Rossana Rossanda - Valentino Parlato

Ungheria 1956

Caro Valentino,

non sono d'accordo. Che cosa c'è stato di magari brutale ma geopoliticamente necessario, nell'invasione dell'Ungheria, che tu ritieni giustificata allora e valida ancora oggi? Non il socialismo, ammetti, non aveva niente a che vedere. Dunque con la sicurezza dell'URSS? Non mi consta che l'Occidente stesse per invadere l'Est, salvo che con il mercato, così come è una favola che l'URSS volesse arrivare all'Atlantico. Era in gioco l'egemonia sul modello sociale europeo. Nel 1945 l'URSS l'aveva e nel 1948-1949 l'ha perduta. Un paese, e tanto meno un campo, non si tiene con la repressione e soltanto militarmente. In questo modo si coltiva l'odio e appena si apre un pertugio, passa una insorgenza. Che può anche essere manovrata. È un errore clamoroso.
Una delle ragioni della crisi dell'URSS è proprio l'incapacità di egemonia sia nell'Europa dell'est, sia nelle sue zone di influenza fuori del continente. Diventa evidente proprio nell'allargarsi del «suo campo». Mi fece inviperire Francois Furet quando scrisse che mentre la rivoluzione francese aveva lasciato dietro di sé un lascito decisivo, Lenin nulla aveva lasciato. Aveva ragione. Ma la devastazione seguì il 1945. Prima, malgrado il sangue sparso all'interno, i popoli dell'URSS costruirono un avvenire e si difesero con le unghie e con i denti dal nazismo, dandogli il colpo fatale a Stalingrado. È la gestione del dopoguerra che è stata disastrosa. Che resta in Russia, in Polonia, in Cecoslovacchia, eccetera? Non una minoranza dei comunisti, nessun comunista, né socialista, né idea di progresso. O guardiamo la Gorgone in faccia, o pestiamo l'acqua nel mortaio.
Quanto alle recenti conversioni dei dirigenti comunisti, sono d'accordo con te. Ma non è certo che, se nel 1956 avesse detto «no» come Di Vittorio, Napolitano oggi non sarebbe presidente della Repubblica. Lo sarebbe stato anche prima. Ma è secondario. Un «no» ragionato del PCI - ragionato significa che non balzava a piedi uniti dall'altra parte come nel 1989 - ci avrebbe rafforzato. Così la famosa barricata, nota come il Muro di Berlino, non ha retto che venti anni - che storicamente parlando è un battito di ciglio.

Rossana


Cara Rossana,

innanzitutto grazie per l'attenzione e aggiungo che qualche diverso parere si può avere in quasi quaranta anni di lavoro comune, e nei momenti più difficili siamo stati sempre uniti, così come ora, pur dissentendo.
Forse nel mio scritto mi sono espresso male. L'intervento dei carri armati sovietici a Budapest non lo ho affatto condiviso, ma ho ritenuto realistica, e quindi politicamente giusta, la scelta del PCI e di Togliatti di non condannare e di non rompere con l'Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il PCI, per l'Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista.
Ma poiché la storia si fa con i se, tu hai scritto che se il PCI avesse trovato la via di un dissenso senza rotture sarebbe stato meglio per tutti.
Forse hai ragione tu, in quel caso tutto sarebbe andato per il meglio. Ma nella situazione data - sempre a mio parere - quella era un'ipotesi dell'impossibilità.
E non è un caso, ma per una scelta razionale che siamo rimasti nel PCI.
Altro era il contesto ai tempi di «Praga è sola», quando non rimanemmo nel PCI e Enrico Berlinguer fece passare un bel po' di anni prima di dire che la «spinta propulsiva» si era esaurita.
Pensando a Furet e alla rivoluzione del 1789, mi viene da dire che siamo nella stagione della Restaurazione, quando sembrava che il lascito della rivoluzione fosse stato distrutto. Cercare ancora, ci diceva Claudio Napoleoni, anche la luna.
Ma questo, forse, è un altro discorso.
Un abbraccio

Valentino

il manifesto,  26 Ottobre 2006

 

Pietro Ingrao

Dialoghetto sul '56


Giuseppe
Quanti anni son passati?
Pietro Diciamo mezzo secolo. Esattamente cinquantaquattro anni e undici mesi.
Giuseppe Già... Tu lo chiamasti: "l'indimenticabile 1956". Esageravamo sempre. Esagerati e apocalittici.
Pietro C'entrava il cinema anche in quel caso. Rammentavo il titolo di un film del primo cinema sovietico: L'indimenticabile 1919 . Riguardava la guerra civile contro i bianchi. Il nome di quel regista cercalo tu. L'occasione in cui ricorsi a quella civetteria letteraria era amarissima. Discutevamo alla Camera dei deputati sulla impiccagione di Imre Nagy, il leader della rivolta ungherese del '56, caduto nelle mani dei sovietici dopo il soffocamento della rivolta popolare di fine ottobre...
Giuseppe Questo è l'epilogo. Partiamo dall'inizio. Se ricordo bene, il XX Congresso del PCUS si aprì a Mosca nel febbraio del 1956.
Pietro Sì. Alla fine del congresso, in una seduta a porte chiuse e riservata solo ai delegati sovietici, Kruscev tenne il famoso rapporto segreto sui crimini di Stalin.
Dopo la seduta Kruscev ne diede a leggere il testo a Togliatti e Scoccimarro, che guidavano la delegazione italiana. Non seppi, anzi non sapemmo mai, se Togliatti, in via di rientro in Italia, ne portò con sé una copia. A me, quando lo vidi al suo ritorno, non disse parola sull'evento.
Ma come "Unità" noi avevamo a Mosca un corrispondente molto intelligente e attivo, che aveva le sue fonti nel partito e nella società moscovita: Giuseppe Boffa. Ebbi da lui le prime notizie e indiscrezioni (se vogliamo usare questa parola curiosa) sul rapporto di Kruscev. Ne parlai subito con Togliatti, che fu assolutamente sibillino. Né disse in proposito alcunché nemmeno in quella sua relazione sul XX Congresso che tenne al Comitato centrale del partito in febbraio.
Furono giorni incredibili per noi all'"Unità". Avevamo la precisa, ripetuta conferma da Boffa. E tutta la stampa d'Occidente ormai discuteva sull'evento clamoroso: l'eco era enorme.
Solo a marzo potemmo dare la notizia che il rapporto sui crimini di Stalin, sì, esisteva. Fummo il primo e unico giornale comunista a dirlo in quell'inizio di primavera. Davvero una triste consolazione.
Ad aprile, quando già il mondo era in subbuglio, si tenne a Livorno il Consiglio nazionale del partito, convocato per le elezioni amministrative di primavera. Togliatti fece la relazione, e ancora una volta, tra lo stupore e lo sconforto generale, tenne la bocca chiusa sull'evento che scuoteva l'URSS e il mondo.
Nei corridoi di quella sala livornese si riversò una massa di delegati sconcertata e in rivolta. Poi il dibattito esplose nell'assemblea, Amendola e Pajetta avanti a tutti.
Giuseppe Hai capito in seguito il perché di quel silenzio assurdo?
Pietro Sono convinto che Togliatti attendesse un'iniziativa da Mosca. Da ex-cominternista, avvezzo al segreto e però anche alla corresponsabilità, di sicuro attendeva una convocazione, o un incontro, dove discutere insieme l'accaduto e il da farsi: il modo con cui gestire insieme l'evento incredibile. C'era poi in lui - lo vedemmo pressoché subito - il dissenso sul modo e sui contenuti. Ma di certo gli sembrava impossibile che il vertice comunista mondiale non fosse chiamato a discutere - se mai in forma ristrettissima - come gestire le rivelazioni su Stalin (la storia di mezzo secolo, in fondo).
Quando poi egli verificò amaramente che la chiamata a Mosca, o in qualche altra capitale dell'Est d'Europa, non veniva, decise di rompere lui il silenzio del comunismo d'Occidente. Fu l'intervista a "Nuovi argomenti". La mandò in lettura ai membri della direzione, con l'aggiunta (riottosa e furente) che in ogni modo egli non era disponibile per alcuna modifica.
Ma perché mi trascini a ripetere cose che ormai stanno in tutti i manuali di storia europea del Novecento?
Giuseppe Dimmi però perché mantieni ancora l'aggettivo 'indimenticabile' vicino a quel '56.
Pietro Perché dal seggio più alto del mondo comunista veniva gettata una macchia terribile sulla mutazione più grande del primo mezzo secolo.
Giuseppe Per me, per te la più grande...
Pietro Diciamo allora la più eversiva. Quel giornalista americano, che intitolò il suo libro Dieci giorni che sconvolsero il mondo, nei suoi modi aveva ragione. In quel fatidico 1917 una minoranza politica abbastanza ristretta - e pressoché sconosciuta al mondo - conquistava il potere nella Russia zarista, e dopo, in poco meno di un trentennio, estendeva il suo comando dall'Elba e da Vienna all'Asia centrale. Il mito di Stalin prima di tutto reggeva su questo dato nudo, brullo.
Giuseppe I costi però erano stati enormi. Si parla di trenta milioni di morti per l'URSS nell'urto con Hitler, ed è solo il dato della grande 'guerra patriottica'. C'erano poi i caduti di prima, nelle guerre civili e nelle repressioni. Bagni di sangue.
Pietro Cerco di capire perché quei costi e quelle catastrofi non fermarono la nostra fede.
Un secolo prima che io nascessi, all'alba dell'Ottocento, il socialismo quasi ancora non esisteva, o esisteva solo in piccole avanguardie, e progetti solitari. Nel 1956 invece, socialismo era la parola usata per indicare uno spazio che si spingeva fino alla grande Cina. Mao aveva vinto nel '49 non solo contro Chiang Kai-scek, ma contro l'America dell'atomica, e aveva fermato l'esercito dell'americano MacArthur sullo Yalu. Tre anni dopo, uno sconosciuto alla grande maggioranza degli abitanti del pianeta, Ho Chi Minh, a Dien Bien Phu umiliava la grande potenza coloniale francese e la espelleva dall'Indocina. Le forze che si dicevano comuniste ormai non erano più piccole avanguardie. Ma sistemi infracontinentali.
Giuseppe La vicenda dell'URSS però era tragica. Non solo quei morti di cui dicevamo prima. Le carestie, le prigioni. I lager.
Pietro Ricordo con amarezza il velo che accettai di stendere su quelle moltitudini di scomparsi.
Cerco di annotare gli eventi che sorressero le mie convinzioni, la fede, l'apologetica del Capo, il carisma del Partito politico. Ti ricordi il grumo di sentimenti, l'onda di simboli, evocati da quel soldato dell'Armata sovietica che issava la bandiera rossa sulla cima del Reichstag ?
C'erano stati due grandiosi scontri nel cinquantennio: due guerre mai immaginate nella loro furia dirompente. Una aveva veduto per la prima volta la minoranza comunista conquistare il potere in un grande Stato d'Europa. L'altra faceva dell'URSS la testa della seconda coalizione del globo. Su questo mutamento inaudito dei rapporti di forza mondiali poggiava il carisma di Stalin che veniva mandato in frantumi in quell'inizio del 1956.
Kruscev gettava un'ombra terribile e insanguinata sulla mutazione politica mondiale, avvenuta incredibilmente in appena mezzo secolo. Questo era il tema che veniva in campo col 'rapporto segreto'. E fatalmente scavalcava Stalin. L'avversario di classe aveva ragione nell'agitarlo clamorosamente.
Ed era abbastanza bizzarro spiegare l'anatema che si gettava su quell'uomo, attore fondamentale in un simile mutamento, con l'oscura categoria del 'culto della personalità'. Per materialisti, come noi ci definivamo, che diceva quella parola così lontana dalle categorie marxiane che c'erano care, quel termine: culto della personalità? Un difetto di strutture sociali, e quali, e come collocate, visto che quel vizio era stato capace di inquinare il percorso di una formazione storica che noi definivamo protagonista del secolo, e costitutiva di un ordine nuovo?
Giuseppe Ma perché allora fu così difficile avviare una discussione piena, a tutto campo? Era il retaggio dello stalinismo? Tu affermi che fu "l'Unità" l'unico giornale comunista che informò di quel fatto che pure veniva direttamente dai capi del Cremlino.
E tuttavia si può dire che pure voi dell'"Unità" davate l'impressione sconsolante di mettere una toppa? Lo dico io che nel tumulto di quei giorni cercai disperatamente di difendere Stalin...
Pietro Non solo tu. Io che pure nel partito stavo, per così dire, coi rinnovatori, difesi rabbiosamente l'URSS dagli intellettuali (quelli della lettera dei 'centouno'...), che invasero le stanze dell'"Unità".
E l'urto entrò anche in casa. Ricordi Lucio Lombardo Radice? Fu nel PCI un antistalinista che fra i primissimi praticò non solo la difesa, ma l'aiuto concreto alla dissidenza dell'Est. Esisteva fra noi un forte vincolo affettivo. Eppure fu la discussione acerba dentro casa.
Questo avvenne in cento città, in molte, tante organizzazioni del PCI; e ci furono molti, tanti difensori di Stalin in nome della rivoluzione e della tutela di classe.
Giuseppe Però le cose furono più intricate. Io ho nella memoria un velocissimo, incredibile intreccio di eventi. Rammento come mi aggrappai alla vicenda di Suez, quando l'URSS schierò la sua flotta contro gli inglesi e francesi sbarcati a Suez per rovesciare Nasser. Improvvisamente, a un passo da casa, tornava l'immagine dei sovietici come baluardo contro gli odiosi imperi coloniali.
Pietro Lo prevedesse o no, il rapporto segreto di Kruscev metteva in discussione gli assetti del mondo. E Togliatti era furente contro Kruscev, proprio perché aveva aperto quel terribile capitolo, senza calcolarne implicazioni ed esiti.
Del resto in ottobre quando scrissi sull'"Unità" quell'editoriale pessimo che aveva per titolo Da una parte della barricata , io stesso più o meno questo avevo in mente: piacesse o no, era venuta la prova delle armi (quella prova ultima che stava sempre nei nostri pensieri). E c'era da schierarsi nel proprio campo di classe.
Era elementare, ma in qualche modo coglieva il livello a cui era giunto o poteva arrivare il conflitto. Del resto ricordo nitidamente come io (e non solo io), quando ragionavo sul domani, avevo fermo nella mente che a un certo momento sarebbe venuta la prova dell'insorgenza, dell'urto armato.
Prima di Budapest c'era stata la rivolta di Poznan. Togliatti già allora aveva scritto un articolo furente che in pratica diceva: ecco i frutti amari, ecco il pericolo.
D'altra parte lo scontro armato, l'urto eversivo non poteva sorprenderci. Esso traeva le conseguenze della 'rivelazione' compiuta da Kruscev, dallo squarcio amarissimo aperto e sul senso e sulla natura del potere sovietico. Questo spiegava anche l'allarme dei fedeli di Stalin, si potrebbe dire: dei 'legittimisti'. Ma tutto ciò fatalmente conduceva a una risposta sbagliata.
Nelle cose che in quelle ore tragiche disse e scrisse Togliatti sicuramente restava ancora un vocabolario antico, quasi certamente consumato. E tuttavia penso che in lui, in quei giorni così dubbi, ciò che prevalse non fu la difesa del passato (anche del suo passato), ma la preoccupazione sul presente.
Spiego così lo scarto pesante che c'era tra l'apertura sulla ricerca critica, che egli mise in campo nel Comitato centrale del luglio '56, e la chiusa durezza che correva nell'articolo sulla rivolta di Poznan. La stessa durezza ingiusta che - parecchio dopo - egli ebbe (ti ricordi quell'articolo intitolato Irodalmi Ujsag ?) verso gli intellettuali ungheresi tragicamente coinvolti nella crisi e nella rivolta.
Sicuramente in quell'autunno, nell'area dei giovani dirigenti, io fui il più prudente, nonostante non fossi proprio uno stalinista, o tra gli amici di Secchia. Anzi non mi tranquillizzava che i krusceviani più scatenati fossero della destra del partito, anche i più riluttanti poi allo sviluppo della democrazia interna.
In ogni caso fu Togliatti - nel suo linguaggio un po' manierato, e calcolato - a segnalare il nodo storico messo in gioco. Lo enunciò asciuttamente prima ancora della ribellione ungherese, nell'intervista che rilasciò al "Borba", l'organo del Partito comunista jugoslavo.
Giuseppe Quando stava per incontrare Tito...
Pietro In quella intervista Togliatti ragiona sulle prospettive (o possibilità, o necessità) in Italia del 'salto rivoluzionario'. E a un certo punto afferma: "vi è [in Italia] una tradizione di vita parlamentare. Vi sono diversi partiti che affondano le loro radici in strati sociali della stessa natura... Tutto questo non può essere distrutto e bisogna tenerne conto... Proporsi di tagliare con l'azione violenta di una minoranza di avanguardia l'attuale nodo di soluzioni politiche e di organizzazioni della più diversa natura, da cui risulta la struttura della società e dello Stato, è impossibile [...].
Il ragionamento è tutto volto a motivare le ragioni (e diversità) delle vie nazionali. In questo senso era un ragionamento parecchio arretrato, in buona parte superato dal costituirsi dei due campi e dai processi irruenti di internazionalizzazione. Ma il suo discorso alla fine scavalcava la questione nazionale: affrontava nitidamente il nodo cruciale della relazione tra l'URSS e il blocco di nazioni raccolte nel suo 'campo'. Proponeva un 'policentrismo': la parola più avanzata - a mio avviso - che egli pronunziò in quei mesi. Ma rimase una frase presto appassita. L'URSS la respingeva furiosamente.
In ogni modo le nazioni che insorgono, ardono, in quel cruciale momento di verità sullo stalinismo, furono Polonia e Ungheria. Tragicamente nel '68 sarà la volta anche della Cecoslovacchia. E prima c'era stata la crisi con la Jugoslavia di Tito. Infine verrà anche l'urto con l'enorme Cina, dove una tradizione di 'vita parlamentare' non esisteva (o era stata diversa e brevissima) e storia e culture segnavano una differenza profonda dall'Europa.
Tutto questo non poteva essere tagliato con l'accetta dell'azione armata, per usare ancora una volta il linguaggio di Togliatti.
Giuseppe Se ricordo bene però Togliatti non solleva quel tema in termini di libertà...
Pietro La sua cultura è quella: un marxismo segnato prepotentemente dallo storicismo di casa nostra. Solo che il nodo che egli segnalava in quegli anni - a mio avviso - chiamava clamorosamente in causa non solo Stalin, ma lo stesso Lenin, e la sua pratica della minoranza armata che spacca in due il nodo della storia. Non era questo il volto dell'Ottobre del '17? E dunque era il leninismo, e non solo la degenerazione staliniana che veniva messo in discussione: la minoranza armata che risolve il conflitto.
Giuseppe Però il leninismo è anche la Nep: il soggetto rivoluzionario che misura le condizioni e le forze dello schieramento di classe, inventa e modula il compromesso. E sa anche arretrare al momento giusto. Togliatti era intriso di questo leninismo. E aveva letto anche Gramsci e il suo ragionamento sull'egemonia.
Soprattutto, se guardiamo fuori d'Italia, e proprio all'URSS, gli anni che immediatamente seguirono alla morte di Stalin furono tempi di grande apertura e di iniziativa mondiale. Non solo ci fu l'appeasement con Tito e il riconoscimento degli errori commessi, ma l'iniziativa in Oriente, la visita in India e l'incontro con Nerhu, tutta l'apertura verso il mondo dei 'non allineati', il sostegno all'indipendentismo africano, e poi ancora l'appoggio al Vietnam.
Pietro Sì, però gran parte di queste aperture presto, troppo presto si raggricciano. Nel continente latino-americano, dove pure esistevano radici terzinternazionaliste, via via esse rinsecchiscono, scavalcate dal 'guevarismo' o addirittura dal comunismo italianizzante. Ressero invece le alleanze con i movimenti di liberazione africani, ma più come aiuto materiale che come rapporto dialettico con le nuove insorgenze, che cercavano faticosamente una strada nell'enorme arretratezza di quel continente, dissanguato dal lascito dell' imperialismo europeo.
L'URSS dette soldi e armi. Ma non leggeva le culture africane. Non si misurava con le incredibili differenze e molteplicità di religioni e di livelli nei vari comparti di quel continente. Non c'era in ciò una conferma clamorosa della difficoltà a leggere e a reggere la diversità, e, forse ancora di più, a fecondare le culture di liberazione? In Algeria - luogo chiave del Nord Africa - Mosca non feconda nulla. Fa di più la sinistra europea...
Giuseppe Lì però c'entra il fondamentalismo islamico, un mondo a cui l'esperienza del sovietismo dice quasi nulla. Mi pare che il Partito comunista iraniano muore abbastanza presto.
Pietro In ogni modo i carri armati e la repressione a Budapest, e poi l'occupazione della Cecoslovacchia, prima ancora che diniego di libertà, sono una incomprensione clamorosa delle storie nazionali. L'attacco alle religioni cristiane ignorava grossolanamente le radici di credi millenari, e semplificava paurosamente lo scontro di classe. Scartava con mano pesante le vie di pensiero che in quella straordinaria metà del Novecento aveva sconvolto saperi, linguaggi, sentieri dell'espressione artistica.
È un particolare, ma è tragicamente illuminante, la solitudine di Brecht tornato dall'esilio americano nella Germania dell'Est duramente aggregata al campo sovietico.
Qui, per me, viene il nodo più intricato e tenace: in quegli anni della repressione ungherese e della aggressione alla Cecoslovacchia, come poteva reggere o addirittura concepirsi un 'campo' a guida di Mosca, che non sapesse comprendere e almeno rispettare la nuova complessità del Novecento, nelle sue sofisticate (proprio così) costruzioni politiche, o intrecci di convinzioni? E non solo modi di suscitare lavoro e innovazione, ma i grandi saperi della vita, le letture nuove della condizione femminile, le coesistenze di religioni, le ricerche inventive dell'espressione artistica. Sino al dilatarsi impetuoso delle forme di consumo e di servizi, che allora incantavano l'Occidente. Insomma non era in causa solo il principio di libertà, ma il volto della società novecentesca in Europa.
La questione del secolo, il grande tema del riscatto del lavoro - così significativo per la nostra identità di comunisti - non poteva camminare e tanto meno essere affrontato vittoriosamente se non si connetteva duttilmente a un progetto di vita, che parlasse ai molti volti e mondi in cui ormai si esprimeva il moderno. E per me in ciò stava la verifica della fecondità e capacità di presa del nostro classismo.
Giuseppe Va bene: insomma il cimento più largo col capitalismo. Noi però parliamo di un tempo in cui la grande fabbrica fordista è egemone nella società, in qualche modo ci coinvolge e ci affascina tutti. Aveva trascinato anche Gramsci.
Pietro Bene, io sostengo che quel nodo - così centrale, essenziale nel confronto di classe - non poteva essere letto e affrontato in separazione dal largo campo in cui si sviluppava e dilatava il ciclo vitale. Teniamoci a quel '56, lo sbaglio profondo delle barricate, che io pure evocavo per Budapest, stava nella dimenticanza colpevole di questa complessità del terreno e degli attori sociali e delle culture in campo. Quella complessità che pure io rivendicavo in Italia per la mia storia privata e le mie passioni civili.
Ricordi le cose che noi dicevamo sul cinema in Italia, a volte evocando proprio i primi maestri sovietici? Se non si trattava di un ghiribizzo personale, erano ricerche, discussioni, e progetti espressivi che investivano questioni di identità e libertà dei moderni. Come non vedere allora che Mosca nemmeno afferrava il sugo di queste domande e bisogni? E anche quando non li reprimeva, essi non stavano nella sua agenda... E allora come si poteva governare, o 'guidare' una parte così significativa d'Europa, se questi bisogni e questi mondi non stavano nell'alfabeto moscovita del tempo, e nel soggetto politico 'rosso' che ambiva addirittura a orientare metà del mondo? Qui era il punto vero in cui anche io e te sbagliavamo, o in ogni modo eravamo in grave ritardo.
Giuseppe Io però nel mio paese ho lottato per un altro comunismo. Fui duramente contro, quando Togliatti praticamente cacciò Vittorini. Ma ti faccio un'altra domanda: senza l'URSS e il suo peso militare e politico si poteva vincere in Vietnam?
Pietro Ti rispondo: no. E non si poteva nemmeno senza la Cina, che pure oggi sembra non avere più nulla a che fare con il comunismo. Infatti non per caso oggi il Vietnam - quel Paese incredibile che ha sconfitto non solo gli imperialisti francesi, ma anche l'aggressore americano - vive una rinascita difficile.
In ogni modo qui stiamo discutendo sulle cause della sconfitta storica subita dai comunisti di tutto il mondo, e se essa ebbe una tappa grave ed eloquente nella vicenda ungherese del 1956: proprio quando sembrava che l'URSS krusceviana e poi i suoi eredi stessero recuperando nello sviluppo dell'economia sovietica dopo la crisi spaventosa degli ultimi anni di Stalin, dimostrando anche forza e mente e iniziativa per promuovere quell' appeasement con il grande antagonista d'Occidente.
Quelle dirigenze purtroppo restavano glacialmente irrigidite (e anche rinsecchite) nella incomprensione delle differenze e delle articolazioni, in cui ormai si dispiegavano le straordinarie invenzioni del Novecento.
Il monolitismo, la potenza armata, la passione dei pionieri, che avevano sorretto il successo e l'ardimento di quella minoranza comunista germinata nel '17, risultavano poi incapaci di reggere la vastità del loro potere: prima di tutto la varietà e la complicazione dei livelli in cui si articola la drammatica vicenda del Novecento.
Giuseppe Beh, l'antagonista americano non era dolce. E non sto parlando dell'Fbi e della 'Gladio' italiana. Vedemmo nel Vietnam l'assurda brutalità con cui gli Usa intervennero a sostenere un potere impossibile: sino all'ultimo minuto, all'ultima goccia di sangue.
Pietro Stiamo discutendo dei nostri errori, e degli errori della mia parte. Anche perché noi, più dei nostri avversari, avevamo bisogno di alleanze e fratellanze cento volte più estese, cento volte più inventive di quelle che il capitalismo s'era costruito per sé in secoli e secoli di storia.
Prima, a riguardo di Togliatti, parlavamo ancora di vie nazionali al socialismo, e ci sembrò una lettura ardita, e originale. Queste parole oggi, all'inizio del Duemila, appaiono così vaghe, malinconiche...
Giuseppe Mi dà un po' di fastidio questa reprimenda fatta, per dire così, ai nostri padri. Infine essi hanno dovuto combattere dispersi nell'esilio, e quando non era affatto sicuro che l'URSS potesse reggere, quasi isolata com'era nel mondo, dinanzi al dilagare del fascismo. Noi oggi in Italia non siamo capaci nemmeno di riunirci in una robusta minoranza: ci dividiamo in chiese e chiesine, abbrancati alle nostre varianze e divergenze. E non abbiamo più nemmeno un collegamento internazionale riconoscibile. Va bene l'apologia di Seattle. E tuttavia è ancora solo un incontro di frammenti, divisi nella ideologia e nella pratica.
Pietro Hai nostalgia del monolitismo?
Giuseppe Non dire stupidaggini. Dimmi invece: per te la forma 'partito' è proprio morta?
Pietro Ti sbagli. Non m'incanta per nulla la frantumazione, o - se preferisci - addirittura la dissipazione attuale a sinistra. Cerco soltanto di capire perché e dove sbagliammo in quella metà del secolo cruciale, quando pressoché un terzo del mondo appariva sotto egemonia comunista (almeno tale era il nome). In quella fascia enorme del globo le differenze di lingue, costumi, relazioni sociali erano quasi abissali.
E a leggere differenze e vicinanze era indispensabile un vocabolario politico articolato, che tenesse estremo conto delle varietà di suoni e di segni, di livelli di saperi, di molteplicità di credi, e mescolanze di città e di campagna. La vittoria militare si sarebbe dovuta presto tramutare in invenzione civile, in capacità di articolazione dei progetti sociali. Sia chiaro. Sto facendo autocritica. Parlo di me prima di tutto.
Ma tale era il tema vero con cui era chiamata a misurarsi la vicenda della rivolta di Budapest, in quell'"indimenticabile 1956". E così tenace esso era che presto, prestissimo tornò nelle vie di Praga. E più tardi l'esercito sovietico non entrò in Polonia, solo perché - come disse poi Suslov: in Polonia no: non si poteva.
A Budapest, in quel '56, più ancora che una questione di libertà, veniva in livida luce la capacità o meno dei bolscevichi, e anche di noi, piccoli comunisti italiani, di ragionare e agire su questa varianza di culture e di saperi, in cui si articola la modernità al punto in cui l'avevano condotta il capitalismo, e anche l'iniziativa e la pressione dei proletari di tutto il mondo, se è vero che parte di quell'invenzione sgorgava dalle lotte del movimento operaio. E il tema era talmente ineludibile, e così depositato, che il non averlo affrontato nella sua polivalenza portò alla sconfitta totale. L'Afghanistan era Asia. Ma in fondo parlava anche dell'Europa, e seguiva alla vicenda europea.
Questo, per me, era profondamente sotteso alla vicenda di Budapest, che io ridicolmente in quell'ottobre '56 rappresentavo con la letteratura della 'barricata': parola così suggestiva nelle memorie sentimentali, e così cara agli europei. E tuttavia così semplificante rispetto alla corrusca ricchezza di relazioni al tempo del fordismo. Figuriamoci quando poi è venuta quella versione ancora più articolata e cangiante del capitalismo, che tuttora ci limitiamo a segnare con un 'post'. Appunto: post-fordismo. E non siamo nemmeno d'accordo veramente nell'indicare il reale che sta dentro quel 'post'.
Giuseppe C'era allora una verità nella tesi della diversità delle vie del socialismo?
Pietro A dirla tutta su questo problema delle vie io, alla mia età, brancolo; e non mi aiuta gran che nemmeno il bastone. Ho compreso tardi, e a fatica, che in Unione Sovietica c'era soltanto una forma assolutamente inedita di capitalismo di Stato, cosa parecchio diversa da qualche avvio, sinora a noi sconosciuto o almeno dubbio, di socialismo. Lo slancio propulsivo di quella stella rossa sul Cremlino era finito parecchio prima che lo riconoscesse Berlinguer.
Ma anche qui le semplificazioni unilaterali non aiutano. È innegabile - almeno per me - che dal '17 sovietico sia venuto uno straordinario impulso alle lotte del movimento operaio mondiale, anche quelle che respingevano l'ideologia dell'Ottobre sovietico. Inoltre quel capitalismo di Stato, impiantato nella Russia dagli zar, di fatto è risultato decisivo e necessario per strozzare la violenza apocalittica dello hitlerismo. E tante persone in questo vasto mondo hanno strappato conquiste democratiche e dato la vita per la libertà, avendo - come si dice - il nome di Lenin o di Stalin sulle labbra.
Infine, quando l'Unione Sovietica si è sfasciata in cento pezzi, tutta la sinistra del mondo ha pagato per quella sconfitta. La parola socialismo si è impallidita e ha perduto credito. Oggi viene ancora usata, ma per indicare un'altra cosa. Oggi Enrico Boselli si chiama socialista, e forse - credo - anche Massimo D'Alema. Ma tutti sanno che parlano d'altro. Per non dire di Bobo Craxi.
Giuseppe Tu pensi che sia incominciato da quel '56 l'impallidirsi di questa parola...
Pietro Non proprio. Guasti profondi c'erano già prima, quando io nella mia gracile fede non li sapevo vedere.
Ma la prova del '56 fu dirompente, proprio perché essa sgorgava dopo una grande vittoria militare e politica sulla 'reazione' (secondo il vocabolario che usavamo allora), e un incredibile dilatarsi della bandiera rossa (questo simbolo che ancora oggi regge: dopo secoli!) su quasi la metà del globo.
Ma il '56 fu una grave cartina di tornasole per verificare quanta capacità c'era in noi tutti di consolidare e dilatare la vittoria enorme che era stata strappata sulla reazione, e lo spazio che si apriva all'invenzione e alla verifica di noi stessi.
Invece persino sul comunismo eretico all'italiana, quanto faticai io per giungere a rivendicare il 'diritto al dubbio', pure così necessario vista la straordinarietà e l'azzardo di quella nuova società da costruire.
A dire la verità quel quattro novembre del '56, quando - sfondate le barricate (vere) ungheresi - i carri armati sovietici entravano a Budapest, girai per ore e ore per le vie di Roma prima di presentarmi all'appuntamento con Togliatti, e dirgli il mio sconcerto e il mio dissenso. Ed era appena un barlume, presto - in me stesso - lasciato in un canto, in attesa di giorni belli da venire.
Giuseppe Non metterla al patetico. Questo fummo.


Rossana Rossanda

Ancora sul '56

Pietro Ingrao e io abbiamo in comune la guerra e la vicenda del PCI dal 1943 al 1969. Il filtro è simile. Ma è in parte diversa la memoria del 1956. Provo a confrontarle.
Il 1956 comincia nel mio ricordo con un salto nella speranza, una accelerazione positiva. Fino ad allora - per noi che non avevamo vissuto le lacerazioni degli anni venti e trenta - l'URSS era il 1917, il primo Stato socialista, una società più povera (non eravamo idioti) ma più giusta, la Stalingrado che aveva rotto le ossa alla Wehrmacht, grande paese, grande alleato dei suoi stessi avversari contro il nazismo. Ma nel dopoguerra ne arrivavano eco pesanti: la condanna della Jugoslavia, il colpo di Praga, poi l'impiccagione di Raijk e simili. Non dovetti scriverne né parlarne, non so che avrei detto. Le mettevamo in carico della guerra fredda: era spietato l'itinerario che quelle società dovevano subire e far subire. La storia non è innocente, da les mains sales non si scappa.
E il nemico c'era, lo stesso che sentivamo addosso in quella guerra fredda, che non fu né la passeggiata che a volte si dice, né il dilemma fra due lealtà che, secondo alcuni storici dell'Istituto Gramsci, ci avrebbe dilaniato. Governo e padronato l'avevano bell'e risolto: democrazia sì, comunisti no. Neanche se fossimo arrivati al 51% dei voti saremmo arrivati al governo, naturalmente nessuno lo ammetteva. Lo percepivamo e dopo il 1989 alcuni illustri padri della Repubblica hanno confermato che sì, era ovvio, giocassimo pure alle elezioni ma al dunque si sarebbe visto. Avevano dunque qualche ragione i partigiani che ancora riunivano, tale e quale Enrico Mattei, alcune formazioni con la bandiera e non avevano consegnato le armi? Se avessimo vinto ci sarebbe stato un colpo di Stato e ci avrebbero ficcato a Capo Marongiu? Mah! A me pare di non averci mai creduto, ma forse mi aggiusto la memoria. Intanto dalla maggioranza eravamo ben lontani, socialisti inclusi - le elezioni del 1948 ci avevano impartito una sberla tremenda. A me sembra che lavorassimo, a testa bassa e per nulla infelici, non nell'attesa dell'ora X, folclore plebeo, ma nella persuasione che la guerra fredda sarebbe finita, l'anticomunismo prima o poi sarebbe ragionevolmente caduto. E infatti nei primi anni sessanta ci fu un mutamento degli orizzonti con Kennedy, Giovanni XXIII, la crisi del centrismo, le riforme imposte a Fanfani e poi quelle del centro-sinistra, insomma un trascolorare del senso comune e delle culture. La verità è che dal 1945 ad allora e oltre il PCI rappresentò la spinta a una trasformazione che maturava nel secolo e come tale fu recepito, fino alle lacrime di Moro, salvo da personaggi leggeri alla Cossiga. Ma sorvoliamo. Del resto poi tutto si radicalizza a destra e a sinistra e l'URSS si fissa nella glaciazione brezneviana.
Ci davamo dunque da fare fuori dai palazzi del potere a organizzare la gente, a sostenere le lotte, a cambiare molecolarmente la stoffa del paese, poi - democrazia progressiva o avanzata o quel che fosse - si sarebbe visto. Ma intanto dovevamo strappare anche il permesso di manifestare, la fabbrica teneva fuori noi, i sindacati e «l'Unità». Io vengo dagli anni delle schedature, degli operai perquisiti, degli spazi interni vietati, dei compagni cercati negli intervalli di mezzogiorno mentre si addossavano al poco sole d'un muro esterno dell'azienda a mangiarsi la deprimente gamella, o catturati mentre correvano al tram del rientro, o la sera giù nelle sezioni in scantinati senza stufa. Mi hanno tolto anche il passaporto - a me che non ero nessuno. Quando si parla di consociativismo mi fanno ridere. E la censura? La polizia chiudeva appena poteva perfino le serrande della Casa della Cultura, e non era permesso proiettare neppure Eisenstein.
Nel 1956 erano finite da sette lunghi anni le grandi battaglie sindacali, schiacciate a Milano dopo la Breda nel 1949 e in genere dopo la botta clamorosa alla Fiat. Ci aspettava una scadenza amministrativa nazionale, le ultime politiche erano andate molto meglio che nel 1948, ma a Milano i socialisti restavano più forti di noi. Se pensavo all'Est, era per augurarmi che non succedesse niente: nel 1948 ci avevano fatto più male le forche di Praga che la scomunica.
Ed ecco che nel febbraio 1956 il XX Congresso prende di sorpresa, mi pare, anche il PCI. Il campo socialista - annuncia Kruscev - è ormai un sistema mondiale, la guerra non è più inevitabile, ogni paese avrà la sua strada al socialismo. Non è cosa da poco, né sotto il profilo politico né sotto quello storico. Per il PCI è miele. Il mondo, piaccia o no, ne prende atto.
Nella relazione Kruscev ha fatto anche un'ammissione grave e liberatrice: è venuta meno una direzione collegiale per l'illecita prevaricazione di Stalin ed è stata più volte violata la legalità socialista. Di questo «l'Unità» parla soltanto il terzo o quarto giorno, dopo l'intervento di Mikoyan che rilancia. Quando leggemmo l'intera relazione ci siamo detti: ecco una società capace di riformarsi! E se non mi inganno - io vivevo più di altri compagni milanesi in mezzo alla gente - così venne accolta anche dalla sinistra non comunista: penso ai socialisti o a Isaac Deutscher, la cui analisi fu determinante. Naturalmente ci rimproverarono la passata sordità, ma un peccato corretto non mette a tacere nessuno.
Certo, bisogna vedere quale peccato. Qualche giorno dopo si saprà che c'è stato un secondo rapporto di Kruscev. Pietro Ingrao ricorda che Boffa lo avvertì, «Ci sono cose terribili», ma questo sull'«Unità» non traspare: nella splendida capacità di dire e non dire, il nostro quotidiano scrive che c'è stata, oltre alla consueta sessione per le nomine al CC, una sessione riservata per discutere della direzione collegiale, punto. Senonché il PCUS ne discute in tutte le sue sedi (come lo abbia fatto senza pubblicare il rapporto resta per me oscuro) e ne filtrano notizie sulle quali gli altri giornali cominciano a strillare. «L'Unità» definisce il tutto come una campagna bieca e menzognera, attuata per attaccare un paese e un partito ormai più forti e tentar di separarci dai socialisti.
E così procedemmo sino alle elezioni di fine maggio, che non andarono malissimo. Perdemmo dei voti ma li presero i socialisti, indietreggiò un poco la Dc ma avanzò Saragat. Per cui tutti si dissero soddisfatti. A Milano però avevamo perduto più che altrove ed era convocato il Comitato federale per discuterne quando, un bel giorno dei primi di giugno, il «Punto», mi pare, pubblicò di colpo l'intero rapporto segreto.
E quella sì fu una bomba. Quel che Kruscev aveva detto pubblicamente ci sembrò una riduzione mostruosa. Altro è dire che Stalin poco si curava dei pareri dei compagni, altro che aveva fatto ammazzare Kirov. Un conto è tenere in non cale la direzione collegiale, un conto far fucilare novanta su poco più di cento membri del Comitato centrale del 1934 (quello del Congresso dei vincitori, della ritrovata unità!). E i processi del 1936, '37 e '38 non erano quel che si era creduto. E liquidando Tuchacevskij, Stalin aveva permesso che la Whermacht arrivasse alle porte di Mosca. E poi aveva fatto deportare intere popolazioni dell'URSS.
Dura necessità? Errore? «Quando si abbatte una foresta volano le schegge», come scriveva Arturo Colombi? Ammazzalo! Erano tragedie, delitti. Ci dividemmo sordamente fra chi diceva «taluni errori», «errori e colpe», «colpe e delitti». Il rinvio al `culto della personalità' non era insufficiente, era tremendo: come diavolo un grande partito s'era piegato a una tirannide personale? Nel socialismo, nella democrazia sostanziale?
Di quelle pagine devastanti «l'Unità» non dette notizia, né direttamente né indirettamente, né durante né dopo; l'«Avanti!» aspettò venti giorni per farne uscire una corretta, seria silloge, a firma di Nenni. Noi niente. Il rapporto segreto era stato pubblicato a metà settimana, la polemica infuriava, il sabato si riunì il Comitato federale di Milano, Alberganti fece la relazione, Secchia gli era seduto accanto. Del rapporto segreto non una parola. Cominciò una surrealista discussione sul voto, finché Silvio Leonardi, che era un ingegnere, Antonio Pizzinato, che era operaio alla Borletti e io che ero un'intellettuale qualsiasi intervenimmo: «I casi sono due: o il rapporto è un falso e “l'Unità” lo deve smentire o è autentico e lo doveva pubblicare». Silenzio degli altri. La risposta fu di Secchia, sprezzante, e rivolta a Pizzinato che come operaio doveva parergli più colpevole di due intellettuali: «Anche l'ultimo dei cretini è in grado di fare domande cui il più intelligente degli scienziati non è in grado di rispondere». Più che la logica, alquanto debole, ci colpì l'ira, il disprezzo. (Di Secchia, spedito pieno di risentimento a Milano dopo il 1954, non ho la memoria angelicata degli amici che hanno curato il volume degli «Annali» Feltrinelli, fondato sul suo diario, i cui vuoti non cessano di stupirmi).
Poco dopo ci fu il Comitato centrale dove Togliatti disse il famoso: «Non sapevamo e non potevamo immaginare». Non aveva saputo né immaginato dall'Esecutivo dell'Internazionale comunista? Ma rispondeva su «Nuovi Argomenti» con un'intervista che leggemmo come un'ammissione e un atto di personale coraggio, che presto si fondò sulla leggenda - non so quanto vera - che in sede di direzione i vecchi non gliel'avrebbero mai passata. Da quel momento i `giovani' del centro, specie gli Alicata e gli Amendola che salivano spesso a Milano, ci trasmisero l'immagine d'un Togliatti deciso a innovare alle prese con una resistenza interna: non sapevamo, e non ci dissero, che nel 1951 la Direzione aveva risposto sì a Stalin che chiedeva di spostarlo al Cominform, e lui se ne era faticosamente schermito. Ma a Milano potevamo ben capire: era una federazione arroccata, di figure pesanti, Alberganti, Giovanni Brambilla, il vecchio Nicola, Alessandro Vaia, i Nigretti, i compagni del sindacato, tutti poco inclini a conoscere e ascoltare, che ricordo però come gente integra, una virtù che oggi mi sembra non da poco. Uno solo, il vecchio Invernizzi della CGIL, mi disse con voce strozzata sull'orlo d'una porta: «Essere messi al muro dall'avversario è dura ma dai compagni...». In ogni caso l'intervista su «Nuovi Argomenti» restò quella della «degenerazione nel sistema», come diceva Togliatti, o «del sistema», come aveva scritto Nenni nell'altrettanto famoso Luci ed ombre. Nel o del, degenerazione era.
L'estate venne nervosa. A fine giugno avvennero i fatti di Poznan - più di cinquanta morti - il PCI inaugurò la tesi: c'è stato un ritardo nel rinnovamento dei gruppi dirigenti, sul quale giocano i provocatori, e diversi proletari se ne fanno trascinare. Capire, reprimere, rinnovare: si seppe che il rapporto segreto era stato fatto arrivare negli Stati Uniti da Kruscev; dunque aveva anche lui un contenzioso interno difficile. In quella prima metà dell'anno andò in pezzi l'idea del partito e dell'URSS uniti e compatti. E smettemmo di parlare lo stesso linguaggio fra noi, con qualche compagno del centro e con la base. L'età dell'innocenza era finita.
Ma ci davamo degli incoraggianti distinguo. «Rinascita» nominò il `secondo rapporto' di Kruscev - che si supponeva noto grazie all'avversario, visto che non lo pubblicavamo, anche se, a differenza de «l'Humanité», «l'Unità» non disse, o cessò prestissimo di dire, che era un falso americano. Per cui divenne una di quelle verità che non si dicono, «pour ne pas désespérer Billancourt», come avrebbe detto Sartre. Fu un grande errore cui partecipai, e sarebbe stato mortale.
In Polonia e Ungheria cambiavano i gruppi dirigenti, tenevamo le orecchie ritte, Pajetta ci canzonava: «Siete tutti un chi apre? chi chiude?». La Polonia continuava a mutare, temevamo che si muovesse Rokossovski - quante cose avevamo imparato in quei mesi - Rokossovski non si mosse, arrivò Gomulka del quale non ricordo che ci fosse stato detto che era stato espulso dal partito che era richiamato ora a dirigere, filtravano voci di consigli operai e riviste che il PCI non apprezzava ma dei quali alcuni di noi, già avvezzi a più d'una verità, erano curiosissimi. Da Cecoslovacchia e Germania silenzio.
Poi l'Ungheria si mise a urlare. La voce era spesso anticomunista: per noi c'era differenza. Tuttavia l'articolo di Togliatti su «Irodalmi Uisag» ci fece digrignare i denti ed è allora che partì la discussione più acerba, e non senza morti e feriti. Come!? A Budapest non era un gruppetto, né solo gli intellettuali del Circolo Petöfi, era la più grande fabbrica che insorgeva, una intera classe operaia. Che succedeva? E si sussurrava che l'URSS poteva mandare l'esercito, ma Lenin non aveva detto che una rivoluzione non si esporta con le baionette? Il 30 ottobre l'URSS dichiarò solennemente che mai e poi mai avrebbe invaso. Tirammo un respiro di sollievo, giusto il tempo per essere svegliati il 4 novembre dai carri armati a Budapest e dalle sparatorie che li accolsero. Buon Dio!
Restammo inchiodati. Gridavano gli avversari, il padronato lanciò agli operai: «Scioperate per i vostri compagni di Budapest!». E forse gli operai avrebbero scioperato - il comunicato della CGIL, scritto da Di Vittorio, fu una cosa seria, non apprezzata in via delle Botteghe Oscure - se il suggerimento non fosse venuto dalla Confindustria. Non scioperarono ma si lacerarono fra comunisti e socialisti, sinistre e cattolici. Avevamo messo degli anni a ricucire dopo il 1949 qualche filo, le Commissioni interne, e adesso si spaccavano fra odio e angoscia.
Socialisti amici e democratici e antifascisti mi caddero addosso, la Federazione era asserragliata e chiusa, la Casa della Cultura restò aperta mattina e sera; ero stata soprattutto io a ritessere i rapporti spezzati nel 1948. Dove venivano a protestare, ad accusare? Da noi. Franco Fortini mi telegrafò: «Spero che gli operai vi spacchino la faccia». Fedeli almeno al motto `non scappare', organizzammo in quella baraonda una discussione con socialisti e terze forze, da Roma venne Alicata. Quella sera io ero andata alla Sezione della Brown Boveri, dove avevo trovato di tutto - quelli che si disperavano, quelli che reputavano l'invasione giustissima, quelli che sostenevano che non era vero niente. Ma a mezzanotte bisognava prendere l'ultimo tram e correndo alla Casa della Cultura trovai ancora una lunga coda fin fuori e scendendo le scale mi arrivò la voce di Alicata che gridava: «... perché in questo momento l'esercito sovietico sta difendendo l'indipendenza dell'Ungheria!». Seguì un ruggito.
Non finì presto, la gente sfollò esacerbata. Ma non ci eravamo sottratti a niente e questo fu l'unico investimento a rendere. Mazzali della Federazione socialista, Musatti e Arnaudi non lasciarono l'istituto, Fortini si ammansì. L'Italia degli anni seguenti vide da Milano il declino del centrismo e su questo tornò a convergere l'attenzione.
Ma nel Partito non fu mai più come prima. Proteste, allontanamenti, la frattura con chi si aggrappava alle ragioni dell'URSS come se sentisse mancare l'ultima zattera. E qualcuno fra i rodaniani e alcuni grandi intellettuali, Concetto Marchesi e Augusto Monti, agitava una dubbia bandiera: quante storie, la rivoluzione non è un balletto, la democrazia viene dopo, è di destra. Non mi piaceva. Ma quale beltà della repressione, noi avevamo parlato d'un altro mondo, parlavamo d'un altro mondo. Si doveva far fronte, ma non si poteva declamare.
Io ero una dirigente federale di mezza tacca, avevo imparato a tenere i nervi a posto e ordine in un'assemblea, ma da dieci anni era come scalare una montagna ed essere regolarmente buttati giù. Il più pesante fu tra me e me: la vicenda ungherese si è coagulata nella mia mente in una fotografia, un funzionario appeso a un fanale davanti alla Csepel, il collo spaccato e il volto scomposto dell'impiccato, mentre sotto di lui un paio di operai della grande fabbrica in rivolta ridevano. Fu la prima volta che mi dissi: - Ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano.
Non sono mai stata populista. Non può esserlo chi è venuto alla politica dal rifiuto del fascismo; avevo conosciuto il poveraccio fascista, quello che s'era messo nella milizia nel 1944 perché non sapeva dove altro andare, conoscevo chi al Sud si faceva carabiniere o seminarista non avendo altre scelte ma poi diventava molto prete e molto carabiniere. Le scelte prima le facciamo e poi ci fanno. Il povero e l'oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto, lo pensavo e lo penso. E quello era un odio massiccio, sedimentato; non si arriva a queste enormità senza un'offesa lungamente patita. In quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo trentadue anni.
Non ho mai pensato di lasciare. Come Ingrao, si parva licet. Ma le domande che mi rivolgo sono in parte diverse da quelle che si scambiano sulla «rivista» Pietro e Giuseppe.
Primo. Ingrao si sente ingannato dal silenzio di Togliatti. Sommessamente discuterei: ammettiamo, l'orribile Togliatti ha nascosto tutto. Sappiamo che spudoratamente mentì nel 1956, avevano taciuto o mentito lui e Dimitrov e Fischer, si dicevano le cose e le paure sottovoce al buio e altrove, nessuno essendo al riparo dal sospetto. Ma è proprio vero che noi più giovani nulla potevamo sapere né immaginare? Dei campi si era cominciato a leggere su fonti non sospette. Di Tito, di Djilas il cui libro era uscito, di Praga, del 1951 non ignoravamo tutto: non andammo a vedere, non ci interrogammo, non interrogammo. O sì? Quando? La verità è che si vede quel che si aspetta di vedere, quel che è tollerabile, quel che pare aiutarci a vivere, a batterci. Se siamo stati ingannati, ci siamo volentieri lasciati ingannare.
Secondo. Facciamo l'ipotesi che avessimo saputo e immaginato, che Togliatti avesse detto tutto almeno al gruppo dirigente, che il partito russo ci avesse sbattuto in faccia tutto e sempre, che avremmo fatto? Avremmo detto nel 1948 o nel 1951: - Oddio! Questo non me lo dovevate fare, lascio? Se avessimo avuto chiaro quel che ci è chiaro adesso? Se per magia ci fossero apparsi i campi di Vorkuta e i corpi rappresi nel ghiaccio sul quale si muoveva Solgenitsin? Del resto, che facemmo quando il rapporto di Kruscev lasciò ben poco all'immaginazione? Tenere o lasciare? Abbassammo la testa sotto la grandinata e tenemmo.
Terzo. Ma come tenemmo? Minimizzando, evitando di andare a fondo. E questo è stato il vero errore politico e, se vogliamo, etico. Dicemmo che la denuncia era rozza come se questo ne diminuisse la portata, e poiché in quei trent'anni successivi c'era stato anche ben altro - ed è vero - Stalin non andava messo radicalmente in discussione, e tanto meno noi stessi andavamo discussi. Questo facemmo. In nome d'uno storicismo mediocre, sentendoci stretti come se le scelte fossero due: ammettere che tutto era un errore in radice, oppure balbettare `ok, il prezzo è giusto' rispetto al positivo che ne è venuto.
Questa seconda scelta, fondata sull'ovvietà per cui il capitalismo non diventa buono solo perché il socialismo ha prodotto un figlio deforme, pareva di realpolitik ma s'è rivelata paralizzante e a medio termine fatale. Lasciammo lì tutto, evitammo di metterci le mani, non demmo alcuna sponda ai tentativi d'una opposizione socialista/comunista che in quei paesi si delineava a stento, disprezzammo il dissenso, non capimmo lo sfascio che maturava e pensammo che comunque potevamo restarne fuori. Peggio: credemmo che malgrado i disastri interni l'URSS sarebbe rimasta, non fosse che per sua propria difesa, una barriera anticapitalista, antimperialista. Non lo andiamo dicendo ancora oggi di Cuba e della Cina? Un'analisi seria, radicale, non si fa. Non abbiamo tempo, non tocca a noi. A chi tocca allora?
Inclino a pensare che anche Togliatti e Dimitrov abbiano ragionato, a rivoluzioni occidentali sconfitte, fascismo galoppante e guerra incombente: `L'URSS, questa che c'è, è la sola trincea. Se ne usciamo vivi, nel mio paese saremo diversi'. E in Italia questo fu, con tutti i suoi difetti, lacune e reticenze, il partito nuovo. Nessuno che io sappia, fuorché Nolte, contesta quello schierarsi negli anni trenta. E mi pare leggera la tesi di alcuni studiosi dell'Istituto Gramsci: appena sconfitto il nazismo e profittando di Yalta il PCI poteva rompere con l'URSS, scegliere l'Occidente, tentare una bella socialdemocrazia. Allora? Sbaraccando la Resistenza, che non certo in questa prospettiva s'era formata, solo momento di identità nazionale? Passando dall'altra parte, come la Sfio, la Spd? Non è una domanda irricevibile, visto come è finito il PCI, che peggio non poteva. Quale partito fu effettivamente costruito in Italia nel 1945? Una grande forza popolare classista e riformista o un partito comunista in senso proprio? Che altro mise sul tavolo Berlinguer con il compromesso storico? Ma andrebbe posta analizzando tempo, condizioni, rapporti di forza, la famosa geopolitica della quale tanto si parla. E tenendo conto che un partito di massa è un corpo, sono vite, azioni, simboli ed emozioni che diventano tessuto nel tessuto del paese. Non tutto è verbale d'una Direzione, non tutto nel rapporto con l'URSS è `politica estera'.
Perciò non rimpovererei a Togliatti i suoi silenzi, non mi sento imbrogliata, né sarei severissima con i silenzi dell'«Unità» e il famoso editoriale di Ingrao sui fatti di Ungheria. Penso che non abbia saputo ma neanche insistito per avere dei lumi per quella sua pietas del partito, organismo che - ha sempre pensato - cresce assieme o muore, che lo determinò ad altre prudenze. I suoi editoriali e interventi ai Comitati centrali di quell'anno sono un ostinato attenersi all'Italia, difendere il partito, scongiurare la separazione dai socialisti, stare sul terreno che conosceva. Fu un modo di allontanare la Gorgone, certo. Ma aveva le sue ragioni. Quando però cominciò a derivare in pura perdita?
Perché ci sono tempi e tempi. Si può capire che in piena guerra, o mentre ricuciva un partito operaio in un paese che era stato fascista o conformista, Togliatti non potesse aprire il dossier dell'Internazionale senza farsi fare a pezzi sul posto. (Non lo avrebbe fatto neppure un Beppe Vacca fornito dei lumi attuali.) Ma nel 1956 non si poteva gestire la faccenda meno al ribasso? Non considerare Kruscev un danno, non aggirarlo? Non tener la base nella nursery, svezzarla, non lasciarla cieca ed esposta?
Eludemmo il perché del degenerare di quella rivoluzione, non tentammo di leggerla né con una griglia marxista - per poco che frequentassimo il marxismo - né storico-sociologica. Non ci chiedemmo come, abolita la proprietà privata dei capitali, si riformassero illibertà e inuguaglianze. Eppure la Nep ne aveva discusso. E se eravamo fin troppo convinti che una rivoluzione non cade come un frutto maturo, implica una forzatura, e questa forzatura ha un limite intrinseco - non era proibito leggere Lukács - dove lo incontrò il partito russo? L'errore era già in Lenin quando ruppe con i socialisti rivoluzionari? quando dissolse l'assemblea pansovietica? o dopo, nella Nep? Non era intrinseco alla collettivizzazione delle terre quell'avvitamento della violenza, o fu insufficiente la transizione? O il nodo è la burocratizzazione denunciata da Trockij? Perché il partito/Stato era tornato a determinare l'ineguaglianza che mutilava le vite, le menti e anche i corpi, quando, attraverso quale passaggio? Il potere si dà sempre giustificazioni e urgenze, le sue buone ragioni saltano fuori da tutte le parti, un leninismo d'accatto affascina sempre vecchi e nuovi soggetti, che manco lo sanno, e a un certo punto diventa un meccanismo irrecuperabile - ma in quale momento? In capo a settant'anni siamo ancora lì a non sapere, non cercare, rimasticare la dualità partito/masse, partito/Stato, avanguardia/base, centro/periferia, come se il primo termine fosse in sé autoritario e il secondo taumaturgicamente democratico. Di subalternità intellettuale si muore.
Basta. La mancanza imperdonabile è non avere aperto questa agenda. Di aver creduto che spento il tiranno (tiranno ma grande, sussurravamo sempre per amor di base e uno storicismo accomodante, e reso più grande da coloro che erano morti con il suo nome sulle labbra), aboliti i gulag, finite le fucilazioni, il socialismo sarebbe tornato a svolazzare come l'uccellino che, sorpreso da una gelata in un campo sterminato, - Trombadori divulgava questa storiella - viene inopinatamente sepolto dalla grande ma tiepida evacuazione d'una vacca; merda è, ma lo salva dall'assideramento. E non capimmo che Breznev assiderava l'URSS senza più bisogno dei campi.
Eppure nei primi sessanta, Togliatti il prudentissimo aveva aperto un discorso. Perché i suoi successori lo chiusero? Com'è che Longo si sentì isolato su Praga? Perché Amendola, azzittito dal rimbrotto ricevuto quando propose di «liberarsi dalla ipoteca sovietica», tornava a chiederlo a Togliatti appena sepolto? Perché, fallito anche quella volta, tornò un difensore arrabbiato della fedeltà all'URSS? Lui che quella società non la sopportava neanche dipinta? Pajetta senza l'URSS si sentiva perso. Berlinguer, che personalmente non nutriva speranza alcuna nella leadership sovietica, si guardò bene dall'aprire il dossier, arretrando rispetto al Togliatti del 1964 e limitandosi a calibrati strappi al vertice, tanto il silenzio tenuto con la base si era rovesciato in timore che qualcuno da Mosca la lusingasse al punto da spaccare il più forte PCI d'Occidente.
Quando «il manifesto» fece - e non era troppo presto, era il 1978, dieci anni prima del crollo del Muro - un convegno sull'Est con le dissidenze interne o esiliate di sinistra, il PCI interdisse ai suoi di parteciparvi; spedì Rosario Villari a leggere un testo predisposto e soltanto Trentin venne e parlò e strinse la mano ai Michnik o Mlynar, figuriamoci. (Foa ci mandò un telegramma di scherno.)
Dieci anni dopo o poco più gli epigoni del PCI, che erano stati zittissimi, avrebbero detto senza batter ciglio e senza suscitare sollevamenti nella base: - L'URSS? Mai vista né conosciuta. (E il mio vecchio amico Vittorio Foa la annovera fra le frivolezze di gioventù.)