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Noam Chomsky
Il controllo dei media |
Il
ruolo dei mezzi
di comunicazione nella politica contemporanea
ci costringe a chiederci in che tipo di mondo e in che genere
di società vogliamo vivere e in particolare cosa intendiamo
per società democratica. Comincerò con il contrapporre
due diverse concezioni di democrazia. Una definisce democratica
la società in cui il popolo ha i mezzi per partecipare
in modo significativo alla gestione dei propri interessi e in
cui i media sono accessibili e liberi. Una definizione di questo
tipo si trova anche sul dizionario.
La
concezione alternativa è quella che prevede una società
in cui al popolo è proibito gestire i propri interessi
e i mezzi di comunicazione sono strettamente e rigidamente controllati.
Questa può apparire una forma di democrazia improbabile,
ma è importante comprendere che si tratta della concezione
prevalente. E lo è da lungo tempo, non solo nella prassi,
ma anche nella teoria. Una lunga storia, risalente alle prime
rivoluzioni democratiche moderne nell'Inghilterra del XVII secolo,
riflette questa ideologia.
Nelle
pagine che seguono mi occuperò del periodo contemporaneo,
soffermandomi in particolare sullo sviluppo della seconda concezione
di democrazia, e su come e perché il problema dei media
e della disinformazione si inserisce in questo contesto.
La nascita della propaganda
Cominciamo con la prima operazione propagandistica di
un governo moderno. Accadde durante l'amministrazione
di Woodrow Wilson, che fu eletto presidente nel 1916 con un programma
intitolato "Pace senza vittoria". La Prima
guerra mondiale infuriava, e la popolazione americana era decisamente
pacifista: riteneva che non ci fosse alcun motivo per farsi coinvolgere
in un conflitto europeo. L'amministrazione Wilson invece era favorevole
alla guerra, perciò doveva trovare un modo per ottenere
il consenso popolare al proprio interventismo. Fu dunque istituita
una commissione governativa per la propaganda, la Commissione
Creel, che nel giro di sei mesi riuscì a trasformare una
popolazione pacifista in un popolo fanatico e guerrafondaio, deciso
a distruggere tutto quanto appartenesse alla Germania, a trucidare
i tedeschi, a entrare in guerra e a salvare il mondo. Fu un grande
risultato, il primo di una lunga serie. Già a quell'epoca
e nel dopoguerra vennero utilizzate le stesse tecniche per scatenare
un incontrollato red scare ("terrore rosso"), come fu
chiamato, che riuscì a distruggere i sindacati e a cancellare
pericolose abitudini come la libertà di stampa e la libertà
di pensiero politico. L'appoggio dei media e del mondo degli affari,
che di fatto organizzò e portò avanti gran parte
dell'operazione, fu determinante, e il risultato fu un grande
successo.
Fra
quelli che parteciparono attivamente e con entusiasmo alla propaganda
voluta da Wilson c'erano gli intellettuali progressisti, persone
del circolo di John Dewey, i quali, come testimoniano i loro stessi
scritti dell'epoca, erano molto orgogliosi di poter dimostrare
che "i più intelligenti membri della comunità",
cioè loro stessi, erano capaci di indurre alla guerra una
popolazione riluttante, terrorizzandola e suscitando un fanatismo
oltranzista. Il dispiegamento di mezzi fu ingente; per esempio,
furono divulgate terribili storie sulle atrocità commesse
dai tedeschi, cronache di bambini belgi con le braccia strappate
e altri orrori di ogni sorta, che si trovano ancora nei libri
di storia. Molte di quelle invenzioni erano frutto del ministero
della Propaganda britannico, il cui impegno a quel tempo era finalizzato,
come venne precisato nelle deliberazioni segrete, a "indirizzare
il pensiero della maggioranza del mondo". Ma soprattutto
miravano a controllare il pensiero dei membri più intelligenti
della comunità statunitense, che avrebbero poi diffuso
la propaganda da loro escogitata e convertito un paese pacifista
all'isteria di guerra. Funzionò. Funzionò tutto
perfettamente, e fu una lezione: la propaganda di stato,
quando è appoggiata dalle classi colte e non lascia spazio
al dissenso, può avere un effetto dirompente.
Una lezione che Hitler e molti altri appresero a fondo e di cui
si tiene conto ancora oggi.
La
democrazia degli spettatori
Un altro gruppo che rimase colpito da tanto successo fu quello
dei teorici della democrazia liberale e delle figure di spicco
dei media, come per esempio Walter Lippmann,
decano dei giornalisti statunitensi, grande critico della politica
interna ed estera del paese e importante teorico della democrazia
liberale. La raccolta dei suoi scritti ha come sottotitolo "Una
teoria progressista del pensiero liberale democratico".
Lippmann aveva partecipato alle commissioni di propaganda e ne
riconobbe i risultati. Sostenne che quella che definiva "una
rivoluzione nell'arte della democrazia" poteva essere
usata per "fabbricare consenso", cioè
ottenere mediante le nuove tecniche di propaganda l'appoggio della
popolazione rovesciandone l'opinione. La riteneva un'idea non
solo buona, ma addirittura necessaria perché, come spiegò,
"gli interessi comuni sfuggono completamente all'opinione
pubblica" e possono essere compresi e amministrati soltanto
da una "classe specializzata" di "uomini
responsabili", abbastanza intelligenti da capire come
vanno le cose. Secondo questa teoria solo una ristretta élite,
la comunità intellettuale cui si riferivano i seguaci di
Dewey, è in grado di comprendere gli interessi comuni,
che riguardano tutti e che "sfuggono al popolo".
È una ideologia vecchia di secoli, ed è anche una
visione tipicamente leninista, molto vicina alla concezione del
leader bolscevico che voleva un'avanguardia di intellettuali rivoluzionari
condotta al vertice dello stato dalla forza del popolo, capace
di guidare le masse verso un futuro che loro, per ignoranza, non
erano in grado di immaginare. La teoria democratica liberale e
il marxismo-leninismo sono molto vicini nei presupposti ideologici.
Penso che questa sia una delle ragioni per cui le persone sono
passate così facilmente da una posizione all'altra senza
avvertire un particolare cambiamento. Si tratta solo di stabilire
dove si trova il potere: se c'è una rivoluzione popolare,
allora il potere sarà dello stato; altrimenti lavoreremo
per chi detiene il potere reale, cioè la comunità
degli affari.
Ma in fondo sarà la stessa cosa: comunque guideremo le
masse inette verso un mondo che loro non sono in grado di capire.
Lippmann
ha supportato questa idea con una elaborata teoria della democrazia
progressista. A suo parere, in una democrazia sana ci sono
cittadini di diverse classi. La prima, che deve avere un ruolo
attivo nella conduzione degli affari generali, è la classe specializzata,
costituita da persone che analizzano, eseguono, prendono decisioni
e gestiscono il sistema politico, economico e ideologico. Naturalmente
si tratta di una minoranza esigua, ma chi sostiene tali teorie
ne fa sempre parte e si pone il problema di che cosa fare per
gli altri, quelli che sono al di fuori del gruppo, cioè
la maggioranza della popolazione, definita da Lippmann "il
gregge smarrito": dobbiamo guardarci "dallo
scalpitio e dai belati del gregge smarrito". Dunque
in una democrazia ci sono due "funzioni": quella dirigenziale,
svolta dalla classe specializzata, dagli uomini responsabili,
che pensano, pianificano e comprendono gli interessi comuni, e
quella svolta dal gregge smarrito, la funzione dello "spettatore",
di colui che non partecipa all'azione. Anzi, poiché viviamo
in una democrazia, le funzioni della maggioranza sono molteplici:
di tanto in tanto le è concesso di dare il suo appoggio
a uno o all'altro dei membri della classe specializzata, di dire:
"Vogliamo che sia questo il nostro capo", oppure "Vogliamo
che sia quello". Dal momento che il nostro
non è uno stato totalitario, ci sono le elezioni. Ma, una
volta che ha dato appoggio all'uno o all'altro membro della classe
specializzata, la maggioranza deve farsi da parte e diventare
spettatore dell'azione, rinunciando alla partecipazione. Questo
è ciò che accade in una democrazia che funziona
a dovere.
Dietro
a tutto ciò vi è una logica, addirittura un assunto
morale imprescindibile, ed è il seguente: il
popolo è
troppo stupido per capire; se cerca di partecipare alla gestione
dei propri interessi, combinerà senz'altro guai; di conseguenza
sarebbe immorale e ingiusto consentirgli di farlo. Dobbiamo ammansire
il gregge smarrito, impedirgli di aggirarsi scalpitante e selvaggio,
e di distruggere tutto. È la stessa logica che vieta di
lasciare che un bambino di tre anni attraversi da solo la strada:
non gli si concede questo tipo di libertà perché
non è capace di usarla.
Quindi
dobbiamo trovare un sistema per ammansire il gregge, e questo
sistema rappresenta una rivoluzione nell'arte della democrazia:
la costruzione del consenso. I media, la scuola e la cultura popolare
devono essere tenuti separati: alla classe politica e a chi gestisce
il potere devono garantire un certo senso della realtà
(non eccessivo), ma anche trasmettere le giuste convinzioni. A
questo proposito esiste un tacito presupposto (e anche gli uomini
responsabili devono scoprirlo da soli) sul modo di raggiungere
la posizione che conferisce l'autorità decisionale: il
solo modo, naturalmente, è servire chi detiene il potere
reale, un gruppo molto ristretto di persone. Se un membro della
classe specializzata si fa avanti e dichiara: "Sono in
grado di servire i vostri interessi" entra per certo
a far parte del gruppo decisionale. Ma affinché questo
sia possibile deve avere interiorizzato le dottrine e le ideologie
che serviranno gli interessi del potere privato. Se quest'uomo
non ha tale capacità, non entrerà a fare parte della
classe specializzata. Dunque c'è un sistema scolastico
destinato agli "uomini responsabili", che dovranno
essere profondamente indottrinati sui valori e sugli interessi
del potere privato e del legame tra stato e affari che lo sostiene.
Così si diventa membri della classe specializzata. Il resto
della popolazione dev'essere principalmente distratto. Bisogna
sviarne l'attenzione, distoglierlo dai guai, assicurarsi che rimanga
il più possibile spettatore dell'azione, permettendogli
di tanto in tanto di appoggiare l'uno o l'altro dei veri leader
tra cui gli è consentito scegliere.
Questa
teoria è stata ripresa e sviluppata da molti altri, ed
è in realtà piuttosto convenzionale. Reinhold Niebuhr,
per esempio, autorevole teologo ed esperto di politica estera,
chiamato anche "il teologo dell'establishment",
guru di George Kennan e degli intellettuali kennedyani, ha avanzato
l'ipotesi che la razionalità sia una qualità
posseduta da pochi. La maggior parte delle persone è
guidata soltanto dall'emozione e dall'impulso. Chi di noi è
dotato di razionalità deve creare "illusioni necessarie"
e "ipersemplificazioni" di forte impatto emotivo per
tenere sotto controllo gli ingenui e gli sciocchi. Questa idea
è diventata parte sostanziale della dottrina politica contemporanea.
Negli anni venti e nei primi anni trenta Harold Lasswell,
fondatore del moderno campo delle comunicazioni e uno dei più
importanti teorici politici statunitensi, spiegava che non dobbiamo
soccombere al "dogmatismo democratico secondo cui gli
uomini sono i migliori giudici dei propri interessi",
perché è infondato. Noi siamo i migliori giudici
degli interessi pubblici. Quindi, per questione di ordinaria moralità,
dobbiamo assicurarci che questi uomini privi di giudizio non abbiano
l'opportunità di agire. In quelli che oggi sono chiamati
stati totalitari o regimi militari, è facile: basta impugnare
il manganello e colpire chi esce dai ranghi. Ma quando la società
è più libera e democratica occorre rinunciare a
questa opportunità e adottare le tecniche della propaganda.
La logica è chiara: la propaganda è per
la democrazia quello che il randello è per lo stato totalitario.
È una cosa buona e giusta perché, come sappiamo,
gli interessi comuni sfuggono al gregge smarrito, che non riesce
nemmeno a immaginarli.
Le
pubbliche relazioni
Gli Stati Uniti sono stati i pionieri dell'industria delle
pubbliche relazioni, il cui scopo, come sostenevano
i capi, era "controllare la mente del popolo".
Impararono moltissimo dalla Commissione Creel, dalla creazione
del "terrore rosso" e da quel che ne seguì.
L'industria delle pubbliche relazioni negli anni venti conobbe
un'enorme espansione e per qualche tempo riuscì a indurre
nel popolo una sottomissione pressoché totale al dominio
degli affari. Fu un fatto talmente clamoroso che i comitati del
Congresso cominciarono a studiarlo nel decennio successivo; da
questi studi proviene la maggior parte delle informazioni in
nostro possesso.
Quella
delle pubbliche relazioni è un'industria immensa, che attualmente
può contare su un budget dell'ordine di un miliardo di
dollari all'anno. Il suo scopo è sempre stato quello di
controllare l'opinione pubblica. Negli anni trenta si dovettero
affrontare di nuovo problemi gravi, analoghi a quelli del periodo
della Prima guerra mondiale. Era l'epoca della grande depressione
e i lavoratori stavano conducendo una dura lotta in difesa dei
loro diritti.
Nel 1935, con la Legge Wagner, ottennero la prima
importante vittoria sul piano legislativo: il diritto
di organizzarsi. Questo poneva seri problemi. Innanzitutto,
la democrazia era in pericolo: al gregge era stato riconosciuto
un diritto, e questo non era previsto; il popolo che doveva restare
diviso, segregato, isolato, in breve tempo avrebbe potuto organizzarsi
e diventare qualcosa di diverso da un semplice spettatore. Se
molte persone dotate di risorse limitate riescono a unirsi e a
entrare nell'arena politica, il popolo può assumere un
ruolo attivo nella società, e questa è una minaccia
terribile. Il mondo degli affari reagì energicamente per
far sì che quella fosse l'ultima vittoria dei lavoratori,
l'inizio della fine della deviazione democratica rappresentata
dall'organizzazione popolare. E così fu. Da allora in poi
(benché il numero degli iscritti ai sindacati per un breve
periodo durante la Seconda guerra mondiale sia cresciuto), la
capacità di azione attraverso i sindacati cominciò
a diminuire costantemente a opera della comunità degli
affari, che ancora oggi investe cifre enormi e mette a punto attente
strategie per risolvere quel genere di problemi attraverso l'industria
delle pubbliche relazioni e altre organizzazioni, come la National
Association of Manufacturers (Associazione nazionale degli industriali)
e la Business Roundtable, che all'epoca si misero immediatamente
al lavoro per cercare il modo di contrastare le deviazioni democratiche.
La
prima prova si ebbe nel 1937. I lavoratori delle acciaierie di
Johnstown, nella Pennsylvania occidentale, avevano
dato inizio a un importante sciopero. Il mondo degli affari sperimentò
una nuova tecnica di distruzione dell'organizzazione operaia,
che diede ottimi risultati: abbandonate le squadre di crumiri
e di picchiatori, che comunque non sortivano grandi effetti, passò
alle armi più sottili ed efficaci della propaganda. Bisognava
indurre il popolo a schierarsi contro gli scioperanti, presentando
la loro lotta come un'attività distruttiva, dannosa per
la società e nociva all'interesse comune, che riguarda
"tutti noi", uomini d'affari, lavoratori, casalinghe;
"noi vogliamo sentirci uniti, crediamo nell'armonia e
nello spirito american", mentre all'infuori di "noi"
ci sono gli scioperanti, che causano distruzione e provocano incidenti,
infrangono l'armonia sociale e violano lo spirito americano. Per
questi motivi devono essere fermati. Il dirigente d'azienda e
il ragazzo che lava i pavimenti hanno gli stessi interessi: il
messaggio, essenzialmente, era questo. Per far sì che il
popolo, inconsciamente, lo interiorizzasse, la comunità
degli affari che controllava i media e disponeva di ingenti risorse
compì uno sforzo enorme. E il metodo si dimostrò
molto efficace; in seguito fu chiamato "formula della
valle di Mohawk" e venne applicato di frequente, diventando
uno dei "metodi scientifici per far fallire gli scioperi",
attraverso i quali si mobilita l'opinione pubblica in nome di
principi insulsi e vuoti come lo spirito americano (chi può
contestarlo?), l'armonia (chi può essere contrario?) oppure,
come nel caso della guerra del Golfo, l'appoggio alle truppe (chi
può rifiutarlo?).
Ma
cosa significa, per esempio, la domanda: "Lei appoggia
la popolazione dell'Iowa?". Si può rispondere:
"Sì, l'appoggio" oppure: "No,
non l'appoggio", ma il punto essenziale è che
la domanda non ha alcun senso. Lo stesso vale per gli slogan della
propaganda, del tipo "Appoggia le nostre truppe":
non significano nulla. E come affermare di appoggiare la popolazione
dell'Iowa. In realtà questa domanda ne sottende un'altra,
che si può formulare così: "Lei appoggia
la nostra politica?". Dunque la vera domanda è
indiretta e questa è l'essenza della propaganda efficace:
creare uno slogan su cui nessuno dissenta per avere il consenso
di tutti. Nessuno può capire che cosa significa, perché
non significa nulla; il suo valore essenziale consiste nel distogliere
l'attenzione da questioni che, al contrario, sono di fondamentale
importanza: "Lei appoggia la nostra politica?".
Ma di questo non è permesso parlare, mentre si esprime
il proprio inevitabile appoggio ai soldati; e lo stesso vale per
lo spirito americano e l'armonia. Restiamo uniti, assicuriamoci
di non avere attorno gente cattiva che distrugge la nostra armonia
con discorsi sulla lotta di classe, sui diritti dei lavoratori
e via dicendo.
Il
metodo è talmente efficace che funziona ancora oggi, perfezionato
grazie a raffinati accorgimenti. Quelli che lavorano
nell'industria delle pubbliche relazioni hanno uno scopo preciso:
cercano di inculcare al popolo i valori giusti e hanno una loro
idea di come dev'essere la democrazia: un sistema in cui la classe
specializzata è addestrata per lavorare al servizio dei
padroni della società. Il resto della popolazione dovrebbe
essere privato di qualsiasi forma di organizzazione, che è
esclusivamente fonte di guai. Ciascuno deve restare da solo davanti
alla televisione e assorbire il messaggio secondo cui l'unico
valore che conta è possedere più beni e vivere come
le ricche famiglie borghesi che appaiono sullo schermo, credendo
nell'armonia e nello spirito americano. Per la popolazione, l'unica
realtà consentita è quella mostrata dai media; desiderare
o credere che esista qualcosa di diverso è una follia.
E poiché non è permessa alcuna forma di organizzazione
(e questo è fondamentale) non c'è modo di confrontare
le proprie idee con quelle degli altri.
Dietro a tutto questo c'è l'idea di democrazia cui ho accennato,
la quale impone che il gregge smarrito guardi il campionato di
calcio, le sitcom o i film violenti. Ogni tanto è opportuno
fargli recitare qualche slogan (come "Appoggia le nostre
truppe") o spaventarlo, evocando davanti ai suoi occhi
un diavolo che minacci di distruggerlo; altrimenti potrebbe cominciare
a pensare, e pensare non è di sua competenza.
Questa
è una concezione di democrazia. Ritornando alla comunità
degli affari, l'ultima vittoria sul piano dei diritti dei lavoratori
è stata la Legge Wagner del 1935. Dopo c'è stata
la guerra, i sindacati sono entrati in crisi e altrettanto è
accaduto alla ricca cultura operaia associata a essi, che è
stata completamente distrutta. Siamo diventati una società
governata dal mondo degli affari, a un livello assoluto: quella
americana è l'unica società industriale con capitalismo
di stato che non ha neppure un contratto sociale ordinario, come
avviene in altre società dello stesso tipo. All'infuori
del Sudafrica, credo, questo è l'unico paese industriale
a non avere un servizio sanitario nazionale. Non è garantito
nemmeno un livello minimo di sopravvivenza per quelle parti della
popolazione che non sono in grado di adattarsi al modello e guadagnarsi
da vivere individualmente. I sindacati sono praticamente inesistenti,
né ci sono altre forme di organizzazione popolare. Non
esistono partiti politici. I media sono monopolio dell'industria
e sostengono tutti la stessa ideologia. I due partiti esistenti
sono due fazioni del partito degli affari. La maggior
parte della popolazione non si preoccupa neppure di andare a votare,
perché lo considera ormai un gesto privo di senso. I cittadini
sono tenuti al margine e opportunamente distratti. La figura leader
nell'industria delle pubbliche relazioni, Edward Bernays, proviene
infatti dalla Commissione Creel; ne ha fatto parte, ne ha appreso
la lezione e l'ha utilizzata fino a teorizzare "l'ingegneria
del consenso", che descrive come "l'essenza
della democrazia". Le persone che sanno fabbricare il
consenso sono quelle che possiedono le risorse e il potere per
farlo (la comunità degli affari); ed è per loro
che lavorate.
Fabbricare
l'opinione
È
inoltre necessario esortare la popolazione a sostenere le avventurose
iniziative della politica estera. Di solito la popolazione è
pacifista, proprio come lo è stata durante la Prima guerra
mondiale, perché non vede ragioni per lasciarsi coinvolgere
in massacri e torture. Quindi bisogna spronarla, e per spronarla
occorre spaventarla. Lo stesso Bernays ha ottenuto un risultato
importante in questo campo: è lui che ha condotto la campagna
di pubbliche relazioni per la United Fruit Company nel 1954, quando gli Stati Uniti decisero di rovesciare il governo
capitalista democratico del Guatemala, sostituendolo con un gruppo
di assassini provenienti dalle fila degli squadroni della morte,
ancora oggi al potere grazie ai costanti aiuti statunitensi finalizzati
a prevenire svolte democratiche che non siano solo formali. Si
rende necessario imporre di continuo programmi di politica interna
cui il popolo è contrario, perché non ha ragione
di appoggiare programmi che vanno contro ai propri interessi.
E anche questo richiede una propaganda massiccia. Negli ultimi
decenni ne abbiamo visti molti esempi. Le politiche di Reagan,
per esempio, erano estremamente impopolari. Due terzi degli elettori
che lo avevano insediato alla Casa Bianca nel 1984 speravano che
il suo programma non si sarebbe realizzato. Se ne esaminate i
punti, uno a uno, come quello relativo agli armamenti o al taglio
della spesa sociale, capirete che la popolazione era fortemente
contraria alla politica reaganiana. Ma finché viene costretta
al ruolo di semplice spettatore, non ha modo di organizzarsi o
di esprimere ciò che pensa, né di venire in contatto
con altri che condividano la sua stessa opinione. La persona che
nei sondaggi afferma di preferire la spesa sociale alla spesa
militare (come ha fatto una larghissima maggioranza) si convince
di avere convinzioni folli, perché non ha mai sentito affermare
niente di simile e crede che nessuno la pensi così. Chi
dà questo tipo di risposte nei sondaggi si pone in qualche
modo al margine, e poiché non ha occasione di incontrare
altre persone che condividano o rafforzino il suo punto di vista
e lo aiutino ad articolarlo, si sente diverso, escluso. Così
si fa da parte e non presta attenzione a quanto accade.
Fino
a un certo punto, quindi, l'ideale di democrazia è stato
realizzato, anche se non completamente. Ci sono istituzioni, infatti,
che fino a oggi è stato impossibile distruggere. Le Chiese,
per esempio, esistono ancora. Buona parte dell'attività
dissidente negli Stati Uniti proviene dalle chiese, per la semplice
ragione che esistono. Nei paesi europei la partecipazione politica
avviene con ogni probabilità nelle sedi sindacali. Negli
Stati Uniti questo non può accadere, perché i sindacati
sono rarissimi, e quelli che ci sono non rappresentano organizzazioni
politiche. Ma le Chiese ci sono e spesso i discorsi politici vengono
fatti in quelle sedi. Le attività dei gruppi di solidarietà
con il Centroamerica sono nate principalmente nelle Chiese.
Il
gregge smarrito non è mai abbastanza domato e quindi la
battaglia è continua. Negli anni trenta ha levato la testa
ed è stato tenuto a bada. Negli anni sessanta ci fu una
nuova ondata di dissenso, etichettata dalla classe specializzata
"crisi della democrazia". La crisi consisteva
nel fatto che ampi settori della popolazione si stavano organizzando
e cercavano di partecipare concretamente all'attività politica.
Qui si ritorna alle due concezioni di democrazia. Secondo la definizione
del dizionario, si trattava di un progresso; secondo la concezione
predominante, invece, era un problema, una crisi che occorreva
superare. La popolazione doveva essere ricondotta all'apatia,
all'obbedienza e alla passività che costituiscono la sua
giusta condizione. Bisognava fare qualcosa per superare la crisi,
ma gli sforzi fatti non ebbero successo. La crisi della democrazia
è ancora in atto, per fortuna, ma non si è dimostrata
molto efficace nel cambiare la politica. Riesce tuttavia a cambiare
le opinioni, contrariamente a quanto credono molti. Dopo gli anni
sessanta sono stati fatti grandi sforzi per rovesciare e sconfiggere
questa "malattia", che in certe manifestazioni ha ricevuto
addirittura un nome: "sindrome del Vietnam",
per esempio. La sindrome del Vietnam, definizione che ha cominciato
a circolare intorno al 1970, è stata anche descritta: l'intellettuale
reaganiano Norman Podhoretz l'ha definita "la malsana
inibizione suscitata dall'uso della forza militare".
Una larga parte della popolazione ne è stata affetta, non
riuscendo a capire perché si dovessero torturare, ammazzare
e bombardare popolazioni di altri paesi. È molto pericoloso
contrarre quella malsana inibizione, come aveva ben capito Goebbels,
perché può ostacolare la conquista del mondo. È
necessario, come ha affermato il Washington Post con
un certo orgoglio durante l'isteria collettiva della guerra del
Golfo, inculcare nel popolo il rispetto per il
"valore militare". Certo, è una cosa
importante: se il disegno politico è la costruzione di
una società violenta che usa la forza nel resto del mondo
per raggiungere gli scopi voluti dall'élite che la governa,
è necessario dimostrare apprezzamento per il "valore
militare", e non lasciarsi fuorviare da sciocche inibizioni
sull'uso della violenza. È necessario superare
la sindrome del Vietnam.
La rappresentazione come realtà
È necessario inoltre falsare radicalmente la storia.
È un'altra strategia per sconfiggere le assurde inibizioni:
far apparire le cose in modo tale che, quando gli Stati Uniti
attaccano e distruggono un paese, sia chiaro che lo stanno proteggendo
da mostruosi aggressori.
Fin
dalla guerra del Vietnam lo sforzo per ricostruire la storia è
stato enorme. Troppa gente allora cominciava a capire com'erano
andate veramente le cose, tra cui moltissimi soldati e giovani
impegnati nel movimento pacifista e in organizzazioni analoghe.
Una pessima cosa: era necessario risanare quei pensieri malati,
trasformarli in consenso e indurre il popolo al riconoscimento
che tutto quel che facciamo noi americani è nobile e giusto.
Se bombardiamo il Vietnam del Sud è perché lo stiamo
difendendo da qualcuno, evidentemente dai sudvietnamiti, visto
che lì ci sono solo loro. È quella che gli intellettuali
kennedyani, tra cui Adlai Stevenson, chiamarono difesa contro
"l'aggressione interna": era necessaria una
definizione ufficiale che fosse comprensibile, e questa funzionò
perfettamente. Quando i media sono sotto controllo, il
sistema scolastico e il mondo della cultura sono allineati, il
consenso è assicurato.
L'università
del Massachusetts ha condotto uno studio interessante sugli atteggiamenti
nei riguardi della crisi del Golfo, allora in corso: l'intento
era di conoscere la disposizione mentale con cui le persone
guardavano la televisione. Una delle domande era: "Quante
vittime vietnamite ci sono state secondo voi durante la
guerra del Vietnam?".
La risposta media del cittadino statunitense è stata:
circa centomila. La stima ufficiale è di quasi due milioni,
mentre la cifra reale si aggira probabilmente attorno ai tre
o quattro milioni. Gli autori della ricerca proposero poi un'altra
domanda:
"Cosa pensereste della cultura politica tedesca se,
domandando ai tedeschi di oggi quanti ebrei siano morti nell'Olocausto,
rispondessero: circa trecentomila? Cosa ci rivelerebbe questa
risposta sulla cultura politica tedesca?" La domanda è rimasta
in sospeso, ma noi possiamo riprenderla. Cosa ci dice della
cultura di noi americani? Che è necessario vincere le
malsane inibizioni sull'uso della forza militare e le altre
idee che esprimono dissenso. Nel caso della guerra del Golfo
ha funzionato, e lo stesso si può dire per qualsiasi
altra questione (il Medio Oriente, il terrorismo internazionale,
l'America Centrale): l'immagine del mondo che viene presentata
al popolo ha solo una remotissima relazione con la realtà. La
verità resta
sepolta sotto un enorme castello di bugie. Per scongiurare
la minaccia della democrazia, in condizioni di libertà,
si è dimostrata una strategia molto efficace; a differenza
di quanto avviene negli stati totalitari, in cui si ricorre
alla forza, questi risultati sono ottenuti in condizioni di
libertà.
Se vogliamo capire la società in cui viviamo, dobbiamo
riflettere su questi fatti.
La cultura del dissenso
Malgrado tutto, la cultura del dissenso è sopravvissuta ed è cresciuta parecchio dagli anni sessanta, quando cominciò,
molto lentamente, a svilupparsi. Non ci fu alcuna protesta contro
la guerra d'Indocina se non anni dopo, con l'inizio dei bombardamenti
americani sul Vietnam del Sud, e anche allora il dissenso fu
circoscritto a un movimento costituito per la maggior parte
di studenti e di giovani. Negli anni settanta le cose erano
decisamente cambiate. Si erano formati movimenti popolari importanti:
quello ambientalista, quello femminista, quello contro il nucleare
e altri ancora. Negli anni ottanta c'è stata un'ulteriore
espansione con i movimenti di solidarietà, un fenomeno
nuovo e importante nella storia del dissenso, almeno in quella
degli Stati Uniti. Queste organizzazioni non limitavano la loro
attività alla protesta, ma miravano
a un vero e proprio coinvolgimento, spesso intimo, della popolazione
nella sofferenza di persone lontane; queste esperienze hanno
insegnato molto agli americani e hanno avuto un effetto civilizzante
su tutta la società: coloro che sono stati coinvolti
in questo genere di attività per molti anni devono esserne
consapevoli. Io stesso mi rendo conto che le mie conferenze
nelle regioni più
reazionarie del paese (la Georgia centrale, il Kentucky rurale,
eccetera) sono pari a quelle che avrei potuto tenere nel momento
culminante del movimento per la pace davanti a un pubblico di
attivisti. Certo, la gente può anche non essere d'accordo,
ma almeno capisce di cosa si sta parlando ed è possibile
trovare un punto di contatto.
Sono
tutti segni di un processo di civilizzazione, a dispetto della
propaganda, delle strategie messe in atto per controllare il pensiero
e manipolare il consenso. La gente inoltre sta acquistando la
capacità e la volontà di capire a fondo gli avvenimenti.
Lo scetticismo nei confronti del potere è cresciuto e l'atteggiamento
è mutato rispetto a molte questioni. È un cambiamento
lento, come la deriva dei continenti, ma incisivo e importante.
Se sia abbastanza veloce da produrre una differenza significativa
in quel che accade nel mondo è un'altra faccenda. Consideriamo,
per esempio, la differenza tra i sessi. Negli anni sessanta l'atteggiamento
di uomini e donne rispetto ad argomenti quali le "virtù
militari" e l'impiego dell'esercito era praticamente
identico. Nessuno, uomo o donna, manifestava remore di questo
tipo nei primi anni sessanta: tutti pensavano che l'uso della
violenza contro altri popoli fosse legittimo. Ma con il passare
degli anni le cose sono cambiate, e l'inibizione si è diffusa
un po' dappertutto; in questo processo si è manifestato
uno stacco, diventato poi una differenza sostanziale; secondo
i sondaggi, riguarda circa il 25 percento della popolazione. Che
cosa è accaduto? È accaduto che si è
formato un movimento popolare parzialmente organizzato di cui
sono protagoniste le donne, il movimento femminista.
Non si tratta di una vera e propria organizzazione di militanti,
ma di un movimento informale che fa leva su uno stato d'animo
comune il quale crea un'interazione fra le persone. E questo è
particolarmente pericoloso per una democrazia come quella americana:
se riescono a costituirsi delle organizzazioni, se la gente non
si lascia più distrarre dalla televisione, comincia a cullare
strane idee e a sviluppare malsane inibizioni contro l'uso della
forza militare. Un pericolo che non è ancora stato scongiurato.
Una
schiera di nemici
Anziché parlare dell'ultima guerra, vorrei parlare della
prossima, perché è meglio essere preparati al futuro
che ci attende. Oggi negli Stati Uniti è in atto un processo
molto particolare, che per la verità si è già
osservato in altri paesi: i problemi sociali ed economici si stanno
aggravando con effetti potenzialmente catastrofici; coloro che
detengono il potere non hanno alcuna intenzione di intervenire.
Se si esaminano i programmi di politica interna dei governi dell'ultima
quindicina d'anni (compresi quelli in cui il partito democratico
era all'opposizione) non si trovano proposte concrete di intervento
sui gravi problemi del sistema sanitario e scolastico, delle abitazioni,
della disoccupazione, della criminalità, del vertiginoso
aumento della delinquenza e della popolazione carceraria, del
deterioramento dei centri urbani.
Nei
primi due anni in cui George Bush è stato alla
presidenza, tre milioni di bambini hanno oltrepassato la soglia
della povertà, il debito è cresciuto sensibilmente,
il sistema scolastico si è trovato sempre più in
crisi, i salari reali sono rimasti pari a quelli della fine degli
anni cinquanta per la maggior parte della popolazione e nessuno
ha fatto niente. In tali circostanze bisogna distrarre il gregge
smarrito perché, se si rende conto della situazione, potrebbe
non accettare di subirne le conseguenze. Il campionato di calcio
e le sitcom potrebbero non bastare più. Bisogna incitarlo
ad avere paura dei nemici.
Negli
anni trenta Hitler spinse i tedeschi ad avere paura degli ebrei
e degli zingari: per difendersi bisognava sterminarli. Anche noi
americani abbiamo i nostri metodi: nell'ultimo decennio, ogni
uno o due anni, è stato inventato un grande mostro da cui
era necessario difendersi. Eravamo abituati ad averne uno sempre
a disposizione: l'Unione Sovietica. Ma poi come nemici i russi
hanno perso la loro attrattiva, e siccome diventava difficile
usarli a quello scopo, occorreva tirare fuori dal cappello qualche
nemico nuovo. In realtà, George Bush è stato ingiustamente
criticato per non aver saputo spiegare chiaramente come stavano
le cose. Prima della metà degli anni ottanta, la minaccia
era sempre la stessa: i russi. Poi quella minaccia non ha più
avuto senso e Bush ha dovuto trovarne di nuove, come aveva fatto
l'apparato di pubbliche relazioni di Reagan in precedenza. Alla
conquista del mondo ci furono allora i terroristi internazionali,
i narcotrafficanti, gli arabi impazziti e Saddam Hussein, il nuovo
Hitler, uno dopo l'altro. Spaventate la popolazione, terrorizzatela,
fatela sentire minacciata in modo che se ne stia chiusa in casa
e non osi spostarsi. Poi ottenete una gloriosa vittoria su Grenada,
Panamà o qualche altro esercito indifeso del Terzo mondo
che riuscirete a polverizzare prima ancora di averlo visto schierato:
proprio come è avvenuto. Allora ci sarà un sospiro
di sollievo: siamo stati salvati all'ultimo minuto. Questo è
uno dei modi in cui potete impedire al gregge smarrito di prestare
attenzione a quanto sta realmente accadendo, distrarlo e controllarlo.
Il prossimo mostro a entrare in scena sarà, molto probabilmente, Cuba: bisognerà continuare la guerra economica
illegittima e probabilmente recuperare il terrorismo internazionale,
riportandolo ai livelli dell'operazione Mongoose, organizzata
dall'amministrazione Kennedy ai danni dell'isola, rimasta ineguagliata,
salvo forse per la guerra contro il Nicaragua (per chi vuole considerarla
terrorismo; la Corte mondiale in realtà l'ha trovata più
simile a un'aggressione). C'è sempre un'offensiva
ideologica che costruisce un mostro, e poi organizza una campagna
militare al fine di annientarlo. Se il nemico è
in grado di difendersi, questa strategia diventa troppo pericolosa;
ma se c'è la certezza di poterlo sconfiggere, allora si
parte all'attacco e tutti potranno tirare un sospiro di sollievo
per lo scongiurato pericolo.
Una percezione selettiva
È una storia che sta andando avanti da un bel po'. Nel
maggio del 1986 furono pubblicate le memorie di un ex prigioniero
cubano, Armando Valladares, che divennero subito un evento sensazionale
per i media. Riporto un paio di citazioni. I giornali definirono
le sue rivelazioni come "il resoconto definitivo del
vasto sistema di torture e prigionia con il quale Castro punisce
e cancella l'opposizione politica". "Una indimenticabile,
appassionante testimonianza" delle "prigioni bestiali
delle torture disumane [e] delle violenze di stato [compiute
da] uno dei tanti genocidi di questo secolo" che, come
abbiamo finalmente appreso da questo libro, "ha creato
un nuovo dispotismo che ha istituzionalizzato la tortura come
meccanismo di controllo sociale" in quell'inferno che era
la Cuba in cui viveva [Valladares]". Così hanno
scritto il Washington Post e il New York Times in diverse recensioni. Castro era descritto come un "kapo
dittatoriale". Le sue atrocità erano rivelate
in quel libro in modo così evidente che "soltanto
i più vacui e freddi tra gli intellettuali occidentali
prenderanno le difese del tiranno", scrisse il Washington
Post. Ricordate, questo è il racconto di quanto accadde
a un solo uomo. Supponiamo pure che sia tutto vero; non mettiamo
in dubbio quel che è accaduto all'unico cubano che afferma
di essere stato torturato. Alla cerimonia celebrativa per il giorno
dei diritti umani, tenutasi alla Casa Bianca, Valladares fu ricordato
da Ronald Reagan per il suo coraggio nel resistere agli orrori
e al sadismo di quel sanguinano tiranno cubano. Quindi fu designato
rappresentante degli USA presso la Commissione delle Nazioni Unite
per i diritti umani, dove ha potuto rendere un buon servizio in
difesa dei governi salvadoregno e guatemalteco, accusati di avere
commesso atrocità tanto terribili da far apparire insignificanti,
al confronto, quelle da lui subite. Così va il mondo.
Era
il maggio del 1986. È un caso interessante e mette in luce
il meccanismo della fabbrica del consenso. Quello stesso mese,
i membri sopravvissuti del Gruppo per i diritti umani del Salvador
(i leader erano stati assassinati) furono arrestati e torturati,
incluso Herbert Anaya, che ne era il capo. Furono rinchiusi nella
prigione di La Esperanza, e da lì continuarono la loro
attività in difesa dei diritti umani. Erano avvocati, e
riuscirono a raccogliere dichiarazioni giurate. In quella prigione
c'erano quattrocentotrentadue prigionieri, e loro ne raccolsero
quattrocentotrenta, firmate, nelle quali i detenuti descrivevano,
sotto giuramento, le sevizie cui erano stati sottoposti: tortura
elettrica e altre atrocità, compresa, in un caso, la tortura
praticata da un maggiore statunitense in uniforme, che viene descritto
dettagliatamente. Si tratta di una testimonianza insolitamente
esplicita ed esauriente, forse unica per la ricchezza di dettagli
su quanto avviene in una camera di tortura.
Questo
rapporto di centosessanta pagine fu fatto uscire dalla prigione,
assieme a una videocassetta con le testimonianze registrate che
fu distribuita dalla Marin County Interfaith Task Force. La stampa
nazionale si rifiutò di scriverne. Le stazioni televisive
rifiutarono di trasmettere il video. Ci fu un articolo sul giornale
locale di Marin County, il San Francisco Examiner, e
credo che sia stato l'unico. Nessun altro volle farsi coinvolgere.
In quel periodo c'era più di un "intellettuale
occidentale vacuo e dal cuore freddo" a cantare le lodi
di José Napoleòn Duarte e di Ronald Reagan. Ad Anaya
non fu tributato alcun onore, non fu invitato nel giorno dei diritti
umani, non gli fu attribuita alcuna carica. Fu rilasciato in occasione
di uno scambio di prigionieri e in seguito assassinato, a quanto
pare dai militari spalleggiati dagli Stati Uniti. Anche di questo
è stata data scarsa notizia. I media non si chiesero mai
se la divulgazione delle atrocità (anziché la censura
e il silenzio) avrebbe potuto salvargli la vita.
Questo
esempio lascia ben intendere come opera un sistema di fabbricazione
del consenso efficiente. Paragonate alle rivelazioni di Herbert
Anaya sul Salvador, le memorie di Valladares sono ben poca cosa.
Ma loro devono condurci un passo alla volta verso la prossima
guerra, e sono convinto che si parlerà sempre più
di questo caso, finché si arriverà a un conflitto.
A
tale proposito, vorrei ritornare allo studio dell'università
del Massachusetts già citato, che trae interessanti conclusioni.
I ricercatori chiedevano agli intervistati se pensavano che gli
Stati Uniti dovessero intervenire con la forza in caso di occupazioni
illegittime o di gravi abusi dei diritti umani. All'incirca due
su tre pensavano di sì: l'America doveva usare la forza
nel caso di occupazione illegittima di territori o di abusi gravi
dei diritti umani. Se dovessero seguire quel parere, gli
Stati Uniti dovrebbero bombardare El Salvador, Guatemala, Indonesia,
Damasco, Tel Aviv, Città del Capo, Turchia, Washington
e un lungo elenco di altri stati, tutti colpevoli di occupazione
illegittima, aggressione e gravi abusi. Se conoscete
questi casi, saprete benissimo che l'aggressione e le atrocità
commesse da Saddam Hussein rientrano ampiamente nella media, non
sono di certo le più gravi. Ma perché nessuno arriva
a questa conclusione? La ragione è che nessuno
conosce la realtà dei fatti. In un sistema di
propaganda efficiente nessuno sa a che cosa mi riferisco quando
cito questi esempi. Ma se qualcuno si preoccuperà di verificarli,
vedrà che sono significativi.
Prendiamone
uno che ha rischiato vergognosamente di venire alla luce durante
la guerra del Golfo. In febbraio, nel pieno dei bombardamenti,
il governo del Libano ha richiesto a Israele di osservare la risoluzione
425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che lo esortava
a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dal suo territorio.
La risoluzione risaliva al marzo del 1978. Da allora ci furono
altre due risoluzioni che chiedevano il ritiro immediato e incondizionato
di Israele dal Libano. Naturalmente non sono state osservate perché
gli Stati Uniti appoggiano l'occupazione israeliana del territorio
libanese. Anche adesso il Sud del Libano vive nel terrore: ci
sono grandi camere di tortura in cui accadono cose atroci, e la
zona viene usata come base per attaccare le altre parti del paese. Dopo il 1978 il Libano fu invaso, la città di Beirut
bombardata, circa ventimila persone, di cui l'80 percento civili,
furono uccise, gli ospedali distrutti; terrore, saccheggi e rapine
devastarono il paese. Ma gli Stati Uniti erano d'accordo, perciò
andava tutto bene. E questo è solo un caso. I media tacquero,
né vi fu alcun dibattito sulla risoluzione 425 del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite o su tutte le altre risoluzioni
ignorate da Israele e dagli Stati Uniti; nessuno ha chiesto il
bombardamento di Tel Aviv, come ci si sarebbe dovuti aspettare
stando ai risultati della ricerca effettuata dall'università
del Massachusetts. Dopotutto si trattava di occupazione illegittima
e di gravi abusi dei diritti umani. E questo è solo un
caso, ce ne sono di molto peggiori. L'invasione indonesiana di Timor Est ha causato quasi duecentomila vittime.
Le altre sembrano poca cosa rispetto a questa, che fu ed è
ancora fortemente appoggiata dagli Stati Uniti grazie all'impegno
diplomatico e militare americano. E potrà continuare per
molto tempo.
La guerra del Golfo
Questo spiega come opera un sistema di propaganda ben
funzionante. La popolazione può credere che quando
aggrediamo militarmente l'Iraq lo facciamo perché osserviamo
il principio secondo cui l'occupazione illegittima e l'abuso
dei diritti umani devono essere contrastati con la forza. Grazie
all'effetto della propaganda non ci si accorge di che cosa accadrebbe
se quei principi venissero applicati al comportamento degli Stati
Uniti.
Consideriamo
ora un altro esempio. Se si osservano attentamente i resoconti
dei media sulla guerra dall'agosto del 1990 ci si accorge che
mancano due voci importanti. In Iraq c'è un'opposizione
democratica, molto coraggiosa e concreta. I suoi membri naturalmente
agiscono in esilio, perché in patria non potrebbero sopravvivere.
Stanno soprattutto in Europa, sono banchieri, ingegneri, architetti.
Sono organizzati e hanno dei rappresentanti. Il febbraio dell'anno
precedente, quando Saddam Hussein era ancora amico prediletto
e partner commerciale di George Bush, si presentarono
a Washington, secondo le fonti dell'opposizione democratica irachena,
per chiedere un appoggio alla loro richiesta di una democrazia
parlamentare in Iraq. Furono respinti brutalmente, perché
gli Stati Uniti non erano interessati al progetto. Nel dibattito
pubblico non vi fu alcuna reazione.
Da
agosto divenne un po' più difficile ignorare la loro esistenza:
allora, dopo averlo sostenuto per molti anni, gli Stati
Uniti si schierarono improvvisamente contro Saddam Hussein.
Gli oppositori democratici iracheni avrebbero avuto qualcosa da
dire, e sarebbero stati felici di vedere Saddam Hussein sconfitto:
aveva ucciso i loro fratelli, torturato le loro sorelle e li aveva
cacciati dal loro paese. Avevano combattuto contro di lui per
tutto il periodo in cui Ronald Reagan e George Bush lo avevano
colmato di gentilezze. Cosa ne è stato delle loro voci?
Date un'occhiata ai media nazionali e vedete quante notizie riuscite
a trovare sull'opposizione democratica in Iraq dall'agosto del
1990 al marzo del 1991: neppure una parola. Non perché
non avessero nulla da dire: avevano dichiarazioni, proposte, appelli
e richieste che coincidono precisamente con quelle del movimento
pacifista statunitense. Erano contro Saddam Hussein e contro la
guerra all'Iraq, non volevano che il loro paese venisse distrutto,
chiedevano una soluzione pacifica e sapevano perfettamente che
era possibile ottenerla. Ma queste erano idee sbagliate e quindi
dovevano essere ignorate. Per saperne qualcosa bisognerebbe consultare
la stampa tedesca o quella inglese. Non dicono molto, ma sono
meno controllate di quella americana.
Anche
questo è un grande risultato della propaganda. Innanzitutto,
perché le voci dei democratici iracheni sono state completamente
ignorate, e poi perché nessuno si è reso conto della
censura. Anche questo è un dato interessante: solo una
popolazione profondamente indottrinata poteva non accorgersi del
silenzio dell'opposizione democratica irachena e non chiedersene
il perché, che è ovvio: perché l'opposizione
democratica in Iraq si trova sulle stesse posizioni del movimento
internazionale per la pace.
Consideriamo
ora le ragioni addotte dagli Stati Uniti per giustificare la guerra:
l'aggressione di Saddam al Kuwait deve essere respinta con l'immediato
ricorso alla violenza. Queste erano le ragioni, e nessun'altra
è stata avanzata. Ma sono credibili? Gli Stati Uniti sostengono
davvero questi principi? Non voglio far torto all'intelligenza
dei lettori spiegando come si sono svolti i fatti, ma quelle ragioni
possono essere confutate in due minuti da un bravo studente di
scuola superiore. E tuttavia, nessuno lo ha mai fatto pubblicamente.
Basta guardare ai media, ai commentatori e ai critici di sinistra,
a coloro che hanno fatto dichiarazioni al Congresso, per constatare
che nessuno ha messo in dubbio l'assunto che gli Stati Uniti sono
fedeli a quei principi. L'America si è forse opposta alla
sua stessa aggressione contro Panama e ha deciso di bombardare
Washington per contrastarla? Quando l'occupazione sudafricana
della Namibia è stata dichiarata illegittima nel 1969,
gli Stati Uniti hanno forse imposto un embargo su alimenti e medicinali?
hanno dichiarato guerra? hanno bombardato Città del Capo?
No, sono andati avanti per vent'anni con "pacifica diplomazia". La storia africana in quei vent'anni è stata drammatica.
Solo nel periodo della presidenza di Reagan e di Bush circa un
milione e mezzo di persone sono state uccise dalle milizie sudafricane
nei paesi circostanti. Ma non importa, quel che
accadde in Sudafrica e in Namibia non ha offeso le nostre anime
sensibili. Abbiamo continuato con "pacifica
diplomazia" e alla fine abbiamo ricompensato generosamente
gli aggressori assicurando loro l'accesso al porto principale
della Namibia e molti vantaggi che tenevano conto dei loro interessi
in materia di sicurezza. Dov'erano i principi a cui siamo fedeli?
È un gioco da ragazzi dimostrare che non è possibile
invocare quei principi come ragioni per entrare in guerra, dato
che non è vero che li difendiamo. Ma nessuno l'ha fatto:
questo è il dato importante. E nessuno si è preso
il disturbo di trarre la seguente conclusione: non è stata
data alcuna ragione valida per l'entrata in guerra. Come ho già
detto, questa è la prerogativa di una cultura totalitaria.
Dovrebbe spaventarci il fatto di vivere in un paese che riesce
a farci accettare una guerra ingiustificata, senza informarci
sulle richieste o sugli interessi del Libano. Dovremmo trovarlo
molto sorprendente.
Poco
prima dell'inizio dei bombardamenti, a metà gennaio,
un importante sondaggio del Washington Post e della
ABC ha rivelato qualcosa di interessante. Alle persone veniva
domandato:
"Sareste favorevoli al ritiro dell'Iraq dal Kuwait in
cambio dell'assicurazione che il Consiglio di sicurezza prenderà
in esame il problema del conflitto arabo-israeliano?".
All'incirca due persone su tre erano favorevoli, come in tutto
il resto del mondo, inclusa l'opposizione democratica irachena.
E così il risultato del sondaggio fu reso pubblico. Presumibilmente
ogni persona che si era pronunciata a favore credeva di essere
la sola al mondo ad avere quell'opinione, dato che nessuno
l'aveva sostenuta sui giornali. Gli ordini di Washington erano
stati chiari, ci si aspettava che fossimo contro la diplomazia,
e tutti marciavano al passo dell'oca eseguendo gli ordini.
Cercando sulla stampa si può trovare una colonna di
Alex Cockburn sul Los
Angeles Times, che giudicava quella diplomatica la strada
migliore. Chi rispondeva affermativamente al questionario pensava:
questo è ciò che penso, ma lo penso solo io. Supponiamo
però che sapessero di non essere i soli, che altri la
pensavano così, per esempio l'opposizione democratica
irachena. Supponiamo che sapessero che la domanda non era
ipotetica, che l'Iraq aveva avanzato davvero quella proposta,
come avevano riferito alti ufficiali statunitensi otto giorni
prima, il 2 gennaio: l'Iraq era disposto a ritirarsi totalmente
dal Kuwait se in cambio il Consiglio di sicurezza avesse preso
in esame il conflitto araboisraeliano e il problema delle
armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti avevano già rifiutato
di negoziare quella richiesta ben prima dell'invasione del
Kuwait. Supponiamo che la gente avesse saputo che quell'offerta
era davvero sul tavolo delle trattative, che era appoggiata
da più parti e che di fatto era l'unica
cosa che ogni persona razionale e interessata alla pace potesse
considerare, come accade nei rari casi in cui vogliamo davvero
respingere un'aggressione. Supponiamo che tutto questo si
sapesse. Si possono avanzare altre ipotesi, ma la mia è che
i due terzi sarebbero probabilmente saliti fino al 98% della
popolazione. Ed ecco i grandi successi della propaganda. Probabilmente
tutte le persone che hanno risposto al sondaggio ignoravano
i fatti che ho menzionato e credevano che nessuno condividesse
la loro opinione. Per questo fu possibile procedere con la
politica di guerra senza incontrare opposizione.
Si
è molto discusso dell'efficacia delle sanzioni, e anche
il capo della CIA è intervenuto sull'argomento, però
non c'è stato alcun dibattito riguardo a un interrogativo
molto più ovvio: le sanzioni si erano già dimostrate
efficaci? La risposta è sì, era evidente che avevano
già avuto effetto, forse dalla fine di agosto, o più
probabilmente dalla fine di dicembre. Era difficile trovare altre
ragioni che spiegassero le offerte di ritirata dell'Iraq, certificate
e in qualche caso riferite da alti funzionari degli Stati Uniti,
che le definivano "serie e negoziabili". Quindi
la vera domanda è: le sanzioni avevano già funzionato?
C'era una via d'uscita? C'era una soluzione pacifica accettabile
per la popolazione, per il resto del mondo e per l'opposizione
democratica irachena? Queste domande non sono state poste ed è
d'importanza cruciale per un sistema di propaganda efficace che
non siano state discusse. Questo ha permesso a Clayton Yeutter,
presidente del Comitato nazionale repubblicano, di affermare che,
se alla presidenza ci fosse stato un democratico, il Kuwait oggi
non sarebbe libero. Ha potuto affermarlo senza che nessun esponente
del partito democratico replicasse che se ci fosse stato uno di
loro alla presidenza il Kuwait sarebbe stato liberato almeno sei
mesi prima, perché avrebbero colto le opportunità
che si erano create, e sarebbe stato liberato senza che decine
di migliaia di persone restassero uccise e senza che si provocasse
una catastrofe ambientale. Nessun democratico ha replicato così,
perché nessun democratico aveva preso quella posizione.
Henry Gonzalez e Barbara Boxer sono stati gli unici a farlo, ma
è stata una posizione così marginale da risultare
inesistente. Così, Clayton Yeutter è stato libero
di fare la sua affermazione.
Quando
i missili Scud hanno colpito Israele, nessuno sulla stampa ha
applaudito. Anche questo è un fatto interessante dal punto
di vista propagandistico. Ci si può chiedere, perché
no? Dopotutto, gli argomenti di Saddam Hussein erano validi tanto
quanto quelli di Bush. Consideriamo per esempio il Libano. Saddam
Hussein afferma di non poter accettare che Israele si impossessi
del territorio libanese, delle alture del Golan siriane e di Gerusalemme
Est, andando contro la decisione unanime del Consiglio di sicurezza.
Non può accettare l'annessione né l'aggressione.
Israele occupa il Libano meridionale dal 1978 in violazione delle
risoluzioni del Consiglio di sicurezza che rifiuta di osservare.
Durante tutto questo periodo ha attaccato il resto del Libano,
ha sganciato bombe in quantità sulla maggior parte del
territorio. Saddam non può sopportarlo. Forse ha letto
il rapporto di Amnesty International sulle atrocità compiute
dagli israeliani nella West Bank. Il suo cuore sanguina, non può
sopportarlo. Le sanzioni non hanno efficacia perché gli
Stati Uniti pongono il loro veto. I negoziati non vanno avanti
perché gli Stati Uniti li bloccano. Cosa rimane se non
la forza? Ha aspettato per anni: tredici nel caso del Libano,
venti in quello della West Bank. È un argomento noto: la
sola novità è che Saddam Hussein poteva veramente
affermare che le sanzioni e i negoziati erano privi di efficacia
perché gli Stati Uniti li bloccavano, mentre George Bush
non avrebbe potuto dirlo, perché le sanzioni a quanto pare
avevano funzionato e c'erano tutti i motivi per credere che i
negoziati avrebbero funzionato: a parte il fatto che lui rifiutava
incondizionatamente di portarli avanti, affermando chiaramente
che non ci sarebbero stati affatto. La stampa ne ha forse dato
notizia? No. È una cosa da niente, ma nessuno l'ha segnalata
nessun commentatore, nessun editorialista. E anche questo è
segno di una cultura totalitaria ben gestita. È
la prova che la fabbrica del consenso funziona bene.
Un
ultimo commento a questo proposito. Potremmo portare molti altri
casi, e potrete trovarne anche da soli. Prendete per esempio l'idea
che Saddam Hussein sia un mostro deciso a conquistare il mondo,
ampiamente diffusa negli Stati Uniti, e non per mancanza di senso
della realtà, dato che è stata inculcata alla gente
di continuo: l'Iraq vuole prendersi tutto, noi dobbiamo fermarlo
subito. Nessuno si chiede come ha fatto a diventare così
potente? Si tratta di un piccolo paese del Terzo mondo, privo
di una base industriale. Per otto anni è stato in guerra
con l'Iran postrivoluzionario, che aveva decimato i suoi ufficiali
e buona parte delle sue forze militari. In quella guerra, l'Iraq
aveva avuto un appoggio notevole dall'Unione Sovietica, dagli
Stati Uniti, dall'Europa, dai principali paesi arabi e dai produttori
arabi di petrolio, ma non era riuscito a sconfiggere l'Iran. E
d'un tratto è pronto per conquistare il mondo. Avete mai
sentito qualcuno sottolineare questa contraddizione? La realtà
è che si tratta di un paese del Terzo mondo con un esercito
di contadini. Adesso si comincia a riconoscere che c'è
stata una certa disinformazione riguardo alle forze armate o alle
armi chimiche di cui disporrebbe. Ma qualcuno lo ha mai fatto
notare? No. È tipico: una situazione analoga si era già
verificata un anno prima con Manuel Noriega. Manuel Noriega è
un delinquente di second'ordine in confronto agli amici di George
Bush, Saddam Hussein o quello di Pechino, o allo stesso George
Bush. Vicino a loro, Manuel Noriega sembra un teppistello. Certo
è cattivo, ma non è un criminale su scala mondiale
del tipo che piace a noi. È stato trasformato in un mostro
gigantesco che stava per distruggerci, alla guida dei narcotrafficanti.
Abbiamo dovuto muoverci in fretta e sconfiggerlo, uccidendo un
paio di centinaia, o forse di migliaia, di persone, riportando
al potere l'oligarchia bianca, che rappresenta forse l'8% della
popolazione, e piazzando ufficiali statunitensi a controllare
ogni livello del sistema politico. Abbiamo dovuto fare tutte queste
cose perché, dopotutto, dovevamo salvarci o saremmo stati
distrutti dal mostro. Un anno dopo si è fatto lo stesso
con Saddam Hussein. Qualcuno lo ha osservato? Qualcuno ha commentato
quanto era avvenuto o perché? Bisognerà fare lunghe
ricerche per scoprirlo.
È
bene osservare che tutto questo non è molto diverso da
quanto fece la Commissione Creel quando trasformò una popolazione
pacifista in un popolo di fanatici che volevano distruggere tutto
ciò che era tedesco per salvarsi dagli unni che strappavano
le braccia ai bambini belgi. Le tecniche sono forse più
sofisticate, grazie soprattutto ai media e ai soldi impiegati,
ma il meccanismo è dei più tradizionali.
Per
tornare alla mia idea di partenza, non si tratta soltanto di disinformazione,
né il problema è limitato a quanto è accaduto
durante la crisi del Golfo. L'interrogativo è di portata
molto più ampia: si tratta di capire se vogliamo vivere
in una società libera oppure in un regime che corrisponde
di fatto a un totalitarismo autoimposto, con il "gregge
smarrito" ridotto ai margini, sviato, terrorizzato,
che urla slogan patriottici, teme inutilmente per la propria vita
e ha timore reverenziale del leader che lo ha salvato dalla distruzione,
mentre le masse colte marciano al passo dell'oca ripetendo gli
slogan che hanno imparato, e la società si corrompe. Finiremo
per diventare uno stato gendarme mercenario, sempre in attesa
che qualcuno ci assoldi per distruggere il mondo. Questi
sono i possibili sviluppi che ci troviamo di fronte. La
risposta è nelle mani di persone voi e come me.
da: Noam Chomsky, Atti di aggressione e di controllo, Marco Tropea Editore, 2003
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