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Tiziano Terzani
Vietnam, un sogno fallito |
30 aprile 1995
Vent'anni fa la fine della guerra
L'emozione fu grande. Una delle più intense della mia vita. Quando vidi i primi guerriglieri con la bandiera vietcong sfrecciare su una jeep per la strada principale di Saigon, urlando: "Giai Phong!", non riuscii a trattenermi. Mi misi a piangere. Di gioia. Con quell'urlo, "Liberazione!", finiva una guerra che aveva martoriato il Vietnam e scosso il resto del mondo.
Mi misi a correre verso il Palazzo presidenziale. Arrivai che i primi carri armati avevano appena sfondato la cancellata di ferro e i soldati stavano
prendendo posizione sulla scalinata. La resa formale del regime del Sud avvenne in pochi minuti, senza altri scontri, senza più morti.
Col passare delle ore il panico di quelli che non erano riusciti a fuggire con gli americani passò, la paura di Saigon si sciolse e alla sera sul grande prato al fianco della Cattedrale i guerriglieri, come fossero ancora nella giungla, accesero i loro falò per cucinare il riso in grandi pentoloni.
Il 30 aprile 1975 "la rivoluzione" si presentò a Saigon esattamente come milioni e milioni di dimostranti nel mondo, per anni, se l'erano sognata: semplice, contadina, giusta.
I giovani guerriglieri che entrarono in città, magri, con le uniformi lise e ai piedi i classici sandali di Ho Chi Minh ricavati da vecchi e gomme di camion, erano ragazzi di campagna che si rivolsero ai loro ex nemici chiamandoli "fratelli". Erano estremamente disciplinati e non ci furono nè furti, nè saccheggi.
Quella che si concludeva era stata una lunga, sanguinosa guerra civile,
eppure non ci furono plotoni di esecuzione, non ci furono bagni di sangue, nè regolamenti di conti. Tutto quel che i nuovi governanti dissero di volere era la pace e la riconciliazione nazionale. La rivoluzione sembrò ideale.
Restai a Saigon per tre mesi e l'esperienza quotidiana di quella rivoluzione fu eccitante. Si aveva la sensazione di qualcosa di nuovo che veniva al mondo, qualcosa di promettente come un bambino appena nato. C'era qualcosa di catartico, di purificante nel lento rovesciarsi di una società che era stata estremamente corrotta, incapace e senza più ispirazione.
C'era un senso di "giustizia è fatta" nel vedere gli oppositori del vecchio regime liberati dalle "gabbie di tigre", i profittatori della guerra andare a prendere lezioni di "nuova moralità" e i funzionari e gli ufficiali di Saigon partire verso le basi dei guerriglieri per essere "rieducati" e rendersi conto delle difficoltà con cui quelli avevano vissuto e combattuto "per il bene di tutti".
L'altra faccia della rivoluzione
L'illusione non durò a lungo e la rivoluzione vietnamita come ogni altra rivoluzione, da quella sovietica, a quella cubana, a quella cinese prima,. presto mostrò l'altra sua faccia: i combattenti furono lentamente sostituiti da i commissari politici, gli eroi dai burocrati e gli idealisti dagli uomini dei servizi segreti.
Presto una dittatura prese il posto dell'altra ed il nuovo regime comunista finì per essere spietato e disumano come quello pro americano del passato.
Invece che vivere in pace e lavorare alla ricostruzione del Paese, migliaia di giovani vietnamiti dovettero andare a combattere e a morire in Cambogia contro i Khmer rossi di Pol Pot; decine di migliaia di persone furono costrette a mettersi in mare e a cercare scampo come boat people nei Paesi vicini; la "rieducazione" si rivelò una trappola con cui tutti i potenziali oppositori del nuovo regime vennero tolti di mezzo e rinchiusi in campi di concentramento da cui moltissimi non tornarono.
Il fatto di essere stati pro americani e di aver combattuto per il Sud si rivelò un "peccato" che non potè essere espiato con nulla e che anzi si tramandò di padre in figlio come una maledizione.
Di tutte le belle promesse la rivoluzione non ne ha mantenuta nessuna. Tanto meno quella della riconciliazione nazionale. I comunisti hanno sì riunito politicamente il Paese, e questo è stato il loro grande, storico merito, ma hanno mantenuto, anzi approfondito, l'abisso psicologico fra Nord e Sud.
Il regime che i comunisti, al costo di tanti morti e tanti sacrifici, hanno instaurato è oggi, a distanza di due decenni, corrotto, inefficiente e poco ispirante quanto lo era quello che loro stessi rovesciarono nel 1975.
La società che i rivoluzionari hanno messo in piedi è una società senza grandi ideali, confusa e ora tutta tesa a diventare quel che in maniera più sbrigativa ed efficace sarebbe comunque diventata se i "reazionari" del vecchio regime fossero rimasti al potere.
Fra le tante ragioni di questo fallimento c'è stato certo il fatto che gli Stati Uniti, non avendo accettato la sconfitta del 1975, hanno continuato per anni, pur con altri mezzi, a fare la guerra al Vietnam; che la Cina, da alleata di Hanoi, è diventata sua nemica e che il mondo s'è presto dimenticato del Vietnam e dei suoi problemi.
Al fondo del fallimento però ci sono state ugualmente l'arroganza dei dirigenti di Hanoi, la loro superbia nei confronti dei vinti e la loro ottusa applicazione dell'ideologia marxista-leninista imposta sopra il comune, forte nazionalismo che ha distinto i vietnamiti da secoli.
Giuste le sfilate per la pace
Il risultato è stato una grande delusione e oggi molti di noi si chiedono se tutto sommato non c'eravamo sbagliati a marciare allora per le strade del mondo a favore della pace in Vietnam, cioè della vittoria vietcong.
La domanda è giusta. La risposta è: "No".
Quel che è successo negli ultimi vent'anni non ha cambiato il senso di quella guerra e il significato storico del 30 aprile 1975. I vietnamiti combattevano una guerra di liberazione nazionale cominciata più di cento anni prima con lo sbarco delle prime truppe coloniali francesi. Per molti della mia generazione quella guerra era un test di moralità così come lo era stata quella di Spagna. Senza necessariamente essere comunisti, eravamo convinti che gli Stati Uniti non avessero alcuna ragione di immischiarsi negli affari di quel lontano Paese dell'Asia.
Eravamo idealisti e fra la sofisticata macchina da guerra americana e il guerrigliero contadino la scelta del nostro eroe era scontata. Un principio in cui credevamo era che un popolo ha il diritto di decidere il proprio destino e che le società hanno da essere a misura d'uomo e giuste.
La rivoluzione sembrava promettere tutto questo. È sempre così con le rivoluzioni. Perchè le rivoluzioni sono il futuro e il futuro, a confronto del presente, di solito segnato di miseria, è sempre più attraente, visto che può essere riempito di promesse.
Il Vietnam era un caso perfetto su cui trasferire le nostre aspettative. Dopo due decenni lo scetticismo. Da un lato c'era un regime oppressivo appoggiato dall'intervento americano che era la continuazione del regime coloniale francese, dall'altro c'era una spartana, morale, dura rivoluzione che prometteva una migliore vita per tutti.
Son passati vent'anni e il tempo ha fatto la sua parte: ha cambiato il mondo, ha cambiato il Vietnam e ha cambiato noi stessi.
Nessuna guerra ci commuove più, nessuna causa ci fa scendere più in strada come quella allora dei vietcong.
Siamo diventati, certo anche a causa di tante speranze deluse, scettici dinanzi a tutte le promesse politiche e certo sospettosi di tutte le rivoluzioni. Quel che il tempo non ha combiato è il ricordo delle grandi passioni di quegli anni e della grande emozione di quel 30 aprile.
È importante che resti così se, nel cinico clima del presente, vogliamo capire che il passato aveva una sua carica di idealismo, che la "rivoluzione" vietnamita era anche un sogno ed è per questo che milioni di persone scesero per le strade del mondo per dimostrare a suo favore e che tanti giovani vietnamiti andarono a morire, forse inutilmente, in suo nome.
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