Il Noto Servizio o l'Anello

 

Matteo Lunardini

Il Noto Servizio

 

Corrado Stajano sul Corriere della Sera l’ha giustamente definito un “vero romanzone, il ritratto della mala Italia”. Eppure “Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro” (Tropea, pagg. 445, euro 18,00), l’ultimo sforzo dello storico Aldo Giannuli, non è un romanzo criminale. È semplicemente il miglior saggio mai scritto sulla materia. Analizza il rapporto tra intelligence e struttura sociale in Italia partendo da una nuova inquietante scoperta: il cosiddetto ‘il Noto Servizio’. Ma anche il titolo non deve trarre in inganno. Il caso Moro è infatti solo uno degli avvenimenti trattati e Andreotti è sì un protagonista eccellente, ma nella storia della Repubblica non gioca il ruolo del ‘grande burattinaio’. Il divo Giulio è come il ‘cavallo negli scacchi’, abile a saltare in tutte le direzioni ma uomo incapace di azioni a lungo raggio.
Tuttavia il libro si può leggere anche come un romanzo. Che ha inizio il giorno in cui un poliziotto-collaboratore di Aldo Giannuli, “col suo inconfondibile accento londinese”, esclama: “Aò, an vedi che amo trovato?!”. Si tratta di una nota riservata datata 1972. La quale comincia così: “Questa è la storia di un servizio informazioni che opera in Italia dalla fine della guerra e che è stato creato per volontà dell’ex capo del Sim generale Roatta…”
Beh, il documento non poteva cadere in mani migliori. Aldo Giannuli, oltre ad essere consulente parlamentare e giudiziario, è docente di Storia del mondo contemporaneo. Ma soprattutto è un esperto di servizi segreti. Per intenderci, è colui che ha individuato “l’armadio della vergogna”, permettendo di fare chiarezza su molti eccidi nazifascisti volutamente dimenticati. Dunque chi meglio di lui poteva rileggere la storia oscura d’Italia alla luce della nuova scoperta? Certo, sciogliere tutti i nodi irrisolti è impossibile, ma anche lo studio della storia ha i suoi tempi. Oltreché una funzione ben precisa: impedire il “furto della memoria”.

Perché che cos’è in soldoni il Noto Servizio (o Anello)? In Italia sapevamo dell’esistenza di apparati d’intelligence di Stato (Sifar-Sid, Uaarr, Sios, Ufficio «I» della Gdf, eccetera) e di altri considerati “paralleli” (P2, Gladio, Supersismi). Eravamo a conoscenza di trame eversive e di svariati golpe a volte tentati, a volte rinviati, a volte solamente minacciati, tuttavia mai una pagliacciata come si vorrebbe nel seppur impareggiabile “Vogliamo i colonnelli” di Monicelli.
Ebbene, il Noto Servizio era uno degli anelli della catena: una struttura clandestina a metà strada tra servizi statunitensi, servizi militari e imprenditori. Dunque la sua scoperta impone di ristudiare tutto: la Liberazione, gli anni del ‘centro-sinistra’, la strategia della tensione, i casi Feltrinelli, Calabresi, Moro e Fausto e Iaio. Ma anche la storia della Democrazia cristiana milanese e quella del ‘Servizio di via Statuto’, la Maggioranza silenziosa e i Mar di Fumagalli, Gianni Nardi e padre Zucca, le Br e Don Raffaé. Un esercizio tutt’altro che facile, beninteso, ma non fine a se stesso. Una volta risolta la sciarada del Noto servizio, infatti, al lettore resta in mano la biografia non autorizzata della Repubblica Italiana.

Un Paese in cui trame oscure sono state ordite da organizzazioni sovrastatali non democratiche vicine a massoneria e criminalità organizzata. Apparati spesso dediti più al traffico di armi che alla politica. E intenti più a salvaguardare le proprie chiappe che a un’effettiva presa del potere. Però in grado di orientare la storia d’Italia. Seminando una scia di sangue sulla sua spesso attentata democrazia.


il Fatto, 09.11.2011

 


Stefania Limiti

L'Anello. Quella di Kappler fu una fuga di Stato

Roma, 15 agosto 1977: c’è caldo nella capitale, mentre il nazista Herbert Kappler è già in viaggio per raggiungere la Germania, è libero.
Fu una fuga di Stato, non c’è dubbio.
Tutta l’operazione era stata affidata all’Anello, il servizio di informazioni segretissimo che si occupava degli affari sporchi della Repubblica: se c’era qualche incombenza troppo compromettente per essere assegnata ai servizi ufficiali, intervenivano gli uomini dell’Anello. E la fuga di Kappler era assai compromettente per lo Stato.
L’ex colonnello delle SS stava scontando la sua condanna all’ergastolo per aver mandato al massacro civili innocenti, trucidati alle Fosse ardeatine dalla spietatezza dei nazifascisti: dopo una lunga detenzione nel carcere di Gaeta, nel 1977, malato di cancro, ottenne di essere ricoverato all’ospedale militare di Roma, il Celio, da cui fuggì all’alba di quel 15 agosto. Occupava una stanza al terzo piano del reparto chirurgia, a pochi passi da altre due stanze che ospitavano degenti molto particolari, due protagonisti delle trame nere, il colonnello Amos Spiazzi, il responsabile della Gladio nel nord Italia, e il capitano Salvatore Pecorella, ambedue direttamente coinvolti nel golpe Borghese.

Spiazzi era esponente di spicco della Rosa dei Venti, una diretta emanazione di un servizio segreto sovranazionale della Nato che si sovrapponeva agli organi istituzionali dello Stato e che nel 1973 aveva già architettato l’esfiltrazione di Kappler: non solo perché la Germania lo rivoleva – lì era pure esplosa la kapplermania, con i nostalgici del Fuhrer che acclamavano i gerarchi – ma perché quel ‘regalo’ sarebbe stato il loro omaggio al Ventennio (che tempi, eh? pensavamo fossero dimenticati, e invece…). Alla fine si può ben dire che i protagonisti della “Repubblica della Guerra Fredda” sono sempre gli stessi: nulla poteva cambiare in Italia, e questo status di immobilità veniva garantito da strutture segrete che reclutavano civili nei corpi delle forze di sicurezza.

Se la verità sulla fuga di Kappler fosse saltata fuori, in quel caldo scorcio di agosto del 1977, ne sarebbe andato di mezzo lo Stato. Agli uomini dell’Anello, invece, nessuno avrebbe potuto chieder conto delle proprie azioni e frequentazioni. Durante le operazioni dell’evasione gli agenti di Vito Casardi, il capo del Sim, il servizio ufficiale, seguivano con attenzione e scrupolo che tutto andasse bene. Poi, una volta scoperto il misfatto, si diede in pasto all’opinione pubblica la storiella della fidanzata Annelise, corpulenta infermiera teutonica, che per amore fa scappare il suo uomo, ficcato con forza in una valigia calata dal terzo piano della stanza del Celio. Incredibile vero? Eppure fu la verità ufficiale, scritta per anni dai giornali, dai documenti giudiziari e da quelli parlamentari. Fino a quando non si seppe dell’Anello. La fuga di Kappler fu uno dei pilastri per ricostruire quel (poco ma non troppo) che si sa delle missioni di Adalberto Titta e dei suoi agenti clandestini.
Il medico che visitò Kappler durante la sua fuga si chiama Giovanni Rodolfo Pedroni, uno stimato urologo morto solo poco tempo fa: un professionista che si mise a disposizione. Alto ed elegante, fondò uno dei primi circoli di Forza Italia nel capoluogo lombardo. Quando lo incontrai fu molto gentile e affabile, avendolo io cercato per mesi in tutti i Rotary club del Nord Italia. Era piuttosto orgoglioso di quella sua appartenenza, tutti gli uomini dell’Anello lo sono stati: del resto, l’Italia non ha mai conosciuto fascisti pentiti.

il Fatto, 15.08.2023