Nata
in provincia di Alessandria nel 1889, fu per vari anni insegnante
elementare. Nel 1982 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, anche lui antifascista e vittima della carcerazione del regime, la nominò senatrice a vita. Rimase a Palazzo Madama fino al 1988 quando, quasi centenaria, morì a Roma.
Curatrice della rubrica "La tribuna delle donne" per "L'Ordine nuovo", dopo che il Partito comunista fu messo fuori legge durante il fascismo fu colei che tenne in piedi l'organizzazione che sarebbe stata decisiva durante la Resistenza Facciamo però un passo indietro, dato che l’attitudine rivoluzionaria di Camilla Ravera (nata nel 1889) veniva da lontano, e si trattava di un orientamento che coinvolgeva tutta la sua famiglia. E, come per molti di quella generazione, a spingerla verso l’impegno politico furono le drammatiche conseguenze della Prima guerra mondiale: un fratello, Giuseppe, morì al fronte, mentre un altro, Francesco, rimase intossicato dai gas. Nel 1918 fu poi il turno di un terzo fratello, Cesare, costretto ad andare in trincea. Cesare era iscritto al Partito socialista italiano, e incaricò Camilla di recarsi regolarmente alla sezione di Torino per pagare le sue quote mensili di sostegno al partito. Fu così che la Ravera si avvicinò agli ambienti socialisti e rapidamente finì per iscriversi pure lei al Psi, dedicando via via sempre più tempo alla militanza. In tempi in cui per le donne italiane era quasi impossibile partecipare attivamente alla vita politica e sociale, la Ravera divenne rapidamente protagonista di quella fucina di elaborazione teorica e di azione politica che era la Torino dell’Ordine Nuovo, delle lotte guidate dalla classe operaia che seguirono la fine della Prima guerra mondiale, fino al drammatico insorgere del fascismo. Anche se questa «crescita» non fu affatto facile dato il carattere timido di Camilla. Ed è la stessa Ravera a raccontare che per lungo tempo si rifiutò di parlare in pubblico per l’imbarazzo, e la prima volta che parlò in assemblea fu quando un compagno, mentendo, disse: «ha chiesto la parola la compagna Ravera». Ma, come dicevamo, il percorso politico di Camilla aveva radici biografiche e familiari profonde. E non è un caso che in molte interviste e scritti autobiografici la Ravera individui il suo «battesimo» politico in un episodio dell’infanzia; quando, a soli otto anni, camminando con la madre per le strade di una cittadina piemontese, si trovò di fronte a un enorme corteo di donne guidato da un uomo che teneva in mano una grande bandiera rossa. Era un corteo di scioperanti che urlando i loro slogan avevano spaventato la piccola Camilla: la mamma, accortasi dello spavento che provavo, mi disse che quelle donne erano le pulitrici dell’oro, che protestavano perché con la loro paga, guadagnata lavorando dodici ore al giorno, non riuscivano a comprarsi nemmeno il pane e che le loro mani erano distrutte dall’acido che usavano per pulire l’oro. E mi disse che non dovevo avere paura dei lavoratori in sciopero e che mi sarebbe capitato spesso di re-incontrarli. Chiesi dove andassero e perché quell’uomo le guidasse. Lei rispose che non sapeva dove stessero andando ma che quel signore che imbracciava la bandiera rossa era Filippo Turati, il fondatore del Partito socialista italiano. L’incontro «messianico» con Turati e le scioperanti fu, nei ricordi della Ravera, il punto di partenza di un percorso caratterizzato dall’urgenza di Camilla di «stare sempre in mezzo alla classe operaia» di modo da non perdere il contatto diretto coi movimenti politici reali. E nei decenni a venire la Ravera non mancherà mai di sottolineare che fu proprio questa sua necessità a farle intraprendere la carriera di insegnante, prima in provincia e poi a Torino. Una volta arrivata nel capoluogo piemontese, grazie ai suoi scritti, fu presto individuata da Antonio Gramsci, che la instradò definitivamente verso il gruppo dirigente del neonato Partito comunista d’Italia. Dapprima affidandole La Tribuna delle donne (celebre rubrica de l’Ordine Nuovo), e dopo invitandola (luglio 1921) a entrare nella redazione del giornale. E il giorno della convocazione in redazione ritorna spesso nelle memorie della Ravera, come una medaglia appuntata sul petto: Io e Gramsci chiacchierammo un po’ e, verso la fine della conversazione – durante la quale mi si era rivolto dandomi del lei –, mi disse che voleva che partecipassi al lavoro di redazione. Io, timida com’ero, tentai con banali giustificazioni di non accettare. Famiglia, scuola ed inesperienza furono le mie scusanti, ma Gramsci prima ascoltò con pazienza i miei farfugliamenti e poi disse: «Le chiedo formalmente di entrare a far parte della redazione dell’Ordine Nuovo». E di fronte alle richieste formali di Antonio Gramsci nessuno sapeva dire di no. Da quel momento la vita di Camilla fu un susseguirsi di incarichi nazionali e internazionali via via più importanti, il primo dei quali la vide impegnata, nel novembre 1922, come delegata del Pcd’I, al quarto congresso dell’Internazionale Comunista. Durante queste molteplici peregrinazioni all’estero la Ravera ebbe modo di conoscere personalmente le più importanti figure del movimento operaio mondiale: Clara Zetkin, femminista della prima ora, stretta collaboratrice di Rosa Luxemburg e fondatrice del Partito comunista tedesco; Christo Kabak?iev, il bulgaro dagli occhi chiari che nel giorno della fondazione del Pcd’I, a nome dell’Internazionale, fece levare in alto i calici per brindare ai bolscevichi italiani; Stalin, «sempre gentile, educato e silenzioso»; e poi Lenin, di cui la Ravera ricorda non solo le illuminanti lezioni alla scuola di partito ma anche le pungenti considerazioni sull’emancipazione delle donne: «sulla questione femminile – mi disse Lenin nel suo studio – gratta gratta un comunista ed anche lì viene fuori un reazionario». E proprio a cavallo tra le storie leggendarie dell’Ordine Nuovo e le questioni di genere, la Ravera racconta uno degli aneddoti più interessanti e affettuosi della sua militanza torinese. Quando in Italia cominciarono le aggressioni fasciste alle organizzazioni sindacali e socialiste, anche alla redazione del giornale tutti temevano possibili irruzioni. Un giorno un collega si presentò dalla Ravera dicendole: «Gramsci pensa che forse è meglio che tu vada a casa». «Perché? – dissi io – È successo qualcosa ai miei genitori?» «No, ma corre voce che i fascisti si stiano avvicinando. Ti portiamo lontano, è meglio, perché qui chissà cosa succede» E io: «E tu? Ti allontani tu?» «No, io no. Io devo restare qui». «E allora perché devo allontanarmi io, scusa? Non capisco questo fatto. Vai da Gramsci e digli che ti spieghi un po’ il perché». Poco dopo Arrivò Gramsci visibilmente imbarazzato e disse: «Ho capito. Resta. Abbiamo sbagliato». E attorno alle questioni di genere si concentrarono molti degli sforzi di Camilla Ravera. Lei che mai si definì «femminista» ma sempre e soltanto «un’attenta osservatrice delle condizioni di vita delle donne», si trovò inevitabilmente a combattere con tutte le sue energie contro le discriminazioni sociali, e quindi anche quelle di genere. E fu appunto dalla Tribuna delle donne che Camilla condusse queste battaglie cercando di dare voce diretta alle istanze femminili. Ma, nonostante il grande impegno profuso, le risultò spesso difficile ottenere collaborazioni, dato che le compagne discutevano sì volentieri dei temi da lei proposti, ma erano intimidite dal giornale, dalla stampa, cose che avevano sempre considerato al di fuori della loro esperienza. E di fronte a queste difficoltà oggettive la Ravera e Gramsci cominciarono a porsi il problema (per l’Italia di allora davvero rivoluzionario) di come organizzare un movimento che, pur essendo riconducibile alla cornice delle lotte del lavoro, non fosse costituito solo di comunistebensì di donne a cui non si chiedesse di che partito fossero e neppure di quale religione, e anche da quelle donne che non avevano alcuna intenzione di organizzarsi in un partito, e che tuttavia come donne hanno problemi a tutte comuni, propri di un partito come di un altro, di una classe come di un’altra. I tentativi di organizzazione del movimento femminile proseguirono e la Ravera fu incaricata, a partire dal 1924, di dirigere il quindicinale La compagna, ma, come si può immaginare, le lotte delle donne, e non solo quelle, subirono una dura battuta d’arresto a partire dal 1922 in seguito alla marcia su Roma, in quanto da quel momento fu la sopravvivenza, prima ancora della lotta, l’obiettivo prioritario del Partito comunista. E in un quadro politico che stava rapidamente precipitando verso una dittatura che voleva compiacere le gerarchie ecclesiastiche, gli spazi per le rivendicazioni femminili si restrinsero fino a scomparire. Fu solo a partire dal secondo dopoguerra che l’opera della Ravera in ambito femminista poté riprendere, quando, come deputata, fu cofirmataria di molti progetti di legge principalmente incentrati sulla tutela della maternità e la parità delle retribuzioni tra uomo e donna. I primi anni del secondo dopoguerra furono gli ultimi di politica davvero attiva di Camilla Ravera che nel 1958 si ritirò a vita privata. Fu però nuovamente coinvolta nella vita politica nazionale quando, nel 1982, Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, ne fece la prima donna italiana senatrice a vita. Una scelta inaspettata, ma fino a un certo punto, perché, come disse Giulio Andreotti in un intervento parlamentare: l'intransigenza verso la dittatura fu la nota dominante nella scelta fatta da Pertini. A chi gli propose, per il Senato a vita, un illustre bancario, ineccepibile sotto tutti gli aspetti [Paolo Baffi, nda], Pertini rispose: «Non era con me quando lottavamo contro il fascismo», e scelse Camilla Ravera. da: Jacobin, marzo 2021 |