Camilla Ravera

Nata in provincia di Alessandria nel 1889, fu per vari anni insegnante elementare.

Aderì al Partito Socialista e nel 1919 fu protagonista, con Antonio Gramsci, del gruppo torinese “Ordine Nuovo”; nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, di cui assunse la guida dell’organizzazione femminile, dirigendo anche il periodico “La Compagna”.

Durante la dittatura fascista si rifugiò all’estero e nel 1927 assunse un ruolo decisivo nella segreteria del PCd’I; nel 1930, rientrata clandestinamente in Italia, fu arrestata e incarcerata.

Nel 1939, insieme a Umberto Terracini, condannò il patto russo-tedesco per la spartizione della Polonia e venne espulsa dal Partito.

Nel dopoguerra la linea togliattiana del PCI le permise di ritornare nel partito e fu eletta nel 1946 al Comune di Torino; fu poi deputata al Parlamento dal 1948 al 1958.

In seguito fu dirigente dell’UDI (Unione Donne Italiane).

Nel 1982 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, anche lui antifascista e vittima della carcerazione del regime, la nominò senatrice a vita.
Rimase a Palazzo Madama fino al 1988 quando, quasi centenaria, morì a Roma.


la scheda segnaletica della polizia fascista

Lorenzo Alfano

Camilla Ravera, la prima donna a guidare un partito

Curatrice della rubrica "La tribuna delle donne" per "L'Ordine nuovo", dopo che il Partito comunista fu messo fuori legge durante il fascismo fu colei che tenne in piedi l'organizzazione che sarebbe stata decisiva durante la Resistenza
10 luglio 1930. Italia, Lago Maggiore, ore 12 circa, due donne scendono da un battello e raggiunta la terraferma vengono avvicinate da un uomo. I tre si incamminano per raggiungere altri militanti clandestini a un incontro organizzato da tempo. Sfortunatamente quell’incontro non avrà luogo, dato che una spia ha nel frattempo allertato la polizia fascista che, raggiunti i tre, li arresta e li porta in commissariato.

«Mi chiamo Camilla Ravera», così disse una delle due donne al commissario: dopo otto anni in cui il regime le dava la caccia, Camilla Ravera, segretaria del Partito Comunista d’Italia (Pcd’I) veniva arrestata. Otto anni sotto falso nome, cominciati col divieto di fare l’insegnante impostole dal fascismo. Da quel momento Camilla era diventata prima «Silvia» e poi «Micheli», tramutandosi letteralmente in un fantasma, un fantasma tanto bravo a nascondersi da far pensare alla polizia di Mussolini che non potesse che essere un uomo. E infatti, quando il commissario scoprì che il famigerato Micheli era una donna rimase piuttosto interdetto.

Camilla Ravera, quarant’anni, volto austero e corpo mingherlino che più volte le è valso il nomignolo di «maestrina». Un diminutivo che però non le si addiceva affatto, perché dietro un’estetica innocua e pacata, dietro quella voce esile, si celava una donna dal carattere d’acciaio. Una donna capace, a partire dal 1922, di sobbarcarsi il peso di un partito che, continuamente vessato dalla polizia fascista, avrebbe cessato di esistere se non fosse stato per la tenace volontà del suo gruppo dirigente: Togliatti, Terracini, Leonetti, Platone e, appunto, Camilla Ravera che dal 1927 ne divenne segretaria.

Fu però dal 1926 che la Ravera dimostrò a pieno le sue grandi doti organizzative. In seguito alla messa fuorilegge del partito e dopo l’arresto del segretario Antonio Gramsci, la situazione pareva disperata, tanto che la «destra» del partito, capeggiata da Angelo Tasca, proponeva addirittura l’auto-scioglimento, spingendo i militanti a ritirarsi a vita privata. Questa tendenza «liquidatrice» trovò però l’immediata opposizione di Camilla Ravera che da subito cominciò a riorganizzare i contatti tra la direzione e le strutture periferiche che il fascismo era riuscito a interrompere, servendosi in quest’opera dei «fenicotteri», militanti insospettabili che portavano documenti e comunicazioni nelle varie regioni italiane. Inoltre, sempre nello stesso periodo, la Ravera organizza la sede centrale del partito in una piccola casa di campagna fuori Genova, cercando di ricostituire, attorno alla segreteria, i vari uffici e gruppi di lavoro. La casa diventa quindi luogo di un continuo via vai, e viene per questo ribattezzata dallo scrittore Ignazio Silone «l’albergo dei poveri».
Fu questa una fase cruciale per la vita del partito che, grazie al lavoro logorante e «oscuro» svolto dalla Ravera riuscì a sopravvivere a una notevole stretta repressiva, e solo più avanti, ovvero nel 1945 con l’organizzazione della Resistenza, si potrà apprezzare a pieno il valore di questa continuità organizzativa e la caparbietà con cui il gruppo dirigente comunista difese la necessità di mantenere in vita il partito.
Questo lavoro era però davvero logorante e la Ravera fu continuamente costretta a viaggiare per organizzare e riorganizzare la trama del partito: la diffusione della stampa clandestina; le riunioni in giro per l’Italia; i viaggi a Parigi per comunicare col resto del gruppo dirigente; la partecipazione ai lavori del sesto congresso dell’Internazionale Comunista (1928), occasione in cui le fu offerto di trasferirsi stabilmente a Mosca per collaborare col Segretariato internazionale femminile. Pur avendo l’occasione di tirarsi fuori dal lavoro politico clandestino la Ravera declinò l’offerta per dare la priorità alla militanza antifascista, ma appena rientrata in Italia fu costretta a spostare l’ufficio centrale da Genova alla Svizzera a causa di un delatore che aveva passato informazioni alla polizia. Il periodo svizzero durò però poco, perché la Ravera era profondamente convinta che il partito dovesse lavorare il più possibile all’interno dei confini nazionali. Camilla rientrò così in Italia nel maggio 1930, ma, nonostante le molte precauzioni prese, venne arrestata pochi mesi dopo.
Inizia così il calvario carcerario della Ravera che ricevette una condanna a 15 anni. Anni passati a spostarsi da una prigione all’altra, in condizioni estremamente dure, in particolare a fronte del suo corpo fragile e minuto. Anni terribili che culminarono con la sua espulsione dal partito avvenuta al confino di Ventotene, a causa di divergenze con gli altri carcerati comunisti riguardo il patto Molotov-Ribbentropp. Fu questo per la Ravera un colpo durissimo, un’umiliazione profonda che solo nel 1945 fu cancellata dal commovente episodio che la giornalista Miriam Mafai riporta in un suo articolo in cui racconta di quando Togliatti, ormai segretario e leader indiscusso del Pci, arrivò a Torino nella sede del partito e, attorniato da compagni e partigiani che festeggiavano la caduta del fascismo, si guardò intorno e con aria sorniona chiese:
«E dov’è la Ravera?». Qualcuno rispose imbarazzato che la Ravera non c’era, che non poteva esserci perché non era più nel partito. E Togliatti: «Ma non scherziamo… Portate qui la Ravera e che non si parli più di quella sciocchezza».
«Il nostro incontro fu commovente» ricordava la Ravera «ci abbracciammo in silenzio. Non ci vedevamo da più di tredici anni». E, senza clamore né dibattiti, la Ravera fu immediatamente riabilitata, invitata a far parte del Comitato Centrale del partito ed eletta in parlamento nel 1948.



Facciamo però un passo indietro, dato che l’attitudine rivoluzionaria di Camilla Ravera (nata nel 1889) veniva da lontano, e si trattava di un orientamento che coinvolgeva tutta la sua famiglia. E, come per molti di quella generazione, a spingerla verso l’impegno politico furono le drammatiche conseguenze della Prima guerra mondiale: un fratello, Giuseppe, morì al fronte, mentre un altro, Francesco, rimase intossicato dai gas. Nel 1918 fu poi il turno di un terzo fratello, Cesare, costretto ad andare in trincea. Cesare era iscritto al Partito socialista italiano, e incaricò Camilla di recarsi regolarmente alla sezione di Torino per pagare le sue quote mensili di sostegno al partito. Fu così che la Ravera si avvicinò agli ambienti socialisti e rapidamente finì per iscriversi pure lei al Psi, dedicando via via sempre più tempo alla militanza.
In tempi in cui per le donne italiane era quasi impossibile partecipare attivamente alla vita politica e sociale, la Ravera divenne rapidamente protagonista di quella fucina di elaborazione teorica e di azione politica che era la Torino dell’Ordine Nuovo, delle lotte guidate dalla classe operaia che seguirono la fine della Prima guerra mondiale, fino al drammatico insorgere del fascismo. Anche se questa «crescita» non fu affatto facile dato il carattere timido di Camilla. Ed è la stessa Ravera a raccontare che per lungo tempo si rifiutò di parlare in pubblico per l’imbarazzo, e la prima volta che parlò in assemblea fu quando un compagno, mentendo, disse: «ha chiesto la parola la compagna Ravera».
Ma, come dicevamo, il percorso politico di Camilla aveva radici biografiche e familiari profonde. E non è un caso che in molte interviste e scritti autobiografici la Ravera individui il suo «battesimo» politico in un episodio dell’infanzia; quando, a soli otto anni, camminando con la madre per le strade di una cittadina piemontese, si trovò di fronte a un enorme corteo di donne guidato da un uomo che teneva in mano una grande bandiera rossa. Era un corteo di scioperanti che urlando i loro slogan avevano spaventato la piccola Camilla:
la mamma, accortasi dello spavento che provavo, mi disse che quelle donne erano le pulitrici dell’oro, che protestavano perché con la loro paga, guadagnata lavorando dodici ore al giorno, non riuscivano a comprarsi nemmeno il pane e che le loro mani erano distrutte dall’acido che usavano per pulire l’oro. E mi disse che non dovevo avere paura dei lavoratori in sciopero e che mi sarebbe capitato spesso di re-incontrarli. Chiesi dove andassero e perché quell’uomo le guidasse. Lei rispose che non sapeva dove stessero andando ma che quel signore che imbracciava la bandiera rossa era Filippo Turati, il fondatore del Partito socialista italiano.

L’incontro «messianico» con Turati e le scioperanti fu, nei ricordi della Ravera, il punto di partenza di un percorso caratterizzato dall’urgenza di Camilla di «stare sempre in mezzo alla classe operaia» di modo da non perdere il contatto diretto coi movimenti politici reali. E nei decenni a venire la Ravera non mancherà mai di sottolineare che fu proprio questa sua necessità a farle intraprendere la carriera di insegnante, prima in provincia e poi a Torino.
Una volta arrivata nel capoluogo piemontese, grazie ai suoi scritti, fu presto individuata da Antonio Gramsci, che la instradò definitivamente verso il gruppo dirigente del neonato Partito comunista d’Italia. Dapprima affidandole La Tribuna delle donne (celebre rubrica de l’Ordine Nuovo), e dopo invitandola (luglio 1921) a entrare nella redazione del giornale. E il giorno della convocazione in redazione ritorna spesso nelle memorie della Ravera, come una medaglia appuntata sul petto:
Io e Gramsci chiacchierammo un po’ e, verso la fine della conversazione – durante la quale mi si era rivolto dandomi del lei –, mi disse che voleva che partecipassi al lavoro di redazione. Io, timida com’ero, tentai con banali giustificazioni di non accettare. Famiglia, scuola ed inesperienza furono le mie scusanti, ma Gramsci prima ascoltò con pazienza i miei farfugliamenti e poi disse: «Le chiedo formalmente di entrare a far parte della redazione dell’Ordine Nuovo».
E di fronte alle richieste formali di Antonio Gramsci nessuno sapeva dire di no. Da quel momento la vita di Camilla fu un susseguirsi di incarichi nazionali e internazionali via via più importanti, il primo dei quali la vide impegnata, nel novembre 1922, come delegata del Pcd’I, al quarto congresso dell’Internazionale Comunista.
Durante queste molteplici peregrinazioni all’estero la Ravera ebbe modo di conoscere personalmente le più importanti figure del movimento operaio mondiale: Clara Zetkin, femminista della prima ora, stretta collaboratrice di Rosa Luxemburg e fondatrice del Partito comunista tedesco; Christo Kabak?iev, il bulgaro dagli occhi chiari che nel giorno della fondazione del Pcd’I, a nome dell’Internazionale, fece levare in alto i calici per brindare ai bolscevichi italiani; Stalin, «sempre gentile, educato e silenzioso»; e poi Lenin, di cui la Ravera ricorda non solo le illuminanti lezioni alla scuola di partito ma anche le pungenti considerazioni sull’emancipazione delle donne: «sulla questione femminile – mi disse Lenin nel suo studio – gratta gratta un comunista ed anche lì viene fuori un reazionario».

E proprio a cavallo tra le storie leggendarie dell’Ordine Nuovo e le questioni di genere, la Ravera racconta uno degli aneddoti più interessanti e affettuosi della sua militanza torinese. Quando in Italia cominciarono le aggressioni fasciste alle organizzazioni sindacali e socialiste, anche alla redazione del giornale tutti temevano possibili irruzioni. Un giorno un collega si presentò dalla Ravera dicendole:
«Gramsci pensa che forse è meglio che tu vada a casa».
«Perché? – dissi io – È successo qualcosa ai miei genitori?»
«No, ma corre voce che i fascisti si stiano avvicinando. Ti portiamo lontano, è meglio, perché qui chissà cosa succede»
E io: «E tu? Ti allontani tu?»
«No, io no. Io devo restare qui».
«E allora perché devo allontanarmi io, scusa? Non capisco questo fatto. Vai da Gramsci e digli che ti spieghi un po’ il perché».
Poco dopo Arrivò Gramsci visibilmente imbarazzato e disse: «Ho capito. Resta. Abbiamo sbagliato».

E attorno alle questioni di genere si concentrarono molti degli sforzi di Camilla Ravera. Lei che mai si definì «femminista» ma sempre e soltanto «un’attenta osservatrice delle condizioni di vita delle donne», si trovò inevitabilmente a combattere con tutte le sue energie contro le discriminazioni sociali, e quindi anche quelle di genere. E fu appunto dalla Tribuna delle donne che Camilla condusse queste battaglie cercando di dare voce diretta alle istanze femminili. Ma, nonostante il grande impegno profuso, le risultò spesso difficile ottenere collaborazioni, dato che le compagne discutevano sì volentieri dei temi da lei proposti, ma erano intimidite dal giornale, dalla stampa, cose che avevano sempre considerato al di fuori della loro esperienza. E di fronte a queste difficoltà oggettive la Ravera e Gramsci cominciarono a porsi il problema (per l’Italia di allora davvero rivoluzionario) di come organizzare un movimento che, pur essendo riconducibile alla cornice delle lotte del lavoro, non fosse costituito solo di comunistebensì di donne a cui non si chiedesse di che partito fossero e neppure di quale religione, e anche da quelle donne che non avevano alcuna intenzione di organizzarsi in un partito, e che tuttavia come donne hanno problemi a tutte comuni, propri di un partito come di un altro, di una classe come di un’altra.

I tentativi di organizzazione del movimento femminile proseguirono e la Ravera fu incaricata, a partire dal 1924, di dirigere il quindicinale La compagna, ma, come si può immaginare, le lotte delle donne, e non solo quelle, subirono una dura battuta d’arresto a partire dal 1922 in seguito alla marcia su Roma, in quanto da quel momento fu la sopravvivenza, prima ancora della lotta, l’obiettivo prioritario del Partito comunista. E in un quadro politico che stava rapidamente precipitando verso una dittatura che voleva compiacere le gerarchie ecclesiastiche, gli spazi per le rivendicazioni femminili si restrinsero fino a scomparire. Fu solo a partire dal secondo dopoguerra che l’opera della Ravera in ambito femminista poté riprendere, quando, come deputata, fu cofirmataria di molti progetti di legge principalmente incentrati sulla tutela della maternità e la parità delle retribuzioni tra uomo e donna.

I primi anni del secondo dopoguerra furono gli ultimi di politica davvero attiva di Camilla Ravera che nel 1958 si ritirò a vita privata. Fu però nuovamente coinvolta nella vita politica nazionale quando, nel 1982, Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, ne fece la prima donna italiana senatrice a vita. Una scelta inaspettata, ma fino a un certo punto, perché, come disse Giulio Andreotti in un intervento parlamentare: l'intransigenza verso la dittatura fu la nota dominante nella scelta fatta da Pertini. A chi gli propose, per il Senato a vita, un illustre bancario, ineccepibile sotto tutti gli aspetti [Paolo Baffi, nda], Pertini rispose: «Non era con me quando lottavamo contro il fascismo», e scelse Camilla Ravera.

da: Jacobin, marzo 2021

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