Rossana Rossanda

I silenzi di Togliatti


Sarebbe stato meglio se Togliatti non fosse tornato in Italia nel 1943 e il Partito comunista italiano non fosse esistito?

A questa domanda non dovrebbero sottrarsi coloro - anche molti ex comunisti - che imputano al leader del PCI di aver celato la verità sul conto di Stalin. Per cui la vicenda del PCI sarebbe stata non solo un "grande abbaglio", secondo l'espressione di Rita Di Leo, ma un "grande inganno", secondo la vulgata attuale. Domenica saranno quarant'anni dalla morte di Togliatti a Yalta. Allora ebbe l'omaggio di tutto il paese. Quest'anno non sarà così. Non è così dal 1989, come se la caduta dell'URSS trascinasse con sé non solo quella dei partiti comunisti ma l'idea stessa del comunismo. Anche quello che prese corpo in un partito d'opposizione in Italia. È una ricostruzione ex post storicamente corretta? Non lo credo. Altri argomenti possono essere addotti contro Togliatti in un bilancio severo della sua persona e di quel che fu il PCI. Non questo.


Egli rilanciava nel 1943 il Partito comunista in Italia stabilendo una continuità con l'esile gruppo interno sopravvissuto al fascismo e dando espressione alla leva della resistenza. È inimmaginabile che lo facesse dichiarando una separazione dalla Rivoluzione d'ottobre e dall'URSS. L'URSS era stata fondamentale nella seconda guerra mondiale, aveva retto, sola con la Gran Bretagna, il peso della Werhmacht fino all'apertura del secondo fronte nel giugno 1944 con lo sbarco americano in Normandia, e Stalingrado era stata per tutti una svolta decisiva. Alla fine del conflitto le perdite umane sovietiche si sarebbero contate in almeno 22 milioni di persone, ed era difficile credere che un paese strangolato dal terrore bolscevico avrebbe contrastato così aspramente un'invasione antibolscevica. Nessuno avrebbe capito un partito comunista che venisse al mondo prendendone le distanze.

Nel suo primo discorso in Italia, Togliatti rendeva omaggio all'URSS, ma affermava che il partito italiano avrebbe perseguito un diverso modello. Non andò oltre. Sapeva che cosa si era lasciato alle spalle, e - a mio avviso proprio perché lo sapeva - tentava di dar vita a un partito diverso dagli altri partiti comunisti. Senza andare a una rottura con l'URSS, che avrebbe esposto la nuova aggregazione, prima ancora che prendesse consistenza, all'attacco del PCUS. Costruiva dunque su una reticenza - e forse più che una reticenza, su un suo giudizio del valore storico dell'Ottobre nel quadro mondiale - il partito nuovo che un giorno definì la "giraffa" per la sua inedita natura. Il tentativo era reso possibile dal trovarsi dall'altra parte del mondo deciso a Yalta, la parte d'Europa non occupata dall'URSS.
L'URSS di Stalin avrebbe dovuto sopportare, perché le sarebbe stato utile avere in occidente, oltre al PCF, un altro partito amico e forte.

Avrebbe dovuto proporre un partito socialista? O portare il PCI a questo esito il più rapidamente possibile? Questo pensò e disse Giorgio Amendola immediatamente dopo la sua morte, considerando una disgrazia la rottura fra socialisti e comunisti avvenuta nel congresso del 1921 e proponendo la riunificazione dei due partiti. Subito battuto all'interno del PCI, fra le contraddizioni della sua figura è l'essere divenuto da allora uno dei più duri avversari di chi criticava l'URSS, da lui considerata non un modello per noi ma la grande potenza che nel quadro geopolitico il movimento operaio aveva alle spalle: "Loro hanno gli Stati uniti, noi l'Unione sovietica". E non cedette su questo punto finché visse.

Ma un partito socialista avrebbe raggiunto le dimensioni e svolgere il ruolo del PCI dal 1943 al 1989? Oppure è proprio questo ruolo che va considerato funesto? Nessuno, a dire il vero, lo sosteneva fino a poco tempo fa. Oggi lo sostengono in molti, inclusa la direzione dell'Istituto Gramsci: quel che sarebbe occorso al paese nel 1946 era un interlocutore riformista della Democrazia cristiana.
Togliatti non lo capì e questo errore si sovrappone - se non è addirittura la stessa cosa - al silenzio su Stalin.

Che cosa è stato esattamente quel partito? Un partito staliniano? Un uso corretto di questa definizione implica che fossero in sue mani gli strumenti repressivi di uno stato. Fu partito leninista? Neppure. Non era un partito di quadri, professionisti della rivoluzione, limitato e selettivo; si proponeva come un partito di massa, reclutava la sua base senza troppi preliminari, e infatti ebbe sempre almeno quattro volte gli iscritti del Partito comunista francese. La verticalità dell'apparato e le regole interne ne facevano una organizzazione dichiaratamente centralizzata, ma dirigere una massa di alcuni milioni di persone implica starne in ascolto, registrando, elaborando e orientando. E trarne alcuni obblighi, fra i quali concedere poco a sanzioni ed espulsioni di natura politica (lo dice una che ne è stata oggetto, le si può credere). Fu sicuramente il partito comunista meno settario. Ed è stata la sua capacità non solo di ridare un senso di sé agli sfruttati, ma di interrogare il bisogno di rinnovamento e modernità di una cultura rimasta conservatrice e chiesastica, che è alla base di quella egemonia che molti amaramente lamentano.

Detto questo, non avrebbe potuto e dovuto questo partito, una volta consolidato, affrontare la questione dell'URSS? Essa era stata rivelata con dovizia di particolari nel XX Congresso del PCUS dal Rapporto segreto, che era stato fatto arrivare in occidente. Era la testimonianza della direzione del partito sovietico, non lo sfogo di un dissidente, che peraltro si era sentito più di una volta. Il fracasso fu enorme.
Togliatti disse: non sapevamo. Mentiva. Mentiva per sé, non fosse che per essere stato nell'esecutivo dell'Internazionale e molto sapeva. Mentiva per gli altri, perché se la base del partito o gli intellettuali ringhiarono, non ringhiò nessuno della segreteria: con il suo "non sapevamo" offriva a tutti una assoluzione. Perché allora sapevano o avrebbero potuto sapere e anche da prima - se sapeva una pedina come me, sapevano anche i dirigenti. Non avevano voluto dire, forse neanche a se stessi, nella speranza che quella URSS lontana potesse essere evacuata dalla nostra esperienza e storia in Italia.

Nel medesimo tempo, nessuno dei ringhiosi fu cacciato - la segreteria fece dire che si trattava di un comprensibile problema di coscienza e non si dovevano prendere "misure amministrative". Nessuno fu cacciato... L'esperienza più drammatica deve essere stata quella di Di Vittorio, che restò, e la più emblematica quella di Antonio Giolitti, che se ne andò.

Nello stesso tempo Togliatti apriva su Nuovi Argomenti una riflessione sulle "degenerazioni nel sistema" (Nenni avrebbe corretto: "del sistema"), che non uscirono su l'Unità perché alla direzione non piacevano. La medesima direzione non era stata contraria a che nel 1951 Stalin lo sfilasse dall'Italia per fargli dirigere una istituzione nata morta come il Cominform. Quella volta egli rifiutò: la storia fu raccontata da Nilde Jotti e Luigi Longo dopo la sua morte.
Togliatti puntava all'ottavo congresso, con la sua tesi della "unità nella diversità", la stessa per cui pubblicava Gramsci ed elogiava Zdanov. Non rompere mai e praticare scelte diverse. Nel 1956 quel metodo apparve assai discutibile e il partito ne pagò il prezzo, ma dovette reggere proprio su questa ambiguità, tacitando, rafforzando e aprendo, con grande collera dei comunisti francesi. Come avrebbe tentato di fare, su un altro continente e su un altro versante, Mao Tze Tung.


Nessun altro dirigente italiano si inoltrò nel prudente varco che Togliatti indicava. Neanche nel 1964 quando il leader del PCI aprì provocatoriamente tutto il dossier di Gramsci del 1926. Era il momento meno acceso della guerra fredda, dei grandi terremoti ideali, il partito era fortissimo, i socialisti nei guai col primo centrosinistra, la chiesa terremotata. Si poteva fare.

Ma nella base seguì un grande silenzio, perché era una storia "di prima"; e quanto al gruppo dirigente non aprì bocca. Né intervenne sulle note che egli aveva preparato per l'incontro con Krusciov a Mosca, che non avrebbe avuto, ma per il quale avevano insistito i compagni della segreteria, ai quali premeva che si arrangiassero le cose con il PCUS dopo che il PCI aveva rifiutato la conferenza internazionale dei partiti comunisti che l'URSS voleva per condannare la Cina. Così Togliatti mi disse il giorno prima di partire. Non aveva voglia di andarci, in URSS, non apprezzava Krusciov, avrebbe preferito rifugiarsi come ogni estate a Cogne.
Come è noto da quel viaggio non tornò vivente. Mi strinse il cuore veder spuntare all'orizzonte su Ciampino l'apparecchio dell'Aeroflot che ne portava la salma, l'involucro di quell'URSS che aveva segnato la sua vita fra appartenenza e distanza. La segreteria si oppose alla pubblicazione di quelle note, che uscirono per volontà di Longo e qualcuno di noi trasmise, con il suo accordo, a Le Monde. È curioso che a capire che il socialismo reale si trovava in una crisi lenta ma ineludibile siano stati due vecchi.

Su quel testo, che è interessante vedere nella versione originale con alcune correzioni dolcificanti nel consueto inchiostro verde, nessuno dei giovani leoni del PCI, che oggi chiosano Togliatti con furia, sia andato avanti. E nessuno, salvo Bruno Trentin, offrì neanche un modesto appoggio al dissenso anche di sinistra che allora cominciava a profilarsi all'Est. Nel 1968 l'invasione della Cecoslovacchia trovava ancora una volta furibondo Luigi Longo e prudente la direzione.

Il PCI non avrebbe mai aperto a fondo il discorso sull'Unione sovietica e nel 1989 si sarebbe spento con essa.

il manifesto 19 agosto 2004