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Lelio La Porta
Pasolini o dell’impolitico che è politico
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La morte di Pasolini (della quale Rinascita si è
già occupato con un’intervista di Manuela Tempesta
a Sergio Citti, recentemente scomparso, nel numero del 13 maggio):
uno dei momenti di maggior tristezza e di rabbia autentica per
chi militava a sinistra o, comunque, in senso lato, aveva a cuore
le sorti della cultura nel nostro paese (e per questo stava a
sinistra ieri e a sinistra sta oggi). Chi lo avrebbe visto con
piacere arrostire in Campo de’ Fiori come Bruno o, meglio
ancora, avrebbe desiderato fargli indossare la mordacchia, dimenticava
tutto. Facile sottrarre ad un’appartenenza comunista un
uomo che aveva visto morire il fratello per mano dei partigiani
di Tito * ed aveva avuto il padre salvatore
di Mussolini dalle mani dell’attentatore (o meglio, presunto
tale) Zamboni. E poi non era stato espulso dal PCI per “indegnità
morale”?
Purtroppo per costoro è noto cosa Pasolini pensasse in genere dei padri e cosa, soprattutto, pensasse e scrivesse della
morte del fratello. A tale proposito rimane la risposta ad un
lettore che lo incalzava sulla questione: dopo aver brevemente
contestualizzato la fine di Guido (questo era il nome del fratello)
nella situazione delle terre fra Italia e Jugoslavia durante il
periodo 1943-45 (è il periodo delle foibe, tanto per intenderci),
così concludeva lo scrittore: “Che la sua morte
sia avvenuta così in una situazione complessa e apparentemente
difficile da giudicare, non mi dà nessuna esitazione. Mi
conferma soltanto nella convinzione che nulla è semplice,
nulla avviene senza complicazione e sofferenze: e che quello che
conta soprattutto è la lucidità critica che distrugge
le parole e le convenzioni, e va a fondo nelle cose, dentro la
loro segreta e inalienabile verità”.
La verità, ancora e sempre la verità: “Io
so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché
sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto
ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne
scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si
tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,
che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà,
la follia e il mistero” (14 novembre 1974, Il romanzo
delle stragi in Scritti corsari, pubblicato sul Corriere della sera con il titolo Che cos’è
questo golpe?). Il grande intellettuale si riferiva all’Italia
martoriata dalle stragi fasciste e dai tentativi di colpo di Stato.
Lo avremmo volentieri visto oggi nel corso di un dibattito riprendere
le sue provocatorie tesi su un fascismo sempre più autobiografia
della nazione, molto più reale oggi, nella sua logica cinicamente
antidemocratica, di quanto lo fosse trent’anni fa (ossia
ai tempi di quello che veniva definito il sistema di potere democristiano).
Ci sarebbe piaciuto sentirlo mettere in rima omologazione con
globalizzazione, conformismo con berlusconismo; con il suo coraggio
e la sua autorevolezza.
Ecco, il coraggio: dire ciò che è, sempre e dovunque.
“La cosa più dura è scoprire quello che
già si sa”, scriveva Elias Canetti. Questa è
la dimensione in cui collocare Pasolini, definito da Asor Rosa,
qualche tempo fa, “nostro impolitico profeta”.
Impolitico è colui che rifiuta, magari soltanto per via
estetica, come sembra essere per Pasolini, lo stato di cose presente.
Ma già in questo c’è un atteggiamento così
totalmente marxista da anticipare ogni possibile forma di una
scelta altrettanto totalmente politica: quella scelta che il poeta
pagò con il martirio.
Rinascita, n. 04/2005
* nota
redazionale: l'autore incorre in un errore: il fratello di Pasolini,
partigiano dell'Osoppo, fu tra le vittime dell'eccidio
di malga Porzûs,
compiuto dai gappisti di "Giacca", presumibilmente su ordine del comando del IX Corpus jugoslavo.
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