Nel contesto di un convegno del 1999 - organizzato dalle riviste
Mouvements, Ecologie et politique
e Devenirs, insieme alla "manifestolibri"
- il manifesto
ha incontrato Agnes Heller, presente tra i relatori
convenuti nell'anfiteatro Louis Liard alla Sorbona. Oggetto del
convegno era il "'68 nella storia della cultura politica
europea", che ha potuto contare su una partecipazione incrociata
franco-italiana (Marcello Flores, Marco Revelli, Gianni Alasia,
Stefano Petrucciani, Silvia Boba, Isabelle Sommier, Henri Rey,
Jean Pierre Le Goff, Bernard Ravenel) e su altri interventi internazionali,
tra cui quello di Immanuel Wallerstein (presente con un testo
scritto), di Peter Uhl e, appunto, di Agnes Heller. È nota
la formazione della filosofa, in Ungheria, con György Lukács al quale si riconosce debitrice di una eredità spirituale,
ma non certo teorica. Dopo avere trascorso molti anni in Australia,
Agnes Heller è tornata a passare una parte della sua vita
nel paese natale, dividendo il suo tempo tra Budapest e New York.
Qui un suo scritto sulla teoria del bisogno in Marx.
Secondo
lei c'è stato un qualche elemento di "universalità"
nel '68, tale da avere coinvolto sia l'est che l'ovest?
Di certo ha segnato un punto di svolta. Non è un caso se
molti rappresentanti del pensiero post-moderno, sparsi un po'
dappertutto, vengono da quella esperienza. Si diceva: vogliamo
cambiare vita, qui ed ora. Non domani. Per quanto abbia avuto
connotazioni politiche differenti a seconda dei diversi paesi
- è stato dappertutto un movimento "contro le grandi
narrazioni". Un movimento che ha difeso valori della modernità
anche diversi tra loro, ma che aveva alla base la difesa vitale
della libertà. La questione della libertà è
un altro modo per alludere alla questione dei bisogni, su cui
lei ha scritto un testo che ha avuto una grande risonanza in occidente.
Lei,
allora, era a Budapest: in che contesto è nato questo libro?
Alla fine degli anni '60, inizio '70, eravamo alla scuola di Lukács.
Ma né io né i miei amici eravamo impegnati nel movimento
di rinnovamento del marxismo, che proponeva il ritorno alle radici,
alle fonti marxiane. Quello che ci sembrò evidente, era
il venire alla luce di molte varianti del marxismo, di molte interpretazioni
possibili, in competizione tra loro: ed era precisamente questo
ciò che più mi interessava.
Nel mio libro La filosofia della vita quotidiana, i bisogni
sono stati il punto di partenza per capire le trasformazioni sociali.
Ho scritto La teoria dei bisogni proseguendo su questa
stessa linea, prima dell'emergenza della nuova sinistra. In quelle
pagine, respingevo il paradigma produttivista. Ma per me, questo
libro non è stato importante: era, in realtà, una
ricapitolazione delle teorie di Marx, che avrebbe dovuto costituire
l'introduzione alla mia teoria dei bisogni, che però non
ho mai scritto. Il mio libro non parte dalla stratificazione sociale,
perché secondo me i bisogni umani non possono essere stratificati.
In contrasto con la tradizione filosofica moderna, che ha origine
in Kant, secondo la quale i bisogni sono quantificabili, io ho
introdotto un nuovo concetto critico, ovvero l'insaziabilità
dei bisogni, non solo materiali. Volevo denunciare il
modo con cui il mondo moderno considera i guadagni e le perdite.
Credo ancora nei bisogni radicali. Ma da quando ho scritto quel
libro a oggi qualcosa è cambiato: non sono più marxista.
Perché non credo più che il presente sia un breve
passaggio di un secolo indirizzato verso una sorta di paradiso.
Qui viviamo, qui moriremo.
Bisognerebbe,
a suo giudizio, abbandonare tutte le teorie che propongono una
filosofia finalistica della storia?
La nostra generazione, in tutto il mondo, aveva creduto nella
possibilità di realizzare l'utopia dopo periodi di transizione
e di conflitto. Avevamo la certezza di potere realizzare il paradiso
in terra. Ma è giunto il momento di abbandonare ogni finalismo
e di riscrivere una filosofia che parta da noi stessi. A partire
dall'interrogazione di quei bisogni radicali, che essendo indotti
da un capitalismo incapace di soddisfarli, restano tali.
Quel che va indagato è il concetto di modernità,
ben più vasto rispetto a quello di capitalismo. Io non
credo che sia la storia a essere cambiata, ma la coscienza di
essa: dopo il '68 si è inaugurato un nuovo modo di guardare
alla modernità. Le grandi narrazioni sono finite. Ed è
difficile riuscire a guardare al di là del proprio orizzonte
personale e del proprio presente. Nella modernità c'è
un movimento pendolare tra universalismo e particolarismo che
si esprime, per esempio, nella tensione costante tra cattolicesimo
e protestantesimo; o ancora, in economia, tra libero mercato e
interventismo. Altri movimenti pendolari verranno, ma la tensione
non arriverà mai fino al punto di rottura. Ora, io mi domando:
la fine delle grandi utopie è una perdita o un guadagno?
che cosa oggi è più importante e per chi? È
questo che va analizzato: nonostante il collasso delle grandi
speranze, tuttavia ad esse si deve un grande rispetto.
Secondo
lei, l'universalità del '68 risiede nel suo essere stato,
prima di tutto, movimento critico. Ma come mai in seguito ci fu
una forte incomprensione a sinistra tra est e ovest?
Nel '68 il movimento occidentale fu capito anche nei paesi dell'est.
In Ungheria, i giovani parteciparono al '68 riferendosi inizialmente
alla musica, alle barricate, ecc.
Cos'è
la sinistra?
È
movimento critico, non qualcosa di ideologicamente compatto. Riguarda
i diritti civili, tutti, anche quelli del mercato. Ma perché
la sinistra occidentale non ha capito che anche nel libero mercato
si esprime una forma di libertà? Oggi, certo, la regolazione
del mercato è un problema, ma allora all'est non era una
questione che ci ponevamo. C'erano, invece, molti problemi relativi
alla libertà, che in occidente non venivano capite: per
esempio, come avere un passaporto, come poter viaggiare, ecc.
Cosa
pensa di quello che succede oggi all'est? Solidarnosc era stata,
per l'occidente, un punto di riferimento.
E
molto prima c'era stato il '56 in Ungheria.
Cosa
è rimasto di tutto ciò che questi movimenti avevano
significato nel profondo?
Nel passato, Solidarnosc, anche dopo la sconfitta, era rimasta
un punto cruciale. La gente pensava che il sistema dovesse essere
cambiato, ma non passo dopo passo. Nei samizdat ungheresi
si parlava di contratto sociale. Solidarnosc aveva dato a questo
concetto una dimensione pratica. Nel '56 in Ungheria, con il "Manifesto
dei consigli operai", l'autogestione, e il multipartitismo
c'era stato un movimento molto forte, più radicale di Solidarnosc.
Ma ora, per quanto sia triste dirlo, tutti questi movimenti sono
diventati conservatori, di destra. Persone che in Ungheria combattevano
sulle barricate e in Polonia avevano militato in Solidarnosc,
sono diventate semifasciste.
Anche
i minatori in Romania sono un esempio di questa deriva?
È uno di quei paesi in cui il movimento operaio sta diventando
di estrema destra. È una cosa che mi far stare male. Sono
populisti, sono contro gli immigrati, contro gli zingari, anti
tutto, anti liberali, anticapitalisti, anti americani. È
triste dirlo, ma è così.
il
manifesto, 12.02.99 |