Vo Nguyen Giap (1911 - 2013) lo stratega e l’eroe delle più
importanti battaglie susseguitesi nell’area geografica
che i francesi occupanti chiamavano Indocina. Battaglie vinte
con astuzia e grazie al forte coinvolgimento di tutto un popolo
"Il
13 marzo ’54 segnò l’inizio della seconda fase
della campagna inverno-primavera. Aprimmo la grande offensiva
contro il campo trincerato di Dien Bien Phu, e ciò apportò
un elemento nuovo nella fisionomia della guerra. Attenendoci saldamente
alla parola d’ordine: dinamismo, iniziativa, mobilità,
decisione istantanea di fronte alle nuove situazioni, e sfruttando
al meglio i nostri vantaggi sul fronte di Dien Bien Phu, avevamo
modificato la nostra tattica e diretto il nostro attacco principale
contro il più potente campo trincerato francese."
Ho incontrato più volte Giap. Nel ’92 ad Hanoi, nel '95 a Ho Chi Minh Ville e nel '97 a Roma, e nonostante la sua età, il prossimo 25 agosto 2004 compirà 93 anni, ho sempre avuto l’impressione di un uomo instancabile, con grande curiosità e con la voglia di approfondire ogni cosa. Ma soprattutto mi ha impressionato il senso di grande umanità. A Roma nel ’95 per il ventennale della liberazione, fu commovente per tutti incontrare il generale (nella divisa bianca delle grandi occasioni) che abbracciò un tecnico del Gr Rai che piangeva per l’emozione e, per smorzare la tensione, chiese ad un fotografo un’istantanea con tutti noi. "Anche per lui - disse - l’emozione era forte perché senza la solidarietà e la mobilitazione di molti giovani e democratici di tutto il mondo, il Vietnam non avrebbe mai vinto." Insomma, il grande vecchio, senza virgolette, non è mai stato arrendevole. Dovrebbe adagiarsi sugli allori e invece no: oltre a essere la memoria storica in un paese fatto di giovani che vogliono dimenticare il passato, continua a essere una piccola spina nel fianco della nomenklatura vietnamita. Infatti Giap si occupa ancora, senza nascondere il suo dissenso con l’attuale governo, di economia, di politica nazionale e internazionale. È preoccupato dello sviluppo economico, "sfrenato e senza regole", delle divaricazioni sempre più nette tra città e campagna, della vita del popolo che non riesce a raggiungere livelli accettabili di qualità della vita. Ricordo un pomeriggio del '97 quando incontrai all’Ambasciata del Vietnam a Roma Giap e sua moglie Bich Ha, erano stanchissimi, avevano visitato la città tutto il giorno. Erano talmente stanchi che mi ricevettero in pantofole, erano emozionati dalla bellezza della città, era la prima volta che venivano a Roma. Fu l’occasione di una chiacchierata sul Vietnam e l’idea di Socialismo. Mi rispose brevemente. "In una società chi è povero lavora per migliorare la sua vita, chi vive mediocremente lavora per diventare ricco e chi è ricco vuole diventare sempre più ricco. Ma se questi lavorassero insieme, faremmo un paese prospero per tutti, non solo in senso materiale, ma anche culturale. Questa è l’idea di socialismo, dove al centro si trova sempre l’uomo." Alias, 13 marzo 2004
Corriere della Sera, 20 Aprile 2006
Hanoi. Il cielo grigio e piovoso del monsone sovrasta la struttura massiccia e severa dell'ospedale militare numero 108 su Tran Hung Dao Street. Al secondo piano di uno speciale padiglione del reparto geriatrico, una macchina pompa ossigeno per sei ore al giorno nei polmoni di Vo Nguyen Giap, il leggendario generale eroe di tante guerre vittoriose contro la Francia, contro il Giappone, e contro gli Stati Uniti d'America. Giap ha festeggiato i suoi cento anni il 25 agosto, circondato da pochi familiari, i medici che si prendono cura di lui e i rari sopravvissuti delle battaglie guidate nel secolo scorso da questo longevo Napoleone dell'Asia. È un colpo di fortuna a portarci sulla soglia della stanza supersorvegliata che lo tiene isolato dal resto del mondo. Il suo fotografo ufficiale da quasi quarant'anni, il colonnello Tran Hong, è ricoverato per accertamenti nello stesso ospedale, e ci accompagna nella palazzina dove l'ex comandante in capo dell'esercito di liberazione dei Vietminh giace, da due anni, a letto. Ma è una visita fugace, un piccolo scambio di omaggi, un fiore per il generale, un suo biglietto per noi con su scritto: «Grazie di avermi reso visita nel mio centesimo compleanno». Il direttore dell'ospedale 108, Tran Duy Anh, ci spiega che l'eroe di tante battaglie, nonché ex giornalista, docente di Storia e di Diritto, leader politico e militare della resistenza al fianco del leggendario «Zio» Ho Chi Minh, è ancora «molto lucido», ma non può rischiare di affaticare i suoi polmoni malati. Neanche la sua pronipote preferita, discendente della secondogenita Hoa Binh - che vuoi dire Pace, benché sia sergente maggiore dell'esercito - può incontrare il bisnonno per più di qualche minuto la settimana. Dopo le celebrazioni del centenario, le visite sono state ulteriormente ridotte ed è difficile sfuggire all'impressione che il vecchio eroe sia una sorta di prigioniero. Non solo prigioniero dei medici, dei tubicini per l'ossigeno, del suo mito di condottiero invincibile, ma soprattutto dello stesso Partito comunista che Giap costruì più di 70 anni fa assieme a Zio Ho, mentre i colonizzatori francesi torturavano in cella e uccidevano suo padre, sua sorella, la precedente moglie e centinaia di compagni della prima ora. In un appartamento vicino all'incantevole lago Hoan Kiem, dove si mitizza l'esistenza di una tartaruga millenaria, incontriamo un gruppo di giovani dissidenti del partito e anziani veterani dell'esercito. Ci spiegano che a due, tre anni di distanza, le ultime parole del grande vecchio, la sua ultima battaglia ideale a favore della salvaguardia ambientale del Vietnam, risuonano ancora, pesanti, non solo nei Palazzi del Potere, ma nella mente della gente comune, almeno tra quanti sanno che, dietro le medaglie d'oro e gli onori a lui dedicati con decine di cerimonie ufficiali, si cela il gelo degli apparatnik, preoccupati soprattutto di non lasciargli lavare pubblicamente i panni sporchi di famiglia e infangare la «storia gloriosa» del Partito. Il Lao Dong (Partito dei lavoratori) del Vietnam è uno dei pochi Partiti-Stato ancora al potere, come accade a Cuba, nella Corea del Nord e in Cina. La politica delle riforme economiche avviata dai comunisti nella metà degli anni Ottanta, che qui chiamano dai moi, ha portato, sì, del benessere in più, ma ha scalfito di poco il muro di segretezza che da sempre circonda le politiche del Politburo di Hanoi. Tra i tanti misteri ben custoditi, c'è anche quello sulla sorte riservata spesso in passato - e per certi versi ancora oggi - all'unico eroe nazionale di fama pianetaria sopravvissuto a innumerevoli battaglie, combattute da Giap non solo contro gli «invincibili» francesi e americani, ma anche dentro le impenetrabili stanze del potere vietnamita. E raccontano i nostri (inevitabilmente) anonimi interlocutori che il gelo scese, attorno a Giap, tre anni fa. Fino ad allora, a ogni compleanno, il vecchio combattente pronunciava un discorso genericamente cerimoniale da presidente onorario dei veterani di guerra. Ma quella volta volle far sapere, a sorpresa e pubblicamente, di non essere contento del risultato attuale di tanti sforzi bellici e umani della sua generazione, e del vano sacrificio dei milioni di morti sui campi di battaglia per costruire una società giusta e ugualitaria. Pariò senza peli sulla lingua delle sue riserve verso la politica del Partito, delle foreste deturpate dalle miniere di bauxite gestite dai cinesi, dell'asservimento a Pechino e ai suoi interessi, del malaffare imperante. «La leadeship» disse «ha resistito a ogni tentativo di riforma nella totale immobilità politica». Ma «la crescita futura dipende da continui e profondi adeguamenti, come la privatizzazione delle imprese statali oggi moribonde, con gii investimenti stranieri che in assenza di profitto sene vanno altrove, allontanati dalla corruzione e dalle enormi perdite». E ancora: «Se non cambia politica» era l'ammonimento «il governo perderà credibilità, metterà a rischio l'autorità dello Stato e la stessa ideologia».
Le sue parole si spensero nel silenzio tombale delle autorità, ma il generale tornò alla carica pochi mesi dopo con due lettere aperte affidate anche alla stampa, nelle quali menzionava, senza giri di parole, le miniere cinesi sugli Altipiani centrali di Dak Nong, abitati dalle minoranze che avevano combattuto al suo fianco e costruito con il sacrificio di tante vite il famoso Sentiero Ho Chi Minh, per portare i rifornimenti del Nord ai Vietcong di Saigon e del Sud. Raccolse subito il consenso di molti intellettuali, ambientalisti e gente comune esasperata dalla cinesizzazione dell'economia nazionale. Si riferiva ai progetti per l'estrazione di oltre 5 miliardi di tonnellate del minerale da cui si produce l'alluminio, e alla presenza di migiiaia di lavoratori delle compagnie cinesi. I giovani dissidenti nella stanza sul lago abbassano la voce ricordando che 135 intellettuali e scienziati firmarono una petizione spedita al presidente dell'Assemblea nazionale del Partito nella quale si citavano Giap e i problemi di sicurezza nazionale, oltre che ambientale, posti dalla massiccia presenza di esperti di Pechino nel cuore del Vietnam. «Oggi i residui tossici delle lavorazioni» dicono i nostri interlocutori «hanno già iniziato a inquinare i fiumi fino al Sud, lungo il delta del Mekong, tra le risaie e gli allevamenti di pesce e gamberetti che sfamano milioni di vietnamiti». E ricordano che, nelle sue lettere, Giap invitava scienziati, manager e attivisti sociali a insistere con il Partito perché abbandonasse i progetti minerari. Ma in tutta risposta - senza citare Giap - il primo ministro Nguyen Tan Dung, particolarmente «aperto» agli investimenti stranieri e alle relazioni personali con imprenditori cinesi e anche americani, definì le miniere di bauxite «una politica strategica per il Partito e per lo Stato». E oggi i contratti con i subappaltatori della compagnia cinese Chinaico sono già firmati e operativi. Nella sua ultima battaglia prima di entrare nel tunnel finale della vita, Giap non ha tatto mai paralleli con le memorie tragiche della guerra. «Ma fu per tutti noi ovvio» dicono i veterani «il paragone con i bombardamenti a tappeto dei famigerati B52 americani e l'uso del letale napalm», l'Agente Orange le cui tracce restano ancora oggi nelle famiglie dei sopravvissuti e perfino nei neonati delle ultime generazioni. Per capire l'amore di Giap per l'ambiente, gli anziani ci parlano della sua infanzia tra le risaie del villaggio di An Xà, ancora rimasto quasi intatto, dei suoi studi da autodidatta in agronomia, di suo padre che faceva il contadino per mantenerlo al liceo, ma studiava Confucio e i classici, della sete di giustizia del futuro eroe che fu espulso da scuola per il suo primo sciopero contro il modello educativo dei colonizzatorì francesi. Ma anche delle sue meditazioni Zen a mani congiunte che in Vietnam si chiama Thien, delle lunghe sedute dì Tai chi per tenere in forma il corpo, praticate fino a quando non è entrato tra le mura dell'Ospedale 108. Tutti, giovani e vecchi, parlano dell'eroe di Dien Bien Phu come di un «generale di pace», anche se la battaglia per il suo popolo lo ha portato a uccidere migliaia, decine di migliala di esseri umani. Tra i capitoli di storia che non si insegnano nelle scuole - ci spiegano gli ex soldati, alcuni dei quali vecchi militanti ad alto livello del Partito - molti riguardano le purghe più o meno segrete che colpirono collaboratori di Giap accusati di «revisionismo». Il generale si salvò soltanto perché sarebbe stato troppo imbarazzante toccare l'icona sacra della resistenza e detta lotta armata contro gli invasori. Ma in più di un'occasione, tra le stanze ovattate del Politburo e del Comitato centrale di Hanoi, lo stratega di tante vittorie fu accusato apertamente di essere un «controrivoluzionario e revisionista», soprattutto tra il 1963 e il 1967 quando l'ex segretario del Partito, Le Due Tho - suo nemico giurato già prima della morte di Ho Chi Minh - dominava la corrente filo-maoista contraria a ogni compromesso con l'Occidente. È sempre meno un segreto, oggi, che Giap tentò di opporsi allo scontro frontale con le truppe americane. In diverse occasioni - ci spiegano i veterani - avrebbe proposto di entrare in contatto con gli alti 007 della super intelligence americana dell'Oss (Ufficio dei servizi strategici) creata dal presidente Rooseveit durante la Seconda guerra mondiale. Giap li conosceva personalmente da quando, nel '45, crearono insieme le condizioni per cacciare i giapponesi che avevano sostituito temporaneamente la Francia nel dominio di Hanoi e Saigon. Il generale era consapevole che la lotta per la riconquista del Sud ai nazionalisti appoggiati dallo Zio Sam sarebbe stata sanguinosa, come infatti fu con i tre milioni di morti vietnamiti e i sessantamila soldati Usa. Ciononostante, fece il suo dovere perfezionando le tecniche di ditesa e di attacco decisive per le sorti della guerra. Si allineò senza fiatare anche quando, da ministro della Difesa e capo dell'esercito, fu affiancato o sostituito da un giorno all'allro da altri ufficiali e apparatnik, e addirittura buttato fuori dai vertici del Partito. Uno dei suoi ultimi incarichi fu di ministro della Pianificazione familiare e della ricerca scientifica. Quasi un'offesa. Ma Giap capì che sarebbe valso a poco forzare il corso degli eventi. «Obbedisco» disse di nuovo da bravo
soldato. Ma la sua ultima battaglia contro
la corruzione e la distruzione ambientale
gli vale bene il nomignolo popolare tra tutti i vietnamiti: Nui Lua, il Vulcano sotto la
neve. La passione dell'uomo, forse l'eià,
hanno prevalso sui calcoli del generale. Venerdì di Repubblica, 21.10.2011
Quel giorno d'autunno, sulla Unter den Linden, a Berlino Est, erano riuniti molti dirigenti del mondo comunista. C'erano il sovietico Breznev, il polacco Gierek, il cecoslovacco Usak, l'ungherese Kadar, naturalmente Honecker, il padrone di casa, e una manciata di altri dirigenti, alcuni dei quali asiatici, per lo più in divisa militare. Si celebrava l'anniversario della Repubblica democratica tedesca, cioè della Germania comunista, davanti al monumento ai caduti sovietici della Seconda guerra mondiale, e noi cronisti occidentali, superati gli innumerevoli controlli, potevamo aggirarci tra quei personaggi, che per la verità non ci degnavano di uno sguardo. Soltanto un ufficiale carico di decorazioni e di vistosi gradi dorati, visibilmente snobbato dai «grandi», cercava di avviare una conversazione. Si avvicinava timido, esitante, quasi non volesse importunarci, ma noi non gli davamo retta. Sotto il vistoso cappello militare, con una visiera spiovente che copriva i lineamenti asiatici, doveva esserci un dirigente mongolo a noi sconosciuto. Gli giravamo dunque le spalle e rivolgevamo la nostra attenzione a Leonid Breznev e agli altri dirigenti che lo circondavano ossequiosi, ignorando il mongolo, quasi non esistesse. Poi arrivarono le berline ufficiali, nere, funeree, con le bandierine svolazzanti bene in vista, e da quella sull'automobile del mongolo mi accorsi che era in realtà un vietnamita. E che quel vietnamita non poteva essere che il generale Giap. Inseguii la sua automobile per qualche decina di metri. Agitai un braccio con speranza che si fermasse. Invano. Annidato dietro i vetri oscurati, Giap mi sfuggiva ancora una volta. Così ho mancato stupidamente quel personaggio, che avevo sperato di incontrare, che aveva occupato la mia fantasia in Vietnam, prima - durante la guerra francese - e poi, durante quella americana. E ancora nel Vietnam riunificato. Non era impossibile incontrarlo, non gli dispiaceva intrattenersi con i giornalisti. Ma per me erano mancate le occasioni. Un giorno gli ho parlato al telefono. Mi trovavo a Hanoi e lui era in giro per il Paese. Mi dette appuntamento a Saigon, diventata Ho Chi Minh Ville, Ma non riuscii a raggiungerlo perché un ciclone aveva annullato i voli. Per chi ha seguito per anni il conflitto indocinese, Giap era un personaggio sempre presente. Era un'ossessione. Un mito. Un incubo. Un eroe. Un genio. Un vulcano coperto di neve, dicevano in tanti, perché lo giudicavano carico di energia ma freddo nel comportamento. Quel giorno sulla Unter den Linden mi sfuggì di mano, ma le immagini berlinesi che mi sono rimaste non sono inutili. Non sembrava che i capi comunisti, prigionieri della loro mediocrità, lo tenessero in grande considerazione. In fondo non era che un soldato. Avevano torto, perché la loro sorte, più o meno direttamente, sarebbe stata influenzata da quel generale, tanoe fedele ai suoi principi, un uomo sentimentale e cordiale, un patriota e un essere legato al ricordo struggente, indelebile della prima moglie morta in un carcere francese. In qualche modo, un vendicatore. Ho imparato a conoscerlo a distanza, leggendo i suoi scritti, anche le sue poesie, non segrete ma ignorate, e seguendo le sue epiche offensive, che hanno umiliato i grandi strateghi occidentali. Lui, un militare autodidatta. Vo Nguyen Giap è stato un protagonista determinante della seconda metà del Novecento. Nel 1954 i francesi furono sconfitti a Dien Bien Phu dai suoi bodoi, soldati calzati di sandali ricavati da
vecchi copertoni; e da quella disfatta gli
ufficiali dell'Armée ritornarono frustrati,
ma decisi a prendersi una rivincita. Nel frattempo si stava ampliando un nuovo conflitto coloniale, provocato da altri reduci della guerra d'Estremo Oriente. Nella valle di Dien Bien Phu gli algerini, incorporati nelì'Armée, avevano imparato che un esercito occidentale moderno, ben armato, poteva essere sconfitto da un esercito «indigeno». Non era la prima volta nella storia, ma la battaglia di Adua del secolo precedente, che aveva visto gli italiani sconfitti dagli etiopi, non era nelle memorie. Ritornati in patria, alcuni di quegli algerini riaccesero la fiamma dell'indipendenza, rivendicata già alla fine della Seconda guerra mondiale, quando i magrebini che avevano combattuto per la libertà della Francia, occupata dai nazisti, avevano chiesto, invocandola senza successo, la propria libertà. Giap aveva insegnato loro come i colonizzati potevano vincere i colonizzatori. Sulla scia della sconfitta di Dien Bien Phu, la Francia dette l'indipendenza alla Tunisia e al Marocco. E più tardi il generale De Gaulle, ritornato al potere sull'onda della rivolta dei militari impegnati nella guerra d'Algeria, avviava un rapido processo di decolonizzazione nell'Africa Occidentale, cercando di recuperare il ritardo della Francia nello smobilitare l'impero. L'Inghilterra l'aveva saggiamente preceduta. La vittoria dello stratega autodidatta avviò non soltanto il crollo dell'impero coloniale francese, ma preparò la strada, attraverso la guerra d'Aìgeria di cui aveva creato le premesse, anche a un cambio di Repubblica a Parigi. De Gaulle, infatti, dichiarò morta la Quarta repubblica e fondò la Quinta, ancora in vigore. Nel remoto Estremo Oriente, sconfiggendo l'Armée, Vo Nguyen Giap aveva accelerato il corso della storia nel centro dell'Europa. Gli effetti della sua seconda vittoria,
quella sugli americani, hanno contribuito a mutare, lo si può affermare, la storia del mondo. Dalla sconfitta dell'America, Mosca
aveva ricavato la certezza che la teoria
dei domino, ossia l'avvento a ripetizione
del comunismo in tanti Paesi in seguito
alla vittoria comunista in Vietnam, si sarebbe realizzata. Volendo approfittare
della situazione mondiale favorevole,
Mosca aveva dunque cercato di estendere la sua egemonia allo Yemen, all'Angola, all'Etiopia e infine all'Afghanistan. I «grandi» del comunismo sulla Unter den Linden ignoravano di essere alla vigilia del loro fallimento. La guerra di liberazione contro la Francia e gli Stati Uniti fu un capolavoro di arte militare in cui il generale Giap rivelò le sue qualità di stratega, ma quel capolavoro di arte militare fu possibile come prodotto di un capolavoro di arte politica quale fu la strategia rivoluzionaria di Ho Chi Minh. Una rivoluzione armata promossa da un partito comunista fuori dal quadro della strategia sovietica era un atto di indipendenza e di coraggio che solo forti personalità poterono pennettersi. E non va dimenticato che li Vietnam, vinti francesi e americani, umiliò e respinse alla fine degli anni Settanta l'esercito cinese che aveva violato le sue frontiere. Resistere al vicino gigante, quale era la Repubblica popolare, non era un'impresa da poco. Anche perchè la Cina era stata la grande potenza alleata, prima di dissociarsi e aprire il dialogo con gli Stati Uniti, in funzione antisovietica. Giap non fu sempre un vincitore, subì anche serie umiliazioni. Fu spesso dato per sconfitto e senza possibilità di riprendersi. Non fu certo un liberale. Il suo irriducibile patriottismo coabita con lo spirito, puro e duro, del diriga comunista, pronto a reprimere, con slancio stalinista. La lotta armata, per lui, non consentiva debolezze. Nei limiti del possibile garantiva però l'assistenza sanitaria ai suoi soldati e, nell'ambito dei villaggi, aiutava le loro famiglie. La rete di solidarietà popolare accompagnava i bodoi. C'era anche, anzi c'è, perché a cent'anni vive ancora, una punta di romanticismo nel personaggio. Uno dei suoi libri preferiti è stato I sette pilastri della saggezza di Thomas Edward Lawrence. «È stato il mio Vangelo di guerra» ha confessato al generale Raoul Salan, prima che scoppiase la guerra con la Francia. La lotta di Lawrence d'Arabia contro i turchi gli è servita da esempio, l'ha ispirato come i testi di Marx e di Lenin. Invece di frequentare accademie militari, che non esistevano nell'Indocina coloniale, Giap ha studiato legge all'università e poi ha insegnato storia per qualche anno, prima di entrare nella clandestinità. È a quel tempo che risale la sua puntuale abitudine di comporre versi. Versi semplici. Una poesia dedicata alla moglie morta in carcere ha come titolo Il bacio. E dice: «Anche se muoio, amore mio, ti amo, sebbene sia incapace di baciarti con le labbra di uno schiavo». Venerdì di Repubblica, 21.10.2011
Chi ha l'età sicuramnte
se lo ricorda quel "Giap-Giap-HoChi Minh" che scandiva, come un grido di battaglia, la marcia dei
cortei italiani del '68 e dintorni. I ragazzi americani cominciarono a bruciare le cartoline precetto,
la televisione raccontava
dal fronte che le cose andavano veramente male. Migliala di bare
tornavano a casa ogni settimana
avvolte nella bandiera. Qui da
noi, Gianni Morandi cantava «C'era un ragazzo che come
me...» e quelli più radicali
intonavano la versione italiana di Eve of Destructìon di Barry McGuire: «L'America dei Nixon, degli
Agnew, McNamara. nella giungla
del Vietnam una lezione impara...». Gli operai di Mirafiori
in sciopero ritmavano: "Agnelli
l'Indocina ce l'hai in officina». Jane Fonda salutava da Hanoi
con il pugno chiuso. Poi ci furono le guerriglie
argentine, brasiliane,
uruguaiane che tentarono
di imitare il modello di Giap.
ma furono tutte sconfitte. |