesso che potevo avere successo - qualunque cosa significhi "successo" - come un comunista dichiarato, nel pieno della guerra fredda». Superbo, forse capriccioso, ma coerente nella scelta di settant'anni fa, Hobsbawm, ancora oggi: «Non difendo questa forma d'egoismo, ma non posso nemmeno negarne la forza. Perciò restai nel partito».
È morto nell'ottobre 2012.