Nicolas Tertullian
L'etica di Lukács
di fronte al tuono
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Dal più importante studioso del filosofo ungherese un contributo
critico al libro di Stefano Catucci, Per una filosofia povera (Bollati).
Contrariamente alla maggioranza degli intellettuali,
che videro nella Grande Guerra un riscatto dalla miseria quotidiana,
l'antibellicista Lukács identificò uno spazio di
possibile autenticità per il presente nella rinuncia della
filosofia alle pretese totalizzanti del suo sguardo estetico e
metafisico
Il silenzio che ormai da lungo tempo, e soprattutto nei grandi
media, circonda l'opera di György Lukács (in particolare
gli scritti della maturità, di orientamento rigorosamente
marxista), comincia a incrinarsi. La sua statura filosofica, largamente
sottostimata per evidenti ragioni di congiuntura ideologica (ci
si è affrettati a seppellirlo sotto le macerie del muro
di Berlino), torna poco a poco all'attenzione, a volte per vie
indirette e tortuose. L'anno scorso, per esempio, di Giuseppe
Prestipino è uscita, con il titolo Realismo e utopia (Editori Riuniti, 2002) un'interessante raccolta di testi dedicati
essenzialmente a un'analisi comparata del pensiero di Ernst Bloch
e di Lukács.
Il libro che ora Stefano Cantucci ha pubblicato per Bollati Boringhieri
fa parte di questo stesso movimento. Dedicato sostanzialmente
al pensiero del giovane Lukács, questo lavoro si distingue
fortunatamente dalla letteratura degli ultimi decenni per il suo
rifiuto di scindere l'opera e la personalità del filosofo
in due blocchi eterogenei.
Lungi dall'attestarsi sugli scritti del periodo giovanile allo
scopo di svalutare l'opera della maturità (metodo molto
diffuso), Stefano Catucci procede a una spettacolare ricostruzione
del primo Lukács per mostrare come molti dei suoi elementi
si ritrovino sviluppati, trasformati o consolidati nelle grandi
opere del secondo periodo. L'autore, che ha una profonda conoscenza
delle opere giovanili di Lukács, compresi gli scritti minori,
le note su Dostoevskij, il Diario del 1910-11 e naturalmente
la corrispondenza, mostra una perfetta comprensione e una grande
sensibilità nei confronti del movimento interno di un pensiero
costantemente alla ricerca di se stesso, lungo tutto il periodo
che va dal 1906 al 1918 (i soli scritti rimasti fuori dalla sua
considerazione sono le Heidelberger Notizen del 1910-13,
pubblicate a Budapest nel 1997).
La scommessa di riconoscere nel giovane Lukács i semi
della sua evoluzione ulteriore e di mostrare come la sua adesione
al comunismo, nel 1918, anziché provenire ex
nihilo, sia
stata preceduta da tentativi ed esperimenti intellettuali che
tradiscono un'evidente volontà di rottura con il mondo
borghese (il «mondo della convenzione»), può
apparire azzardata, avendo lo stesso Lukács più
volte ripetuto che al momento della sua adesione al marxismo si
era prodotta, in lui, una vera cesura. Ma si può dire che,
nell'insieme, Catucci ha vinto la scommessa.
L'autore del libro Per una filosofia povera fa notare
a giusto titolo come l'intellettuale che ha aderito al movimento
comunista avesse già una formazione filosofica solida,
saturata dalle letture di Meister Eckhart, Kierkegaard e Dostoevskij
(fra gli altri), e come, inoltre, egli coltivasse già da
tempo il progetto di costruire una filosofia nuova, in rottura
con i sistemi del passato. Analizzando minuziosamente la ricchezza
del patrimonio intellettuale del giovane Lukács e la singolarità
della sua fisionomia spirituale, Stefano Catucci insiste con ragione
sulla intrinseca incompatibilità tra la forma mentis del
futuro marxista, erede di un'esperienza di pensiero complessa
e raffinata, e il semplicismo del marxismo codificato all'epoca
dello stalinismo. Così, rivitalizzando il pensiero giovanile
e dimostrando la continuità fra i due diversi periodi dell'attività
di Lukács, Catucci va contro una tendenza oggi molto diffusa,
quella che tende a gettare il discredito sull'insieme del Lebenswerk
lukacsiano.
Sotto la penna sottile di Stefano Catucci, e grazie a un serio
lavoro di ricostruzione, testi come Cultura estetica,
il dialogo Sulla povertà di spirito, l'intervento
intitolato Le vie si sono divise e altri più conosciuti,
come i saggi riuniti nell'Anima e le forme o la Teoria
del romanzo, ai quali bisogna aggiungere il Manoscritto
Dostoevskij, acquistano nuova freschezza, illuminati da una
prospettiva inedita.
L'autore di Per una filosofia povera costruisce per
la prima volta un ampio lavoro di contestualizzazione storica
del pensiero di Lukács situando al centro, giustamente,
l'esperienza della prima guerra mondiale. La posizione lungimirante
del giovane filosofo, che aveva dichiarato la sua ferma opposizione
alla guerra fin dai primi giorni dell'agosto 1914, ritrova tutto
il suo senso quando viene messa in relazione, come fa l'autore
del libro, con il paesaggio intellettuale dell'epoca, portandoci
a ricordare l'entusiasmo guerriero di Simmel, di Scheler, di Max
Weber, per tacere di Meinecke, Troeltsch e di tanti altri intellettuali
tedeschi. Anche se non condivido la tesi di Catucci, secondo il
quale la critica di Lukács poggia sulla stessa «base
gnoseologica» dei suoi contemporanei neokantiani (mi sembra,
infatti, che egli avesse superato questa base avviandosi verso
un pensiero della sovversione il cui cardine è la «seconda
etica»), è incontestabile che il Kriegserlebnis,
l'esperienza della guerra, abbia segnato una svolta decisiva nel
cammino del filosofo verso una radicalità rivoluzionaria.
Resta da guardare più da vicino l'idea centrale del libro
di Catucci: l'elogio di una «filosofia povera», Leitmotiv
annunciato dal titolo e che, con numerose variazioni, attraversa
l'intera opera. Ispirato da un testo di Walter Benjamin, Esperienza
e povertà, del 1933, e soprattutto dal celebre dialogo
di Lukács Sulla povertà di spirito, del
1912, il concetto conserva una sua forza euristica se lo si riconduce
al suo senso originario, così come lo ha definito Meister
Eckhart in uno dei suoi sermoni più noti. Nel pensiero
del mistico tedesco, assumeva la valenza di un processo di spoliazione
dello spirito dalla falsa ricchezza del mondo, del congedo da
un mondo di simulacri in favore di un'essenzializzazione e di
una stilizzazione estrema, formalizzata appunto nell'espressione
«povertà di spirito».
La risalita verso il «fondamento dell'anima» (Grund
der Seele), nucleo della vera humanitas dell'homo humanus,
costituisce in effetti un motivo centrale nel pensiero del giovane
Lukács, presente tanto nel dialogo Sulla povetà
di spirito che nelle note manoscritte su Dostoevskij. Stefano
Catucci ha dunque ragione nel mettere in rilievo questo aspetto,
arrivando a farne addirittura una chiave ermeneutica per la comprensione
dell'intera opera di Lukács. Questi, d'altra parte, ha
conservato fino alla fine della sua vita una grande ammirazione
per la personalità e l'opera di Meister Eckhart.
In tale direzione Catucci avrebbe potuto prolungare le sue analisi
estendendole alle grandi opere della maturità, per mostrare
l'isomorfismo tra il riferimento del primo Lukács al «miracolo
della bontà» e l'idea di «grazia» nel
capitolo cruciale dell'Estetica degli anni Sessanta;
fra il «fondamento dell'anima» (Grund der Seele)
e l'idea dell'uomo come «nocciolo» (Kern)
e non come «guscio» (Schale), sviluppata
in un altro capitolo della stessa Estetica; fra il concetto
della «seconda etica» (dominata dagli «imperativi
dell'anima») e il concetto di «genere umano
per sé» nell'Ontologia dell'essere
sociale: purtroppo, l'opera dell'ultimo Lukács occupa ancora
un posto troppo ristretto nelle sue analisi, focalizzate soprattutto,
anche se non esclusivamente, sugli scritti di gioventù.
E tuttavia il concetto di «filosofia povera»
solleva qualche interrogativo, tanto numerose e fluide sono le
accezioni che gli consegna l'autore. La «povertà»
indica a volte la situazione di indigenza del mondo moderno, la
perdita della «immanenza del senso» di cui parlava
Lukács nella Teoria del romanzo, e altre volte,
al contrario, «una povertà nuovamente ricca e
beata», ripresa del concetto positivo della «beata
povertà» dei francescani e di Meister Eckhart. In
altri passaggi il concetto si avvicina alla «mancanza di
interesse» di Kant (ripresa da Lukács nella sua Estetica
di Heidelberg), intesa come «il contrassegno della povertà
dello spirito» (un accostamento forse non improprio). Altre
volte, infine, la «povertà» diventa il fermento
costitutivo di una «ontologia critica» e prende un'estensione
inattesa laddove la stessa Estetica giovanile di Lukács
viene definita come una «ontologia povera».
Se una tale estensione del concetto di «filosofia povera»
provoca una certa reticenza, è perché penso alle
opere che coronano il cammino intellettuale di Lukács,
l'Estetica e l'Ontologia dell'essere sociale.
La ricchezza categoriale che le caratterizza sembra contraddire
l'idea di una «filosofia povera» (quale che sia il
senso figurativo dell'espressione).
A differenza di Catucci, non credo che la vocazione ultima di
Lukács sia rimasta fino alla fine quella di un «saggista»
piuttosto che di un «pensatore sistematico».
Era l'idea che ne aveva Emil Lask, vivamente contestato da Max
Weber che, nel 1916, incoraggiava Lukács a perfezionare
il suo «sistema» estetico. L'elaborazione, alla fine
della sua vita, di una grande Estetica sistematica, di
una Ontologia dell'essere sociale e di un'Etica
(incompiuta), fanno di Lukács uno degli ultimi grandi pensatori
sistematici del nostro tempo, ugualmente distante dal pensiero
dell'Essere a-categoriale di Heidegger, dai «giochi
linguistici» di Wittgenstein, da un mondo «senza
sostanze e senza essenze» di Rorty e dal «messianismo
senza messia» di Derrida.
Stefano Catucci ha probabilmente ragione nell'accostare Heidegger
e Lukács, identificando in loro due «pensatori
di un'epoca dello sconforto», come diceva Karl Löwith.
Ma è convincente soprattutto laddove sottolinea l'opposizione
fra l'approccio heideggeriano all'opera di Hölderlin e di
Rilke, depurata di ogni connotazione storica e sociale, e quello
di Lukács, che si appoggia precisamente su una contestualizzazione
socio-storica dell'opera di Hölderlin (come si legge nel
paragrafo intitolato Perché i filosofi nel tempo della
povertà?).
D'altra parte nel 1976, in una lettera a Imma von Bodmershof,
Heidegger stesso rifiutava una lettura della poesia di Hölderlin
nella prospettiva del suo «giacobinismo», alludendo
probabilmente ai lavori di Lukács e di Bertaux.
Più di venticinque anni fa, nella prefazione alla traduzione
italiana del volume Cultura estetica di Lukács
(Newton Compton, 1977), Emilio Garroni, il maestro di Stefano
Catucci, sottolineava la necessità di superare l'opposizione
ingiustificata fra il giovane Lukács e il Lukács
della maturità, valorizzando piuttosto le «costanti»
della sua opera. Negli ultimi anni, due allievi di Garroni hanno
pubblicato dei lavori notevoli nei quali gli scritti giovanili
di Lukács, in particolare la Teoria del romanzo,
sono oggetto di interpretazioni molto originali: Pietro Montani
con il suo libro Estetica ed ermeneutica e Giuseppe Di
Giacomo nel suo Estetica e letteratura. Il libro appena
uscito di Stefano Catucci, che segue quelli dedicati a Husserl
e a Foucault, si situa su questa stessa linea di pensiero. Ma
il suo saggio raffinato si mostra più vicino all'auspicio
di Garroni, poiché a differenza delle opere appena citate,
che si soffermano esclusivamente sull'opera giovanile di Lukács
(Montani, soprattutto, sembra non apprezzare il «secondo»
Lukács), insiste sulla persistenza di alcuni motivi centrali
del periodo giovanile nell'opera della maturità, e così
facendo mette in luce, al di là delle discontinuità
e delle rotture, l'unità di un'opera che ha attraversato
un secolo.
il manifesto
28.05.2003
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