Alberto Burgos

Comunisti e anarchici nella guerra civile spagnola

Un grande regista, Ken Loach, qualche anno fa girò un film davvero brutto: Terra e libertà.
L'inizio struggente non lascia prevedere che il racconto si sarebbe poi dipanato in un insopportabile ricorso ai peggiori luoghi comuni in merito al ruolo dei comunisti durante la Guerra civile spagnola: beceri stalinisti capaci solo di imporre le proprie direttive e quindi pronti a far fuori tutti coloro che non erano d'accordo.

Anarchici e militanti del POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista), in primo luogo.
E infatti nel film questi sono rappresentati come i "veri" rivoluzionari, buoni, generosi, romanticamente straccioni in contrapposizione ai bolscevichi sempre ben pasciuti e trucidi, e in lucide uniformi.
Mah, davvero imbarazzante un film così manicheo e grossolano, dunque intimamente stalinista, che vorrebbe opporsi proprio allo stalinismo.
Del resto questa è ormai una delle interpretazioni più diffuse sulla guerra civile spagnola: peccato che fra i repubblicani ci fossero quei feroci comunisti, ben diversa sarebbe stata la storia se nel fronte antifascista avessero prevalso gli anarchici, i trozkisti ed i comunisti non stalinisti. Un'infantile vulgata che fa da macabro contrappunto a quella, cattolica, sul martirio di preti e suore barbaramente sterminati dai rossi.
Longo, Vidali, Togliatti, i capofila italiani di questa banda di assassini...

Il discorso sarebbe assai lungo, ma, schematicamente, si potrebbero fissare due date: il 1975, con la clamorosa avanzata del PCI alle elezioni amministrative, ed il conseguente inebriamento da potere che travolge una gran parte dei gruppi dirigenti comunisti, ed il 1984, anno in cui muore Enrico Berlinguer: il PCI elegge come Segretario una figura autorevolissima come Alessandro Natta, incapace, tuttavia, di proseguire con vivacità e determinazione il rinnovamento (peraltro non privo di contraddizioni) avviato da Berlinguer, e il susseguente passaggio di consegne a quel pagliaccio di Achille Occhetto innesca un processo di sfaldamento che porterà il PCI all'autoscioglimento e, per passaggi successivi, alla miserabile conclusione: il PD.
La crisi irreversibile del sistema sovietico (che, ça va sans dire, di socialista e comunista aveva ben poco), cioè, invece di stimolare nuovi momenti di riflessione, per un'uscita "a sinistra" dalla crisi del comunismo, spinge i dirigenti comunisti verso la soluzione più semplice, e al tempo stesso più deleteria: rincorrerere il moderatismo, addirittura andando oltre lo stesso ambito socialdemocratico.

Cosa c'entra tutto questo con la Spagna? Un PCI (e fa riflettere che gli altri due grandi partiti comunisti europei, PCE e PCF, abbiano fatto anch'essi una fine miserevole, pur seguendo tutt'altre strade) incapace di guardare storicamente a se stesso, e di rinvigorirsi dialetticamente, cerca di sopravvivere a se stesso, appunto, non colmando un certo numero di pagine bianche ma, al contrario, semplicemente azzerando la propria memoria, lasciando ai militanti ricordi annebbiati e privi di logica, rimuovendo come un corpo estraneo proprio la tradizione che ne aveva fatto un partito mai supinamente piegato all'ortodossia moscovita. Dunque le basi fondanti dell'anticomunismo (quelle dignitose di chi giustamente ha sempre criticato duramente lo stalinismo, e quelle assai meno nobili di chi ha sempre teso a dare del socialismo una rappresentazione falsata) paradossalmente diventano il patrimonio ideale prevalente di coloro i quali erano fino all'altro giorno comunisti. Le ripetute dichiarazioni di Veltroni, poi assunte compiutamente da tutto il gruppo dirigente del PDS e poi dei DS, non solo cancellano rozzamente decenni di lotte e di passioni, ma lasciano finalmente campo libero alla storiografia più grossolana e fuorviante.
Ecco, allora, il riemergere trionfante di tutti i luoghi comuni che per lungo tempo erano rimasti ai margini della discussione, sia strettamente politica che culturale: e pazienza, dunque, se il Vaticano promuove una formidabile campagna mediatica sui "martiri" della rivoluzione (e D'Alema e Veltroni sono in piazza San Pietro il 6 ottobre 2002, alla cerimonia di beatificazione di Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore della famigerata Opus Dei); e, per carità, non si sprechi un istante ad arginare il revisionismo storico, o a contrastare le vecchie scelleratezze sulla Spagna.

Certo, in Spagna durante la guerra civile vi furono scontri molto aspri fra i comunisti e gli anarchici (componente storica essenziale del repubblicanesimo iberico), e in numerose occasioni le armi della critica furono sostituite dalla critica delle armi: da ambo le parti, sia chiaro, anche se effettivamente i comunisti furono per certi versi assai più duri. Ma dipingere Berneri, Durruti, e tanti altri valorosi combattenti anarchici (oltre ai tanti militanti del POUM) come banali vittime della crudeltà stalinista è davvero un'operazione degna degli storici di regime che a Mosca falsificavano tutto pur di compiacere il tiranno.
Lasciamo perdere gli eccessi e le nefandezze proprie di qualunque guerra civile (in cui nessuno, per definizione, è del tutto innocente) e - rinviando ai testi più autorevoli citati in bibliografia, magari di autori non legati al comunismo - andiamo al punto.

  • È pensabile, in una situazione di guerra, in cui cioè i fattori militari prevalgono su tutti gli altri, definire "borghese" l'esigenza di una forte catena di comando e di una disciplina ferrea?
  • Ha un qualche significato rivoluzionario impegnare energie preziose in dibattiti teorici e in sperimentazioni sociali quando la priorità assoluta è quella di non far passare un nemico agguerrito e spietato?
  • Barcellona sta per cadere nelle mani dei fascisti e gli anarchici pongono come prioritaria la questione della democrazia diretta?
  • La libertà sta per essere definitivamente travolta e c'è invece chi insiste sulle alchimie ideologiche?


Eccetera.



Questo è il nodo fondamentale: i comunisti, che peraltro erano la componente politico-militare più solida (e che non erano arrivati in Spagna in wagon lit da Mosca, ma come volontari che si lasciavano alle spalle lavoro e affetti, esattamente come tutti gli altri internazionali, socialisti, anarchici, liberali, o senza partito che fossero), avevano ben chiaro che la lotta era disperata e che alle forze reazionarie occorreva opporre un fronte rivoluzionario e democratico ampio e compatto.

Con ciò non si vuol certo dire che i comunisti fossero rivoluzionari esemplari, mentre gli anarchici e i trozkisti erano di fatto controrivoluzionari: così come non ha senso rovesciare questa prospettiva settaria come ha fatto Loach.
Insomma, non si fa un passo avanti se si vogliono mettere a fuoco i passaggi cruciali della storia del movimento operaio ideologicamente * , di volta in volta dipingendo i comunisti come eroi e santi, o, viceversa, come ottusi tagliagole.

 

* Il termine ideologia, coniato alla fine del sec. XVIII dal filosofo francese De Tracy, viene adoperato con significati assai diversi: in genere sta a indicare un complesso di idee rispetto alla vita sociale e politica. In realtà per Marx l'ideologia è tutt’altro: un’illusione che protegge se stessa nel suo essere tale e che tale vuole rimanere; questa visione distorta del reale, questa falsa coscienza, non è tanto menzogna consapevole, quanto automistificazione, autoinganno dettato dalla paura della realtà, visione di comodo delle cose. Gramsci scrive: “Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore di cieco fanatismo ideologico).” Quaderni del carcere 10, Einaudi, p. 1263 (o Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, 1966, p. 25). E Lenin: “Scambiare il proprio desiderio, la propria posizione ideologica e politica per una realtà obiettiva, è l’errore più pericoloso per dei rivoluzionari.” Due tattiche della socialdemocrazia, in Opere complete, Ed. Riuniti, 1966, vol. 9, p. 46.