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                      Rossana Rossanda - 
                    Valentino Parlato 
                     
                    Ungheria  1956 | 
                     
                   
                 
                                           
                    Caro  Valentino, 
                       
                      non sono d'accordo. Che cosa c'è stato di magari brutale ma geopoliticamente  necessario, nell'invasione dell'Ungheria, che tu ritieni giustificata allora e valida ancora  oggi? Non il socialismo, ammetti, non aveva niente a che vedere. Dunque con la  sicurezza dell'URSS? Non mi consta che l'Occidente stesse per invadere l'Est,  salvo che con il mercato, così come è una favola che l'URSS volesse arrivare  all'Atlantico. Era in gioco l'egemonia sul modello sociale europeo. Nel 1945  l'URSS l'aveva e nel 1948-1949 l'ha perduta. Un paese, e tanto meno un campo,  non si tiene con la repressione e soltanto militarmente. In questo modo si  coltiva l'odio e appena si apre un pertugio, passa una insorgenza. Che può  anche essere manovrata. È un errore clamoroso. 
                    Una delle ragioni della crisi dell'URSS è proprio l'incapacità di egemonia sia  nell'Europa dell'est, sia nelle sue zone di influenza fuori del continente.  Diventa evidente proprio nell'allargarsi del «suo campo». Mi fece inviperire  Francois Furet quando scrisse che mentre la rivoluzione francese aveva lasciato  dietro di sé un lascito decisivo, Lenin nulla aveva lasciato. Aveva ragione. Ma  la devastazione seguì il 1945. Prima, malgrado il sangue sparso all'interno, i  popoli dell'URSS costruirono un avvenire e si difesero con le unghie e con i  denti dal nazismo, dandogli il colpo fatale a Stalingrado. È la gestione del  dopoguerra che è stata disastrosa. Che resta in Russia, in Polonia, in  Cecoslovacchia, eccetera? Non una minoranza dei comunisti, nessun comunista, né  socialista, né idea di progresso. O guardiamo la Gorgone in faccia, o pestiamo  l'acqua nel mortaio.  
                      Quanto alle recenti conversioni dei dirigenti comunisti, sono d'accordo con te.  Ma non è certo che, se nel 1956 avesse detto «no» come Di Vittorio, Napolitano  oggi non sarebbe presidente della Repubblica. Lo sarebbe stato anche prima. Ma  è secondario. Un «no» ragionato del PCI - ragionato significa che non balzava a  piedi uniti dall'altra parte come nel 1989 - ci avrebbe rafforzato. Così la  famosa barricata, nota come il Muro di Berlino, non ha retto che venti anni -  che storicamente parlando è un battito di ciglio.  
                       
                      Rossana  
                       
                       
                      Cara  Rossana,  
                       
  innanzitutto grazie per l'attenzione e aggiungo che qualche diverso parere  si può avere in quasi quaranta anni di lavoro comune, e nei momenti più  difficili siamo stati sempre uniti, così come ora, pur dissentendo.  
  Forse nel mio scritto mi sono espresso male. L'intervento dei carri armati  sovietici a Budapest non lo ho affatto condiviso, ma ho ritenuto realistica, e  quindi politicamente giusta, la scelta del PCI e di Togliatti di non condannare  e di non rompere con l'Unione Sovietica perché sarebbe stata disastrosa per il  PCI, per l'Italia e per quello che, allora, chiamavamo il mondo socialista. 
  Ma poiché la storia si fa con i se, tu hai scritto che se il PCI avesse  trovato la via di un dissenso senza rotture sarebbe stato meglio per tutti.  
  Forse hai ragione tu, in quel caso tutto sarebbe andato per il meglio. Ma  nella situazione data - sempre a mio parere - quella era un'ipotesi  dell'impossibilità. 
  E non è un caso, ma per una scelta razionale che siamo rimasti nel PCI.  
  Altro era il contesto ai tempi di «Praga è sola», quando non rimanemmo nel  PCI e Enrico Berlinguer fece passare un bel po' di anni prima di dire che la  «spinta propulsiva» si era esaurita.  
  Pensando a Furet e alla rivoluzione del 1789, mi viene da dire che siamo  nella stagione della Restaurazione, quando sembrava che il lascito della  rivoluzione fosse stato distrutto. Cercare ancora, ci diceva Claudio Napoleoni,  anche la luna.  
  Ma questo, forse, è un altro discorso. 
  Un abbraccio 
   
                    Valentino  
                    il manifesto,  26 Ottobre 2006 
                      
                      
                    
                      
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                                                    Pietro Ingrao 
                           
                          Dialoghetto sul '56 | 
                       
                                         
               
                                         
                                        Giuseppe Quanti anni son passati? 
                       
                                            Pietro Diciamo mezzo secolo.   Esattamente cinquantaquattro anni e undici mesi. 
                                            Giuseppe Già... Tu lo   chiamasti: "l'indimenticabile 1956". Esageravamo sempre. Esagerati e   apocalittici. 
                                            Pietro C'entrava il cinema anche in quel caso.   Rammentavo il titolo di un film del primo cinema   sovietico:
                                            L'indimenticabile 1919 . Riguardava la guerra civile contro   i bianchi. Il nome di quel regista cercalo tu. L'occasione in cui ricorsi a   quella civetteria letteraria era amarissima. Discutevamo alla Camera dei   deputati sulla impiccagione di Imre Nagy, il leader della rivolta ungherese del   '56, caduto nelle mani dei sovietici dopo il soffocamento della rivolta popolare   di fine ottobre... 
                                            Giuseppe Questo è l'epilogo. Partiamo dall'inizio.   Se ricordo bene, il XX Congresso del PCUS si aprì a Mosca nel febbraio del   1956. 
                                            Pietro Sì. Alla fine del congresso, in una seduta a porte chiuse   e riservata solo ai delegati sovietici, Kruscev tenne il famoso rapporto segreto   sui crimini di Stalin. 
                                        Dopo la seduta Kruscev ne diede a leggere il testo a   Togliatti e Scoccimarro, che guidavano la delegazione italiana. Non seppi, anzi   non sapemmo mai, se Togliatti, in via di rientro in Italia, ne portò con sé una   copia. A me, quando lo vidi al suo ritorno, non disse parola sull'evento. 
                                        Ma   come "Unità" noi avevamo a Mosca un corrispondente molto intelligente e attivo,   che aveva le sue fonti nel partito e nella società moscovita: Giuseppe Boffa.   Ebbi da lui le prime notizie e indiscrezioni (se vogliamo usare questa parola   curiosa) sul rapporto di Kruscev. Ne parlai subito con Togliatti, che fu   assolutamente sibillino. Né disse in proposito alcunché nemmeno in quella sua   relazione sul XX Congresso che tenne al Comitato centrale del partito in   febbraio. 
                                        Furono giorni incredibili per noi all'"Unità". Avevamo la precisa,   ripetuta conferma da Boffa. E tutta la stampa d'Occidente ormai discuteva   sull'evento clamoroso: l'eco era enorme. 
                                        Solo a marzo potemmo dare la notizia   che il rapporto sui crimini di Stalin, sì, esisteva. Fummo il primo e unico   giornale comunista a dirlo in quell'inizio di primavera. Davvero una triste   consolazione. 
                                        Ad aprile, quando già il mondo era in subbuglio, si tenne a   Livorno il Consiglio nazionale del partito, convocato per le elezioni   amministrative di primavera. Togliatti fece la relazione, e ancora una volta,   tra lo stupore e lo sconforto generale, tenne la bocca chiusa sull'evento che   scuoteva l'URSS e il mondo. 
                                        Nei corridoi di quella sala livornese si riversò   una massa di delegati sconcertata e in rivolta. Poi il dibattito esplose   nell'assemblea, Amendola e Pajetta avanti a tutti. 
                                            Giuseppe Hai capito   in seguito il perché di quel silenzio assurdo? 
                                            Pietro Sono convinto   che Togliatti attendesse un'iniziativa da Mosca. Da ex-cominternista, avvezzo al   segreto e però anche alla corresponsabilità, di sicuro attendeva una   convocazione, o un incontro, dove discutere insieme l'accaduto e il da farsi: il   modo con cui gestire insieme l'evento incredibile. C'era poi in lui - lo vedemmo   pressoché subito - il dissenso sul modo e sui contenuti. Ma di certo gli   sembrava impossibile che il vertice comunista mondiale non fosse chiamato a   discutere - se mai in forma ristrettissima - come gestire le rivelazioni su   Stalin (la storia di mezzo secolo, in fondo). 
                                        Quando poi egli verificò   amaramente che la chiamata a Mosca, o in qualche altra capitale dell'Est   d'Europa, non veniva, decise di rompere lui il silenzio del comunismo   d'Occidente. Fu l'intervista a "Nuovi argomenti". La mandò in lettura ai membri   della direzione, con l'aggiunta (riottosa e furente) che in ogni modo egli non   era disponibile per alcuna modifica. 
                                        Ma perché mi trascini a ripetere cose   che ormai stanno in tutti i manuali di storia europea del   Novecento? 
                                            Giuseppe Dimmi però perché mantieni ancora l'aggettivo   'indimenticabile' vicino a quel '56. 
                                            Pietro Perché dal seggio più alto   del mondo comunista veniva gettata una macchia terribile sulla mutazione più   grande del primo mezzo secolo. 
                                            Giuseppe Per me, per te la più   grande... 
                                          Pietro Diciamo allora la più eversiva. Quel giornalista   americano, che intitolò il suo libro Dieci giorni che sconvolsero il mondo, nei suoi modi aveva ragione. In quel fatidico 1917 una minoranza politica   abbastanza ristretta - e pressoché sconosciuta al mondo - conquistava il potere   nella Russia zarista, e dopo, in poco meno di un trentennio, estendeva il suo   comando dall'Elba e da Vienna all'Asia centrale. Il mito di Stalin prima di   tutto reggeva su questo dato nudo, brullo. 
                                            Giuseppe I costi però erano   stati enormi. Si parla di trenta milioni di morti per l'URSS nell'urto con   Hitler, ed è solo il dato della grande 'guerra patriottica'. C'erano poi i   caduti di prima, nelle guerre civili e nelle repressioni. Bagni di   sangue. 
                                            Pietro Cerco di capire perché quei costi e quelle catastrofi   non fermarono la nostra fede. 
                                        Un secolo prima che io nascessi, all'alba   dell'Ottocento, il socialismo quasi ancora non esisteva, o esisteva solo in   piccole avanguardie, e progetti solitari. Nel 1956 invece, socialismo era la   parola usata per indicare uno spazio che si spingeva fino alla grande Cina. Mao   aveva vinto nel '49 non solo contro Chiang Kai-scek, ma contro l'America   dell'atomica, e aveva fermato l'esercito dell'americano MacArthur sullo Yalu.   Tre anni dopo, uno sconosciuto alla grande maggioranza degli abitanti del   pianeta, Ho Chi Minh, a Dien Bien Phu umiliava la grande potenza coloniale   francese e la espelleva dall'Indocina. Le forze che si dicevano comuniste ormai   non erano più piccole avanguardie. Ma sistemi infracontinentali. 
                                            Giuseppe La vicenda dell'URSS però era tragica. Non solo quei morti di cui dicevamo   prima. Le carestie, le prigioni. I lager. 
                                            Pietro Ricordo con amarezza   il velo che accettai di stendere su quelle moltitudini di scomparsi. 
                      Cerco di   annotare gli eventi che sorressero le mie convinzioni, la fede, l'apologetica   del Capo, il carisma del Partito politico. Ti ricordi il grumo di sentimenti,   l'onda di simboli, evocati da quel soldato dell'Armata sovietica che issava la   bandiera rossa sulla cima del Reichstag ? 
                      C'erano stati due grandiosi   scontri nel cinquantennio: due guerre mai immaginate nella loro furia   dirompente. Una aveva veduto per la prima volta la minoranza comunista   conquistare il potere in un grande Stato d'Europa. L'altra faceva dell'URSS la   testa della seconda coalizione del globo. Su questo mutamento inaudito dei   rapporti di forza mondiali poggiava il carisma di Stalin che veniva mandato in   frantumi in quell'inizio del 1956. 
                      Kruscev gettava un'ombra terribile e   insanguinata sulla mutazione politica mondiale, avvenuta incredibilmente in   appena mezzo secolo. Questo era il tema che veniva in campo col 'rapporto   segreto'. E fatalmente scavalcava Stalin. L'avversario di classe aveva ragione   nell'agitarlo clamorosamente. 
                      Ed era abbastanza bizzarro spiegare l'anatema   che si gettava su quell'uomo, attore fondamentale in un simile mutamento, con   l'oscura categoria del 'culto della personalità'. Per materialisti, come noi ci   definivamo, che diceva quella parola così lontana dalle categorie marxiane che   c'erano care, quel termine: culto della personalità? Un difetto di strutture   sociali, e quali, e come collocate, visto che quel vizio era stato capace di   inquinare il percorso di una formazione storica che noi definivamo protagonista   del secolo, e costitutiva di un ordine nuovo? 
                      Giuseppe Ma perché allora fu   così difficile avviare una discussione piena, a tutto campo? Era il retaggio   dello stalinismo? Tu affermi che fu "l'Unità" l'unico giornale comunista che   informò di quel fatto che pure veniva direttamente dai capi del Cremlino. 
                      E   tuttavia si può dire che pure voi dell'"Unità" davate l'impressione sconsolante   di mettere una toppa? Lo dico io che nel tumulto di quei giorni cercai   disperatamente di difendere Stalin... 
                      Pietro Non solo tu. Io che pure   nel partito stavo, per così dire, coi rinnovatori, difesi rabbiosamente l'URSS   dagli intellettuali (quelli della lettera dei 'centouno'...), che invasero le   stanze dell'"Unità". 
                      E l'urto entrò anche in casa. Ricordi Lucio Lombardo   Radice? Fu nel PCI un antistalinista che fra i primissimi praticò non solo la   difesa, ma l'aiuto concreto alla dissidenza dell'Est. Esisteva fra noi un forte   vincolo affettivo. Eppure fu la discussione acerba dentro casa. 
                      Questo   avvenne in cento città, in molte, tante organizzazioni del PCI; e ci furono   molti, tanti difensori di Stalin in nome della rivoluzione e della tutela di   classe. 
                      Giuseppe Però le cose furono più intricate. Io ho nella   memoria un velocissimo, incredibile intreccio di eventi. Rammento come mi   aggrappai alla vicenda di Suez, quando l'URSS schierò la sua flotta contro gli   inglesi e francesi sbarcati a Suez per rovesciare Nasser. Improvvisamente, a un   passo da casa, tornava l'immagine dei sovietici come baluardo contro gli odiosi   imperi coloniali. 
                      Pietro Lo prevedesse o no, il rapporto segreto di   Kruscev metteva in discussione gli assetti del mondo. E Togliatti era furente   contro Kruscev, proprio perché aveva aperto quel terribile capitolo, senza   calcolarne implicazioni ed esiti. 
                      Del resto in ottobre quando scrissi   sull'"Unità" quell'editoriale pessimo che aveva per titolo Da una parte della   barricata , io stesso più o meno questo avevo in mente: piacesse o no, era   venuta la prova delle armi (quella prova ultima che stava sempre nei nostri   pensieri). E c'era da schierarsi nel proprio campo di classe. 
                      Era elementare,   ma in qualche modo coglieva il livello a cui era giunto o poteva arrivare il   conflitto. Del resto ricordo nitidamente come io (e non solo io), quando   ragionavo sul domani, avevo fermo nella mente che a un certo momento sarebbe   venuta la prova dell'insorgenza, dell'urto armato. 
                      Prima di Budapest c'era   stata la rivolta di Poznan. Togliatti già allora aveva scritto un articolo   furente che in pratica diceva: ecco i frutti amari, ecco il pericolo. 
                      D'altra   parte lo scontro armato, l'urto eversivo non poteva sorprenderci. Esso traeva le   conseguenze della 'rivelazione' compiuta da Kruscev, dallo squarcio amarissimo   aperto e sul senso e sulla natura del potere sovietico. Questo spiegava anche   l'allarme dei fedeli di Stalin, si potrebbe dire: dei 'legittimisti'. Ma tutto   ciò fatalmente conduceva a una risposta sbagliata. 
                      Nelle cose che in quelle   ore tragiche disse e scrisse Togliatti sicuramente restava ancora un vocabolario   antico, quasi certamente consumato. E tuttavia penso che in lui, in quei giorni   così dubbi, ciò che prevalse non fu la difesa del passato (anche del suo passato), ma la preoccupazione sul presente. 
                      Spiego così lo scarto   pesante che c'era tra l'apertura sulla ricerca critica, che egli mise in campo   nel Comitato centrale del luglio '56, e la chiusa durezza che correva   nell'articolo sulla rivolta di Poznan. La stessa durezza ingiusta che -   parecchio dopo - egli ebbe (ti ricordi quell'articolo intitolato Irodalmi   Ujsag ?) verso gli intellettuali ungheresi tragicamente coinvolti nella   crisi e nella rivolta. 
                      Sicuramente in quell'autunno, nell'area dei giovani   dirigenti, io fui il più prudente, nonostante non fossi proprio uno stalinista,   o tra gli amici di Secchia. Anzi non mi tranquillizzava che i krusceviani più   scatenati fossero della destra del partito, anche i più riluttanti poi allo   sviluppo della democrazia interna. 
                      In ogni caso fu Togliatti - nel suo   linguaggio un po' manierato, e calcolato - a segnalare il nodo storico messo in   gioco. Lo enunciò asciuttamente prima ancora della ribellione ungherese,   nell'intervista che rilasciò al "Borba", l'organo del Partito comunista   jugoslavo. 
                      Giuseppe Quando stava per incontrare Tito... 
                      Pietro In quella intervista Togliatti ragiona sulle prospettive (o possibilità, o   necessità) in Italia del 'salto rivoluzionario'. E a un certo punto afferma: "vi   è [in Italia] una tradizione di vita parlamentare. Vi sono diversi partiti che   affondano le loro radici in strati sociali della stessa natura... Tutto questo   non può essere distrutto e bisogna tenerne conto... Proporsi di tagliare con   l'azione violenta di una minoranza di avanguardia l'attuale nodo di soluzioni   politiche e di organizzazioni della più diversa natura, da cui risulta la   struttura della società e dello Stato, è impossibile [...]. 
                      Il ragionamento è   tutto volto a motivare le ragioni (e diversità) delle vie nazionali. In questo   senso era un ragionamento parecchio arretrato, in buona parte superato dal   costituirsi dei due campi e dai processi irruenti di internazionalizzazione. Ma   il suo discorso alla fine scavalcava la questione nazionale: affrontava   nitidamente il nodo cruciale della relazione tra l'URSS e il blocco di nazioni   raccolte nel suo 'campo'. Proponeva un 'policentrismo': la parola più avanzata -   a mio avviso - che egli pronunziò in quei mesi. Ma rimase una frase presto   appassita. L'URSS la respingeva furiosamente. 
                      In ogni modo le nazioni che   insorgono, ardono, in quel cruciale momento di verità sullo stalinismo, furono   Polonia e Ungheria. Tragicamente nel '68 sarà la volta anche della   Cecoslovacchia. E prima c'era stata la crisi con la Jugoslavia di Tito. Infine   verrà anche l'urto con l'enorme Cina, dove una tradizione di 'vita parlamentare'   non esisteva (o era stata diversa e brevissima) e storia e culture segnavano una   differenza profonda dall'Europa. 
                      Tutto questo non poteva essere tagliato con   l'accetta dell'azione armata, per usare ancora una volta il linguaggio di   Togliatti. 
                      Giuseppe Se ricordo bene però Togliatti non solleva quel   tema in termini di libertà... 
                      Pietro La sua cultura è quella: un   marxismo segnato prepotentemente dallo storicismo di casa nostra. Solo che il   nodo che egli segnalava in quegli anni - a mio avviso - chiamava clamorosamente   in causa non solo Stalin, ma lo stesso Lenin, e la sua pratica della minoranza   armata che spacca in due il nodo della storia. Non era questo il volto   dell'Ottobre del '17? E dunque era il leninismo, e non solo la degenerazione   staliniana che veniva messo in discussione: la minoranza armata che risolve il   conflitto. 
                      Giuseppe Però il leninismo è anche la Nep: il soggetto   rivoluzionario che misura le condizioni e le forze dello schieramento di classe,   inventa e modula il compromesso. E sa anche arretrare al momento giusto.   Togliatti era intriso di questo leninismo. E aveva letto anche Gramsci e il suo   ragionamento sull'egemonia. 
                    Soprattutto, se guardiamo fuori d'Italia, e   proprio all'URSS, gli anni che immediatamente seguirono alla morte di Stalin   furono tempi di grande apertura e di iniziativa mondiale. Non solo ci fu l'appeasement con Tito e il riconoscimento degli errori commessi, ma   l'iniziativa in Oriente, la visita in India e l'incontro con Nerhu, tutta   l'apertura verso il mondo dei 'non allineati', il sostegno all'indipendentismo   africano, e poi ancora l'appoggio al Vietnam. 
                      Pietro Sì, però gran   parte di queste aperture presto, troppo presto si raggricciano. Nel continente   latino-americano, dove pure esistevano radici terzinternazionaliste, via via   esse rinsecchiscono, scavalcate dal 'guevarismo' o addirittura dal comunismo   italianizzante. Ressero invece le alleanze con i movimenti di liberazione   africani, ma più come aiuto materiale che come rapporto dialettico con le nuove   insorgenze, che cercavano faticosamente una strada nell'enorme arretratezza di   quel continente, dissanguato dal lascito dell' imperialismo europeo. 
                      L'URSS   dette soldi e armi. Ma non leggeva le culture africane. Non si misurava con le   incredibili differenze e molteplicità di religioni e di livelli nei vari   comparti di quel continente. Non c'era in ciò una conferma clamorosa della   difficoltà a leggere e a reggere la diversità, e, forse ancora di più, a   fecondare le culture di liberazione? In Algeria - luogo chiave del Nord Africa -   Mosca non feconda nulla. Fa di più la sinistra europea... 
                      Giuseppe Lì   però c'entra il fondamentalismo islamico, un mondo a cui l'esperienza del   sovietismo dice quasi nulla. Mi pare che il Partito comunista iraniano muore   abbastanza presto. 
                      Pietro In ogni modo i carri armati e la repressione   a Budapest, e poi l'occupazione della Cecoslovacchia, prima ancora che diniego   di libertà, sono una incomprensione clamorosa delle storie nazionali. L'attacco   alle religioni cristiane ignorava grossolanamente le radici di credi millenari,   e semplificava paurosamente lo scontro di classe. Scartava con mano pesante le   vie di pensiero che in quella straordinaria metà del Novecento aveva sconvolto   saperi, linguaggi, sentieri dell'espressione artistica. 
È un particolare, ma   è tragicamente illuminante, la solitudine di Brecht tornato dall'esilio   americano nella Germania dell'Est duramente aggregata al campo   sovietico. 
Qui, per me, viene il nodo più intricato e tenace: in quegli anni   della repressione ungherese e della aggressione alla Cecoslovacchia, come poteva   reggere o addirittura concepirsi un 'campo' a guida di Mosca, che non sapesse   comprendere e almeno rispettare la nuova complessità del Novecento, nelle sue   sofisticate (proprio così) costruzioni politiche, o intrecci di convinzioni? E   non solo modi di suscitare lavoro e innovazione, ma i grandi saperi della vita,   le letture nuove della condizione femminile, le coesistenze di religioni, le   ricerche inventive dell'espressione artistica. Sino al dilatarsi impetuoso delle   forme di consumo e di servizi, che allora incantavano l'Occidente. Insomma non   era in causa solo il principio di libertà, ma il volto della società   novecentesca in Europa. 
La questione del secolo, il grande tema del riscatto   del lavoro - così significativo per la nostra identità di comunisti - non poteva   camminare e tanto meno essere affrontato vittoriosamente se non si connetteva   duttilmente a un progetto di vita, che parlasse ai molti volti e mondi in cui   ormai si esprimeva il moderno. E per me in ciò stava la verifica della fecondità   e capacità di presa del nostro classismo. 
                      Giuseppe Va bene: insomma il   cimento più largo col capitalismo. Noi però parliamo di un tempo in cui la   grande fabbrica fordista è egemone nella società, in qualche modo ci coinvolge e   ci affascina tutti. Aveva trascinato anche Gramsci. 
                      Pietro Bene, io   sostengo che quel nodo - così centrale, essenziale nel confronto di classe - non   poteva essere letto e affrontato in separazione dal largo campo in cui si   sviluppava e dilatava il ciclo vitale. Teniamoci a quel '56, lo sbaglio profondo   delle barricate, che io pure evocavo per Budapest, stava nella dimenticanza   colpevole di questa complessità del terreno e degli attori sociali e delle   culture in campo. Quella complessità che pure io rivendicavo in Italia per la   mia storia privata e le mie passioni civili. 
                      Ricordi le cose che noi dicevamo   sul cinema in Italia, a volte evocando proprio i primi maestri sovietici? Se non   si trattava di un ghiribizzo personale, erano ricerche, discussioni, e progetti   espressivi che investivano questioni di identità e libertà dei moderni. Come non   vedere allora che Mosca nemmeno afferrava il sugo di queste domande e bisogni? E   anche quando non li reprimeva, essi non stavano nella sua agenda... E allora   come si poteva governare, o 'guidare' una parte così significativa d'Europa, se   questi bisogni e questi mondi non stavano nell'alfabeto moscovita del tempo, e   nel soggetto politico 'rosso' che ambiva addirittura a orientare metà del mondo?   Qui era il punto vero in cui anche io e te sbagliavamo, o in ogni modo eravamo   in grave ritardo. 
                      Giuseppe Io però nel mio paese ho lottato per un   altro comunismo. Fui duramente contro, quando Togliatti praticamente cacciò   Vittorini. Ma ti faccio un'altra domanda: senza l'URSS e il suo peso militare e   politico si poteva vincere in Vietnam? 
                      Pietro Ti rispondo: no. E non   si poteva nemmeno senza la Cina, che pure oggi sembra non avere più nulla a che   fare con il comunismo. Infatti non per caso oggi il Vietnam - quel Paese   incredibile che ha sconfitto non solo gli imperialisti francesi, ma anche   l'aggressore americano - vive una rinascita difficile. 
                      In ogni modo qui   stiamo discutendo sulle cause della sconfitta storica subita dai comunisti di   tutto il mondo, e se essa ebbe una tappa grave ed eloquente nella vicenda   ungherese del 1956: proprio quando sembrava che l'URSS krusceviana e poi i suoi   eredi stessero recuperando nello sviluppo dell'economia sovietica dopo la crisi   spaventosa degli ultimi anni di Stalin, dimostrando anche forza e mente e   iniziativa per promuovere quell' appeasement con il grande antagonista   d'Occidente. 
                      Quelle dirigenze purtroppo restavano glacialmente irrigidite (e   anche rinsecchite) nella incomprensione delle differenze e delle articolazioni,   in cui ormai si dispiegavano le straordinarie invenzioni del Novecento. 
                      Il   monolitismo, la potenza armata, la passione dei pionieri, che avevano sorretto   il successo e l'ardimento di quella minoranza comunista germinata nel '17,   risultavano poi incapaci di reggere la vastità del loro potere: prima di tutto   la varietà e la complicazione dei livelli in cui si articola la drammatica   vicenda del Novecento. 
                      Giuseppe Beh, l'antagonista americano non era   dolce. E non sto parlando dell'Fbi e della 'Gladio' italiana. Vedemmo nel   Vietnam l'assurda brutalità con cui gli Usa intervennero a sostenere un potere   impossibile: sino all'ultimo minuto, all'ultima goccia di sangue. 
                      Pietro Stiamo discutendo dei nostri errori, e degli errori della mia parte. Anche   perché noi, più dei nostri avversari, avevamo bisogno di alleanze e fratellanze   cento volte più estese, cento volte più inventive di quelle che il capitalismo   s'era costruito per sé in secoli e secoli di storia. 
                      Prima, a riguardo di   Togliatti, parlavamo ancora di vie nazionali al socialismo, e ci sembrò una   lettura ardita, e originale. Queste parole oggi, all'inizio del Duemila,   appaiono così vaghe, malinconiche... 
                      Giuseppe Mi dà un po' di fastidio   questa reprimenda fatta, per dire così, ai nostri padri. Infine essi hanno   dovuto combattere dispersi nell'esilio, e quando non era affatto sicuro che   l'URSS potesse reggere, quasi isolata com'era nel mondo, dinanzi al dilagare del   fascismo. Noi oggi in Italia non siamo capaci nemmeno di riunirci in una robusta   minoranza: ci dividiamo in chiese e chiesine, abbrancati alle nostre varianze e   divergenze. E non abbiamo più nemmeno un collegamento internazionale   riconoscibile. Va bene l'apologia di Seattle. E tuttavia è ancora solo un   incontro di frammenti, divisi nella ideologia e nella pratica. 
                      Pietro Hai nostalgia del monolitismo? 
                      Giuseppe Non dire stupidaggini.   Dimmi invece: per te la forma 'partito' è proprio morta? 
                      Pietro Ti   sbagli. Non m'incanta per nulla la frantumazione, o - se preferisci -   addirittura la dissipazione attuale a sinistra. Cerco soltanto di capire perché   e dove sbagliammo in quella metà del secolo cruciale, quando pressoché un terzo   del mondo appariva sotto egemonia comunista (almeno tale era il nome). In quella   fascia enorme del globo le differenze di lingue, costumi, relazioni sociali   erano quasi abissali. 
                      E a leggere differenze e vicinanze era indispensabile   un vocabolario politico articolato, che tenesse estremo conto delle varietà di   suoni e di segni, di livelli di saperi, di molteplicità di credi, e mescolanze   di città e di campagna. La vittoria militare si sarebbe dovuta presto tramutare   in invenzione civile, in capacità di articolazione dei progetti sociali. Sia   chiaro. Sto facendo autocritica. Parlo di me prima di tutto. 
                      Ma tale era il   tema vero con cui era chiamata a misurarsi la vicenda della rivolta di Budapest,   in quell'"indimenticabile 1956". E così tenace esso era che presto, prestissimo   tornò nelle vie di Praga. E più tardi l'esercito sovietico non entrò in Polonia,   solo perché - come disse poi Suslov: in Polonia no: non si poteva. 
                      A   Budapest, in quel '56, più ancora che una questione di libertà, veniva in livida   luce la capacità o meno dei bolscevichi, e anche di noi, piccoli comunisti   italiani, di ragionare e agire su questa varianza di culture e di saperi, in cui   si articola la modernità al punto in cui l'avevano condotta il capitalismo, e   anche l'iniziativa e la pressione dei proletari di tutto il mondo, se è vero che   parte di quell'invenzione sgorgava dalle lotte del movimento operaio. E il tema   era talmente ineludibile, e così depositato, che il non averlo affrontato nella   sua polivalenza portò alla sconfitta totale. L'Afghanistan era Asia. Ma in fondo   parlava anche dell'Europa, e seguiva alla vicenda europea. 
                      Questo, per me,   era profondamente sotteso alla vicenda di Budapest, che io ridicolmente in   quell'ottobre '56 rappresentavo con la letteratura della 'barricata': parola   così suggestiva nelle memorie sentimentali, e così cara agli europei. E tuttavia   così semplificante rispetto alla corrusca ricchezza di relazioni al tempo del   fordismo. Figuriamoci quando poi è venuta quella versione ancora più articolata   e cangiante del capitalismo, che tuttora ci limitiamo a segnare con un 'post'.   Appunto: post-fordismo. E non siamo nemmeno d'accordo veramente nell'indicare il   reale che sta dentro quel 'post'. 
                      Giuseppe C'era allora una verità   nella tesi della diversità delle vie del socialismo? 
                      Pietro A dirla   tutta su questo problema delle vie io, alla mia età, brancolo; e non mi aiuta   gran che nemmeno il bastone. Ho compreso tardi, e a fatica, che in Unione   Sovietica c'era soltanto una forma assolutamente inedita di capitalismo di   Stato, cosa parecchio diversa da qualche avvio, sinora a noi sconosciuto o   almeno dubbio, di socialismo. Lo slancio propulsivo di quella stella rossa sul   Cremlino era finito parecchio prima che lo riconoscesse Berlinguer. 
                      Ma anche   qui le semplificazioni unilaterali non aiutano. È innegabile - almeno per me -   che dal '17 sovietico sia venuto uno straordinario impulso alle lotte del   movimento operaio mondiale, anche quelle che respingevano l'ideologia   dell'Ottobre sovietico. Inoltre quel capitalismo di Stato, impiantato nella   Russia dagli zar, di fatto è risultato decisivo e necessario per strozzare la   violenza apocalittica dello hitlerismo. E tante persone in questo vasto mondo   hanno strappato conquiste democratiche e dato la vita per la libertà, avendo -   come si dice - il nome di Lenin o di Stalin sulle labbra. 
                      Infine, quando   l'Unione Sovietica si è sfasciata in cento pezzi, tutta la sinistra del mondo ha   pagato per quella sconfitta. La parola socialismo si è impallidita e ha perduto   credito. Oggi viene ancora usata, ma per indicare un'altra cosa. Oggi Enrico   Boselli si chiama socialista, e forse - credo - anche Massimo D'Alema. Ma tutti   sanno che parlano d'altro. Per non dire di Bobo Craxi. 
                      Giuseppe Tu   pensi che sia incominciato da quel '56 l'impallidirsi di questa   parola... 
                      Pietro Non proprio. Guasti profondi c'erano già prima,   quando io nella mia gracile fede non li sapevo vedere. 
                      Ma la prova del '56 fu   dirompente, proprio perché essa sgorgava dopo una grande vittoria militare e   politica sulla 'reazione' (secondo il vocabolario che usavamo allora), e un   incredibile dilatarsi della bandiera rossa (questo simbolo che ancora oggi   regge: dopo secoli!) su quasi la metà del globo. 
                      Ma il '56 fu una grave   cartina di tornasole per verificare quanta capacità c'era in noi tutti di   consolidare e dilatare la vittoria enorme che era stata strappata sulla   reazione, e lo spazio che si apriva all'invenzione e alla verifica di noi   stessi. 
                      Invece persino sul comunismo eretico all'italiana, quanto faticai io   per giungere a rivendicare il 'diritto al dubbio', pure così necessario vista la   straordinarietà e l'azzardo di quella nuova società da costruire. 
                      A dire la   verità quel quattro novembre del '56, quando - sfondate le barricate (vere)   ungheresi - i carri armati sovietici entravano a Budapest, girai per ore e ore   per le vie di Roma prima di presentarmi all'appuntamento con Togliatti, e dirgli   il mio sconcerto e il mio dissenso. Ed era appena un barlume, presto - in me   stesso - lasciato in un canto, in attesa di giorni belli da   venire. 
                      Giuseppe Non metterla al patetico. Questo fummo. 
                                         
  
                                        
                                        
                                        
                                          
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                                              Rossana Rossanda 
                                               Ancora sul '56 | 
                                           
                                         
                    Pietro Ingrao   e io abbiamo in comune la guerra e la vicenda del PCI dal 1943 al 1969. Il   filtro è simile. Ma è in parte diversa la memoria del 1956. Provo a   confrontarle. 
                      Il 1956 comincia nel mio ricordo con un salto nella speranza,   una accelerazione positiva. Fino ad allora - per noi che non avevamo vissuto le   lacerazioni degli anni venti e trenta - l'URSS era il 1917, il primo Stato   socialista, una società più povera (non eravamo idioti) ma più giusta, la   Stalingrado che aveva rotto le ossa alla Wehrmacht, grande paese, grande alleato   dei suoi stessi avversari contro il nazismo. Ma nel dopoguerra ne arrivavano eco   pesanti: la condanna della Jugoslavia, il colpo di Praga, poi l'impiccagione di   Raijk e simili. Non dovetti scriverne né parlarne, non so che avrei detto. Le   mettevamo in carico della guerra fredda: era spietato l'itinerario che quelle   società dovevano subire e far subire. La storia non è innocente, da les mains   sales non si scappa. 
                      E il nemico c'era, lo stesso che sentivamo addosso in   quella guerra fredda, che non fu né la passeggiata che a volte si dice, né il   dilemma fra due lealtà che, secondo alcuni storici dell'Istituto Gramsci, ci   avrebbe dilaniato. Governo e padronato l'avevano bell'e risolto: democrazia sì,   comunisti no. Neanche se fossimo arrivati al 51% dei voti saremmo arrivati al   governo, naturalmente nessuno lo ammetteva. Lo percepivamo e dopo il 1989 alcuni   illustri padri della Repubblica hanno confermato che sì, era ovvio, giocassimo   pure alle elezioni ma al dunque si sarebbe visto. Avevano dunque qualche ragione   i partigiani che ancora riunivano, tale e quale Enrico Mattei, alcune formazioni   con la bandiera e non avevano consegnato le armi? Se avessimo vinto ci sarebbe   stato un colpo di Stato e ci avrebbero ficcato a Capo Marongiu? Mah! A me pare   di non averci mai creduto, ma forse mi aggiusto la memoria. Intanto dalla   maggioranza eravamo ben lontani, socialisti inclusi - le elezioni del 1948 ci   avevano impartito una sberla tremenda. A me sembra che lavorassimo, a testa   bassa e per nulla infelici, non nell'attesa dell'ora X, folclore plebeo, ma   nella persuasione che la guerra fredda sarebbe finita, l'anticomunismo prima o   poi sarebbe ragionevolmente caduto. E infatti nei primi anni sessanta ci fu un   mutamento degli orizzonti con Kennedy, Giovanni XXIII, la crisi del centrismo,   le riforme imposte a Fanfani e poi quelle del centro-sinistra, insomma un   trascolorare del senso comune e delle culture. La verità è che dal 1945 ad   allora e oltre il PCI rappresentò la spinta a una trasformazione che maturava   nel secolo e come tale fu recepito, fino alle lacrime di Moro, salvo da   personaggi leggeri alla Cossiga. Ma sorvoliamo. Del resto poi tutto si   radicalizza a destra e a sinistra e l'URSS si fissa nella glaciazione   brezneviana. 
                      Ci davamo dunque da fare fuori dai palazzi del potere a   organizzare la gente, a sostenere le lotte, a cambiare molecolarmente la stoffa   del paese, poi - democrazia progressiva o avanzata o quel che fosse - si sarebbe   visto. Ma intanto dovevamo strappare anche il permesso di manifestare, la   fabbrica teneva fuori noi, i sindacati e «l'Unità». Io vengo dagli anni delle   schedature, degli operai perquisiti, degli spazi interni vietati, dei compagni   cercati negli intervalli di mezzogiorno mentre si addossavano al poco sole d'un   muro esterno dell'azienda a mangiarsi la deprimente gamella, o catturati mentre   correvano al tram del rientro, o la sera giù nelle sezioni in scantinati senza   stufa. Mi hanno tolto anche il passaporto - a me che non ero nessuno. Quando si   parla di consociativismo mi fanno ridere. E la censura? La polizia chiudeva   appena poteva perfino le serrande della Casa della Cultura, e non era permesso   proiettare neppure Eisenstein. 
                      Nel 1956 erano finite da sette lunghi anni le   grandi battaglie sindacali, schiacciate a Milano dopo la Breda nel 1949 e in   genere dopo la botta clamorosa alla Fiat. Ci aspettava una scadenza   amministrativa nazionale, le ultime politiche erano andate molto meglio che nel   1948, ma a Milano i socialisti restavano più forti di noi. Se pensavo all'Est,   era per augurarmi che non succedesse niente: nel 1948 ci avevano fatto più male   le forche di Praga che la scomunica. 
                      Ed ecco che nel febbraio 1956 il XX   Congresso prende di sorpresa, mi pare, anche il PCI. Il campo socialista -   annuncia Kruscev - è ormai un sistema mondiale, la guerra non è più inevitabile,   ogni paese avrà la sua strada al socialismo. Non è cosa da poco, né sotto il   profilo politico né sotto quello storico. Per il PCI è miele. Il mondo, piaccia   o no, ne prende atto. 
                      Nella relazione Kruscev ha fatto anche un'ammissione   grave e liberatrice: è venuta meno una direzione collegiale per l'illecita   prevaricazione di Stalin ed è stata più volte violata la legalità socialista. Di   questo «l'Unità» parla soltanto il terzo o quarto giorno, dopo l'intervento di   Mikoyan che rilancia. Quando leggemmo l'intera relazione ci siamo detti: ecco   una società capace di riformarsi! E se non mi inganno - io vivevo più di altri   compagni milanesi in mezzo alla gente - così venne accolta anche dalla sinistra   non comunista: penso ai socialisti o a Isaac Deutscher, la cui analisi fu   determinante. Naturalmente ci rimproverarono la passata sordità, ma un peccato   corretto non mette a tacere nessuno. 
                      Certo, bisogna vedere quale peccato.   Qualche giorno dopo si saprà che c'è stato un secondo rapporto di Kruscev.   Pietro Ingrao ricorda che Boffa lo avvertì, «Ci sono cose terribili», ma questo   sull'«Unità» non traspare: nella splendida capacità di dire e non dire, il   nostro quotidiano scrive che c'è stata, oltre alla consueta sessione per le   nomine al CC, una sessione riservata per discutere della direzione collegiale,   punto. Senonché il PCUS ne discute in tutte le sue sedi (come lo abbia fatto   senza pubblicare il rapporto resta per me oscuro) e ne filtrano notizie sulle   quali gli altri giornali cominciano a strillare. «L'Unità» definisce il tutto   come una campagna bieca e menzognera, attuata per attaccare un paese e un   partito ormai più forti e tentar di separarci dai socialisti. 
                      E così   procedemmo sino alle elezioni di fine maggio, che non andarono malissimo.   Perdemmo dei voti ma li presero i socialisti, indietreggiò un poco la Dc ma   avanzò Saragat. Per cui tutti si dissero soddisfatti. A Milano però avevamo   perduto più che altrove ed era convocato il Comitato federale per discuterne   quando, un bel giorno dei primi di giugno, il «Punto», mi pare, pubblicò di   colpo l'intero rapporto segreto. 
                      E quella sì fu una bomba. Quel che Kruscev   aveva detto pubblicamente ci sembrò una riduzione mostruosa. Altro è dire che   Stalin poco si curava dei pareri dei compagni, altro che aveva fatto ammazzare   Kirov. Un conto è tenere in non cale la direzione collegiale, un conto far   fucilare novanta su poco più di cento membri del Comitato centrale del 1934   (quello del Congresso dei vincitori, della ritrovata unità!). E i processi del   1936, '37 e '38 non erano quel che si era creduto. E liquidando Tuchacevskij,   Stalin aveva permesso che la Whermacht arrivasse alle porte di Mosca. E poi   aveva fatto deportare intere popolazioni dell'URSS. 
                      Dura necessità? Errore?   «Quando si abbatte una foresta volano le schegge», come scriveva Arturo Colombi?   Ammazzalo! Erano tragedie, delitti. Ci dividemmo sordamente fra chi diceva   «taluni errori», «errori e colpe», «colpe e delitti». Il rinvio al `culto della   personalità' non era insufficiente, era tremendo: come diavolo un grande partito   s'era piegato a una tirannide personale? Nel socialismo, nella democrazia   sostanziale? 
                      Di quelle pagine devastanti «l'Unità» non dette notizia, né   direttamente né indirettamente, né durante né dopo; l'«Avanti!» aspettò venti   giorni per farne uscire una corretta, seria silloge, a firma di Nenni. Noi   niente. Il rapporto segreto era stato pubblicato a metà settimana, la polemica   infuriava, il sabato si riunì il Comitato federale di Milano, Alberganti fece la   relazione, Secchia gli era seduto accanto. Del rapporto segreto non una parola.   Cominciò una surrealista discussione sul voto, finché Silvio Leonardi, che era   un ingegnere, Antonio Pizzinato, che era operaio alla Borletti e io che ero   un'intellettuale qualsiasi intervenimmo: «I casi sono due: o il rapporto è un   falso e “l'Unità” lo deve smentire o è autentico e lo doveva pubblicare».   Silenzio degli altri. La risposta fu di Secchia, sprezzante, e rivolta a   Pizzinato che come operaio doveva parergli più colpevole di due intellettuali:   «Anche l'ultimo dei cretini è in grado di fare domande cui il più intelligente   degli scienziati non è in grado di rispondere». Più che la logica, alquanto   debole, ci colpì l'ira, il disprezzo. (Di Secchia, spedito pieno di risentimento   a Milano dopo il 1954, non ho la memoria angelicata degli amici che hanno curato   il volume degli «Annali» Feltrinelli, fondato sul suo diario, i cui vuoti non   cessano di stupirmi). 
                      Poco dopo ci fu il Comitato centrale dove Togliatti   disse il famoso: «Non sapevamo e non potevamo immaginare». Non aveva saputo né   immaginato dall'Esecutivo dell'Internazionale comunista? Ma rispondeva su «Nuovi   Argomenti» con un'intervista che leggemmo come un'ammissione e un atto di   personale coraggio, che presto si fondò sulla leggenda - non so quanto vera -   che in sede di direzione i vecchi non gliel'avrebbero mai passata. Da quel   momento i `giovani' del centro, specie gli Alicata e gli Amendola che salivano   spesso a Milano, ci trasmisero l'immagine d'un Togliatti deciso a innovare alle   prese con una resistenza interna: non sapevamo, e non ci dissero, che nel 1951   la Direzione aveva risposto sì a Stalin che chiedeva di spostarlo al Cominform,   e lui se ne era faticosamente schermito. Ma a Milano potevamo ben capire: era   una federazione arroccata, di figure pesanti, Alberganti, Giovanni Brambilla, il   vecchio Nicola, Alessandro Vaia, i Nigretti, i compagni del sindacato, tutti   poco inclini a conoscere e ascoltare, che ricordo però come gente integra, una   virtù che oggi mi sembra non da poco. Uno solo, il vecchio Invernizzi della   CGIL, mi disse con voce strozzata sull'orlo d'una porta: «Essere messi al muro   dall'avversario è dura ma dai compagni...». In ogni caso l'intervista su «Nuovi   Argomenti» restò quella della «degenerazione nel sistema», come diceva   Togliatti, o «del sistema», come aveva scritto Nenni nell'altrettanto famoso   Luci ed ombre. Nel o del, degenerazione era. 
                      L'estate venne nervosa. A fine   giugno avvennero i fatti di Poznan - più di cinquanta morti - il PCI inaugurò la   tesi: c'è stato un ritardo nel rinnovamento dei gruppi dirigenti, sul quale   giocano i provocatori, e diversi proletari se ne fanno trascinare. Capire,   reprimere, rinnovare: si seppe che il rapporto segreto era stato fatto arrivare   negli Stati Uniti da Kruscev; dunque aveva anche lui un contenzioso interno   difficile. In quella prima metà dell'anno andò in pezzi l'idea del partito e   dell'URSS uniti e compatti. E smettemmo di parlare lo stesso linguaggio fra noi,   con qualche compagno del centro e con la base. L'età dell'innocenza era   finita. 
                      Ma ci davamo degli incoraggianti distinguo. «Rinascita» nominò il   `secondo rapporto' di Kruscev - che si supponeva noto grazie all'avversario,   visto che non lo pubblicavamo, anche se, a differenza de «l'Humanité», «l'Unità»   non disse, o cessò prestissimo di dire, che era un falso americano. Per cui   divenne una di quelle verità che non si dicono, «pour ne pas désespérer   Billancourt», come avrebbe detto Sartre. Fu un grande errore cui partecipai, e   sarebbe stato mortale. 
                      In Polonia e Ungheria cambiavano i gruppi dirigenti,   tenevamo le orecchie ritte, Pajetta ci canzonava: «Siete tutti un chi apre? chi   chiude?». La Polonia continuava a mutare, temevamo che si muovesse Rokossovski -   quante cose avevamo imparato in quei mesi - Rokossovski non si mosse, arrivò   Gomulka del quale non ricordo che ci fosse stato detto che era stato espulso dal   partito che era richiamato ora a dirigere, filtravano voci di consigli operai e   riviste che il PCI non apprezzava ma dei quali alcuni di noi, già avvezzi a più   d'una verità, erano curiosissimi. Da Cecoslovacchia e Germania silenzio. 
                      Poi   l'Ungheria si mise a urlare. La voce era spesso anticomunista: per noi c'era   differenza. Tuttavia l'articolo di Togliatti su «Irodalmi Uisag» ci fece   digrignare i denti ed è allora che partì la discussione più acerba, e non senza   morti e feriti. Come!? A Budapest non era un gruppetto, né solo gli   intellettuali del Circolo Petöfi, era la più grande fabbrica che insorgeva, una   intera classe operaia. Che succedeva? E si sussurrava che l'URSS poteva mandare   l'esercito, ma Lenin non aveva detto che una rivoluzione non si esporta con le   baionette? Il 30 ottobre l'URSS dichiarò solennemente che mai e poi mai avrebbe   invaso. Tirammo un respiro di sollievo, giusto il tempo per essere svegliati il   4 novembre dai carri armati a Budapest e dalle sparatorie che li accolsero. Buon   Dio! 
                      Restammo inchiodati. Gridavano gli avversari, il padronato lanciò agli   operai: «Scioperate per i vostri compagni di Budapest!». E forse gli operai   avrebbero scioperato - il comunicato della CGIL, scritto da Di Vittorio, fu una   cosa seria, non apprezzata in via delle Botteghe Oscure - se il suggerimento non   fosse venuto dalla Confindustria. Non scioperarono ma si lacerarono fra   comunisti e socialisti, sinistre e cattolici. Avevamo messo degli anni a   ricucire dopo il 1949 qualche filo, le Commissioni interne, e adesso si   spaccavano fra odio e angoscia. 
                      Socialisti amici e democratici e antifascisti   mi caddero addosso, la Federazione era asserragliata e chiusa, la Casa della   Cultura restò aperta mattina e sera; ero stata soprattutto io a ritessere i   rapporti spezzati nel 1948. Dove venivano a protestare, ad accusare? Da noi.   Franco Fortini mi telegrafò: «Spero che gli operai vi spacchino la faccia».   Fedeli almeno al motto `non scappare', organizzammo in quella baraonda una   discussione con socialisti e terze forze, da Roma venne Alicata. Quella sera io   ero andata alla Sezione della Brown Boveri, dove avevo trovato di tutto - quelli   che si disperavano, quelli che reputavano l'invasione giustissima, quelli che   sostenevano che non era vero niente. Ma a mezzanotte bisognava prendere l'ultimo   tram e correndo alla Casa della Cultura trovai ancora una lunga coda fin fuori e   scendendo le scale mi arrivò la voce di Alicata che gridava: «... perché in   questo momento l'esercito sovietico sta difendendo l'indipendenza   dell'Ungheria!». Seguì un ruggito. 
                      Non finì presto, la gente sfollò   esacerbata. Ma non ci eravamo sottratti a niente e questo fu l'unico   investimento a rendere. Mazzali della Federazione socialista, Musatti e Arnaudi   non lasciarono l'istituto, Fortini si ammansì. L'Italia degli anni seguenti vide   da Milano il declino del centrismo e su questo tornò a convergere   l'attenzione. 
                      Ma nel Partito non fu mai più come prima. Proteste,   allontanamenti, la frattura con chi si aggrappava alle ragioni dell'URSS come se   sentisse mancare l'ultima zattera. E qualcuno fra i rodaniani e alcuni grandi   intellettuali, Concetto Marchesi e Augusto Monti, agitava una dubbia bandiera:   quante storie, la rivoluzione non è un balletto, la democrazia viene dopo, è di   destra. Non mi piaceva. Ma quale beltà della repressione, noi avevamo parlato   d'un altro mondo, parlavamo d'un altro mondo. Si doveva far fronte, ma non si   poteva declamare. 
                      Io ero una dirigente federale di mezza tacca, avevo   imparato a tenere i nervi a posto e ordine in un'assemblea, ma da dieci anni era   come scalare una montagna ed essere regolarmente buttati giù. Il più pesante fu   tra me e me: la vicenda ungherese si è coagulata nella mia mente in una   fotografia, un funzionario appeso a un fanale davanti alla Csepel, il collo   spaccato e il volto scomposto dell'impiccato, mentre sotto di lui un paio di   operai della grande fabbrica in rivolta ridevano. Fu la prima volta che mi   dissi: - Ci odiano. Non i padroni, loro, i nostri ci odiano. 
                      Non sono mai   stata populista. Non può esserlo chi è venuto alla politica dal rifiuto del   fascismo; avevo conosciuto il poveraccio fascista, quello che s'era messo nella   milizia nel 1944 perché non sapeva dove altro andare, conoscevo chi al Sud si   faceva carabiniere o seminarista non avendo altre scelte ma poi diventava molto   prete e molto carabiniere. Le scelte prima le facciamo e poi ci fanno. Il povero   e l'oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno   sempre torto, lo pensavo e lo penso. E quello era un odio massiccio,   sedimentato; non si arriva a queste enormità senza un'offesa lungamente patita.   In quei giorni mi vennero i capelli bianchi, è proprio vero che succede, avevo   trentadue anni. 
                      Non ho mai pensato di lasciare. Come Ingrao, si parva licet.   Ma le domande che mi rivolgo sono in parte diverse da quelle che si scambiano   sulla «rivista» Pietro e Giuseppe. 
                      Primo. Ingrao si sente ingannato dal   silenzio di Togliatti. Sommessamente discuterei: ammettiamo, l'orribile   Togliatti ha nascosto tutto. Sappiamo che spudoratamente mentì nel 1956, avevano   taciuto o mentito lui e Dimitrov e Fischer, si dicevano le cose e le paure   sottovoce al buio e altrove, nessuno essendo al riparo dal sospetto. Ma è   proprio vero che noi più giovani nulla potevamo sapere né immaginare? Dei campi   si era cominciato a leggere su fonti non sospette. Di Tito, di Djilas il cui   libro era uscito, di Praga, del 1951 non ignoravamo tutto: non andammo a vedere,   non ci interrogammo, non interrogammo. O sì? Quando? La verità è che si vede   quel che si aspetta di vedere, quel che è tollerabile, quel che pare aiutarci a   vivere, a batterci. Se siamo stati ingannati, ci siamo volentieri lasciati   ingannare. 
                      Secondo. Facciamo l'ipotesi che avessimo saputo e immaginato, che   Togliatti avesse detto tutto almeno al gruppo dirigente, che il partito russo ci   avesse sbattuto in faccia tutto e sempre, che avremmo fatto? Avremmo detto nel   1948 o nel 1951: - Oddio! Questo non me lo dovevate fare, lascio? Se avessimo   avuto chiaro quel che ci è chiaro adesso? Se per magia ci fossero apparsi i   campi di Vorkuta e i corpi rappresi nel ghiaccio sul quale si muoveva   Solgenitsin? Del resto, che facemmo quando il rapporto di Kruscev lasciò ben   poco all'immaginazione? Tenere o lasciare? Abbassammo la testa sotto la   grandinata e tenemmo. 
                      Terzo. Ma come tenemmo? Minimizzando, evitando di   andare a fondo. E questo è stato il vero errore politico e, se vogliamo, etico.   Dicemmo che la denuncia era rozza come se questo ne diminuisse la portata, e   poiché in quei trent'anni successivi c'era stato anche ben altro - ed è vero -   Stalin non andava messo radicalmente in discussione, e tanto meno noi stessi   andavamo discussi. Questo facemmo. In nome d'uno storicismo mediocre, sentendoci   stretti come se le scelte fossero due: ammettere che tutto era un errore in   radice, oppure balbettare `ok, il prezzo è giusto' rispetto al positivo che ne è   venuto. 
                      Questa seconda scelta, fondata sull'ovvietà per cui il capitalismo   non diventa buono solo perché il socialismo ha prodotto un figlio deforme,   pareva di realpolitik ma s'è rivelata paralizzante e a medio termine fatale.   Lasciammo lì tutto, evitammo di metterci le mani, non demmo alcuna sponda ai   tentativi d'una opposizione socialista/comunista che in quei paesi si delineava   a stento, disprezzammo il dissenso, non capimmo lo sfascio che maturava e   pensammo che comunque potevamo restarne fuori. Peggio: credemmo che malgrado i   disastri interni l'URSS sarebbe rimasta, non fosse che per sua propria difesa,   una barriera anticapitalista, antimperialista. Non lo andiamo dicendo ancora   oggi di Cuba e della Cina? Un'analisi seria, radicale, non si fa. Non abbiamo   tempo, non tocca a noi. A chi tocca allora? 
                      Inclino a pensare che anche   Togliatti e Dimitrov abbiano ragionato, a rivoluzioni occidentali sconfitte,   fascismo galoppante e guerra incombente: `L'URSS, questa che c'è, è la sola   trincea. Se ne usciamo vivi, nel mio paese saremo diversi'. E in Italia questo   fu, con tutti i suoi difetti, lacune e reticenze, il partito nuovo. Nessuno che   io sappia, fuorché Nolte, contesta quello schierarsi negli anni trenta. E mi   pare leggera la tesi di alcuni studiosi dell'Istituto Gramsci: appena sconfitto   il nazismo e profittando di Yalta il PCI poteva rompere con l'URSS, scegliere   l'Occidente, tentare una bella socialdemocrazia. Allora? Sbaraccando la   Resistenza, che non certo in questa prospettiva s'era formata, solo momento di   identità nazionale? Passando dall'altra parte, come la Sfio, la Spd? Non è una   domanda irricevibile, visto come è finito il PCI, che peggio non poteva. Quale   partito fu effettivamente costruito in Italia nel 1945? Una grande forza   popolare classista e riformista o un partito comunista in senso proprio? Che   altro mise sul tavolo Berlinguer con il compromesso storico? Ma andrebbe posta   analizzando tempo, condizioni, rapporti di forza, la famosa geopolitica della   quale tanto si parla. E tenendo conto che un partito di massa è un corpo, sono   vite, azioni, simboli ed emozioni che diventano tessuto nel tessuto del paese.   Non tutto è verbale d'una Direzione, non tutto nel rapporto con l'URSS è   `politica estera'. 
                      Perciò non rimpovererei a Togliatti i suoi silenzi, non mi   sento imbrogliata, né sarei severissima con i silenzi dell'«Unità» e il famoso   editoriale di Ingrao sui fatti di Ungheria. Penso che non abbia saputo ma   neanche insistito per avere dei lumi per quella sua pietas del partito,   organismo che - ha sempre pensato - cresce assieme o muore, che lo determinò ad   altre prudenze. I suoi editoriali e interventi ai Comitati centrali di   quell'anno sono un ostinato attenersi all'Italia, difendere il partito,   scongiurare la separazione dai socialisti, stare sul terreno che conosceva. Fu   un modo di allontanare la Gorgone, certo. Ma aveva le sue ragioni. Quando però   cominciò a derivare in pura perdita? 
                      Perché ci sono tempi e tempi. Si può   capire che in piena guerra, o mentre ricuciva un partito operaio in un paese che   era stato fascista o conformista, Togliatti non potesse aprire il dossier   dell'Internazionale senza farsi fare a pezzi sul posto. (Non lo avrebbe fatto   neppure un Beppe Vacca fornito dei lumi attuali.) Ma nel 1956 non si poteva   gestire la faccenda meno al ribasso? Non considerare Kruscev un danno, non   aggirarlo? Non tener la base nella nursery, svezzarla, non lasciarla cieca ed   esposta? 
                      Eludemmo il perché del degenerare di quella rivoluzione, non   tentammo di leggerla né con una griglia marxista - per poco che frequentassimo   il marxismo - né storico-sociologica. Non ci chiedemmo come, abolita la   proprietà privata dei capitali, si riformassero illibertà e inuguaglianze.   Eppure la Nep ne aveva discusso. E se eravamo fin troppo convinti che una   rivoluzione non cade come un frutto maturo, implica una forzatura, e questa   forzatura ha un limite intrinseco - non era proibito leggere Lukács - dove lo   incontrò il partito russo? L'errore era già in Lenin quando ruppe con i   socialisti rivoluzionari? quando dissolse l'assemblea pansovietica? o dopo,   nella Nep? Non era intrinseco alla collettivizzazione delle terre   quell'avvitamento della violenza, o fu insufficiente la transizione? O il nodo è   la burocratizzazione denunciata da Trockij? Perché il partito/Stato era tornato   a determinare l'ineguaglianza che mutilava le vite, le menti e anche i corpi,   quando, attraverso quale passaggio? Il potere si dà sempre giustificazioni e   urgenze, le sue buone ragioni saltano fuori da tutte le parti, un leninismo   d'accatto affascina sempre vecchi e nuovi soggetti, che manco lo sanno, e a un   certo punto diventa un meccanismo irrecuperabile - ma in quale momento? In capo   a settant'anni siamo ancora lì a non sapere, non cercare, rimasticare la dualità   partito/masse, partito/Stato, avanguardia/base, centro/periferia, come se il   primo termine fosse in sé autoritario e il secondo taumaturgicamente   democratico. Di subalternità intellettuale si muore. 
                      Basta. La mancanza   imperdonabile è non avere aperto questa agenda. Di aver creduto che spento il   tiranno (tiranno ma grande, sussurravamo sempre per amor di base e uno   storicismo accomodante, e reso più grande da coloro che erano morti con il suo   nome sulle labbra), aboliti i gulag, finite le fucilazioni, il socialismo   sarebbe tornato a svolazzare come l'uccellino che, sorpreso da una gelata in un   campo sterminato, - Trombadori divulgava questa storiella - viene inopinatamente   sepolto dalla grande ma tiepida evacuazione d'una vacca; merda è, ma lo salva   dall'assideramento. E non capimmo che Breznev assiderava l'URSS senza più   bisogno dei campi. 
                      Eppure nei primi sessanta, Togliatti il prudentissimo   aveva aperto un discorso. Perché i suoi successori lo chiusero? Com'è che Longo   si sentì isolato su Praga? Perché Amendola, azzittito dal rimbrotto ricevuto   quando propose di «liberarsi dalla ipoteca sovietica», tornava a chiederlo a   Togliatti appena sepolto? Perché, fallito anche quella volta, tornò un difensore   arrabbiato della fedeltà all'URSS? Lui che quella società non la sopportava   neanche dipinta? Pajetta senza l'URSS si sentiva perso. Berlinguer, che   personalmente non nutriva speranza alcuna nella leadership sovietica, si guardò   bene dall'aprire il dossier, arretrando rispetto al Togliatti del 1964 e   limitandosi a calibrati strappi al vertice, tanto il silenzio tenuto con la base   si era rovesciato in timore che qualcuno da Mosca la lusingasse al punto da   spaccare il più forte PCI d'Occidente.  
                      Quando «il manifesto» fece - e non era   troppo presto, era il 1978, dieci anni prima del crollo del Muro - un convegno   sull'Est con le dissidenze interne o esiliate di sinistra, il PCI interdisse ai   suoi di parteciparvi; spedì Rosario Villari a leggere un testo predisposto e   soltanto Trentin venne e parlò e strinse la mano ai Michnik o Mlynar,   figuriamoci. (Foa ci mandò un telegramma di scherno.)  
                  Dieci anni dopo o poco più   gli epigoni del PCI, che erano stati zittissimi, avrebbero detto senza batter   ciglio e senza suscitare sollevamenti nella base: - L'URSS? Mai vista né   conosciuta. (E il mio vecchio amico Vittorio Foa la annovera fra le frivolezze   di gioventù.) 
                   
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