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Pierre Broué
La rivoluzione ungherese dei consigli operai |
I. Rivoluzione a Budapest
Dopo la rivolta di giugno, il 20 e 21 ottobre 1956 i lavoratori polacchi, mobilitati all’interno delle loro fabbriche, si preparano a resistere alla minaccia militare russa. La sera del 21 Radio-Varsavia proclama la vittoria della “Primavera d’ottobre”. Mosca ha ceduto. Il suo sgherro Rokossowsky è stato eliminato dal Politburo e diventa segretario il veterano Gomulka, gettato in prigione da Stalin. I lavoratori polacchi festeggiano in un clima di gioia la loro vittoria.
I lavoratori e la gioventù ungherese vengono a conoscenza di questa grande notizia. Lottano già da mesi.
Gli intellettuali hanno preso la parola per primi: hanno rivendicato libertà nell’arte e, di fronte all’impatto entusiasmante che si è prodotto, hanno parlato di libertà tout court. La gioventù li ha acclamati. “Non sono stato io ad aver spinto la gioventù verso la libertà”, dichiarerà lo scrittore comunista Gyula Hay, “ma è stata lei a spingermi… Io criticavo gli eccessi della burocrazia, i privilegi, le distorsioni, e più andavo avanti più sentivo di essere assecondato da un’ondata di sentimenti e di affetto… Si orientava verso di noi, scrittori, un desiderio irrefrenabile di libertà. [1]
Gli scrittori comunisti hanno formulato le rivendicazioni dei giovani. “È ora di finirla con questo regime di gendarmi e di burocrati”, ha proclamato Tibor Déry. [2] Gyula Hajdu, militante comunista, 74 anni, 50 anni di militanza, ha messo a nudo i burocrati: “Come potrebbero mai sapere quello che succede i dirigenti comunisti? Non vivono mai tra i lavoratori e la gente del popolo, non li incontrano sull’autobus perché tutti posseggono la loro auto, non li incontrano nei negozi o al mercato perché usufruiscono di propri magazzini speciali, non li incontrano all’ospedale perché dispongono di sanatori particolari [3]. La giovane giornalista Judith Mariassy risponde con fierezza ai burocrati che l’hanno redarguita: “La vergogna non sta nel parlare di questi magazzini di lusso e di queste case circondate dal filo spinato. La vergogna è che questi negozi e queste case esistano. Abolite i privilegi e non ne parleremo più” [4].
Al circolo Petofi, tribuna di discussione creata alla fine del 1955 dall’organizzazione della gioventù (DISZ), alcuni grandi dibattiti hanno permesso di porre pubblicamente i problemi politici che toccano tutti gli ungheresi e specialmente la gioventù, utilizzando i risultati del XX° congresso del PCUS in cui Krusciov, il 23 febbraio 1956, ha esposto il noto “rapporto segreto”: si inizia con un dibattito sull’economia marxista in marzo, sulla scienza storica e la filosofia marxista a maggio e a giugno, un incontro dei giovani coi vecchi militanti comunisti dell’illegalità usciti in buona parte dalle prigioni di Stalin e Rakosi, il 18 giugno, dibattiti sulla stampa e l’informazione il 28 giugno … dove sono stati coinvolti migliaia di partecipanti. In molti dibattiti il semplice contatto tra militanti di origini sociali, generazione ed esperienza differenti è sufficiente per far emergere la realtà sociale, il castello di menzogne del presunto socialismo staliniano. Il 18 giugno la signora Rajk, vedova del dirigente comunista assassinato nel 1949 come “titista” e “agente dell’imperialismo” dopo un processo costruito da Rakosi per ordine di Stalin, indicando i burocrati che siedono alla tribuna esclama: “Non soltanto avete ucciso mio marito, ma avete anche ucciso il senso della decenza in questo paese. Avete distrutto da cima a fondo la vita politica, economica e morale dell’Ungheria. Non si possono riabilitare gli assassini: bisogna punirli!”. Dopo l’intervento di Gyula Hajdu decine di migliaia di giovani iniziano a dire: “I dirigenti devono andarsene”.
Agli occhi degli intellettuali e dei comunisti che animano il circolo Petofi un uomo incarna il cambiamento di politica, la “riforma” del partito: Imre Nagy, veterano del partito, per lungo tempo in URSS ma legato alla tendenza “bukhariniana” e che, dopo il suo breve periodo al potere nel 1953, consolida nel partito e nei circoli di simpatizzanti le speranze degli avversari di Rakosi. Secondo il filosofo Gyorgy Lukacs, per gli animatori del movimento chiamato “comunista liberale” o del “comunismo nazionale”, per i comunisti imprigionati con l’accusa di titismo ai tempi di Stalin e da poco riabilitati, gli Janos Kadar e i Geza Losonczy, ed anche per i giovani che danno loro fiducia, si tratta di cambiare la direzione del partito, sostituendo il gruppo Rakosi-Gero con quello attorno a Nagy: sarà allora possibile mettersi in marcia verso il socialismo autentico, liberato dalle scorie dello stalinismo.
La “destalinizzazione” ha decuplicato le speranze. Ha creato le condizioni perché potessero esprimersi alla luce del giorno. I risultati sono però asfittici. Certo Rakosi è stato allontanato, ma Gero è rimasto segretario generale del partito. Gero, l’uomo della GPU [5]. Rajk è stato riabilitato ma dai suoi assassini, i quali hanno pure portato la sua bara sulle spalle. Déry e Tardos sono stati espulsi dal partito il 30 giugno 1956, ben dopo il rapporto Krusciov. Il tetro Farkas e suo figlio, “il torturatore”, sono liberi. Gero è andato a Belgrado per chiedere a Tito un certificato di “destalinizzazione”. Il “titoista” Kadar lo ha accompagnato.
Non è una destalinizzazione di tal genere quella che cercano i giovani ed i loro portavoce, gli scrittori comunisti. Vogliono una destalinizzazione autentica, vogliono finirla con gendarmi e burocrati, vogliono un socialismo veramente democratico. Sanno anche, da qualche tempo, di avere al proprio fianco i lavoratori, più lenti a mettersi in movimento ma che andranno fino in fondo. Nella sede di Irodalmi Ujsag, il giornale dell’Unione degli Scrittori, il tornitore Laszlo Pal dichiara, in nome dei 40mila operai di Csepel, Csepel-la-rossa: “Finora siamo rimasti in silenzio. Durante questi tempi tragici abbiamo imparato ad essere silenziosi e ad andare avanti con molta cautela. In passato bastava una piccola osservazione perché l’operaio fosse punito e perdesse il suo pane quotidiano… Dopo il XX congresso le porte si sono aperte. Tuttavia, finora, parliamo solo di responsabili minori. Ci chiediamo se non sia giunta l’ora di gettare piena luce sui primi e veri colpevoli. Vogliamo sapere la verità. Non siamo assetati di sangue ma di verità. Siate sicuri, parleremo anche noi” [6].
Così gli operai uniscono la loro forza tranquilla al movimento degli intellettuali. Csepel ha appena dato la sua cauzione a Irodalmi Ujzag, proprio come a Varsavia la fabbrica di Zeran l’ha portata alla redazione di Po Prostu. In Polonia questa congiunzione ha deciso la vittoria. Ma a Budapest c’è Gero e dietro di lui la polizia politica, l’AVH.
I burocrati del Cremino tirano le somme. Hanno appena subito una sconfitta e sono, come sempre, pronti ad ogni tipo di crimine per evitare una seconda vittoria rivoluzionaria che lascerebbe alla burocrazia i giorni contati.
21 e 22 ottobre
Il 21 gli studenti del Politecnico di Budapest organizzano un’assemblea. Come a Varsavia gli studenti delle classi superiori dell’insegnamento tecnico sono l’avanguardia del movimento rivoluzionario. Chiedono la libertà di stampa, l’abolizione della pena di morte, l’abolizione dei corsi obbligatori di “marxismo”, un processo pubblico per Farkas. Come i loro compagni di Szeged, che, in più, hanno richiesto la riduzione degli alti salari, quelli dei burocrati, minacciano di sostenere il proprio programma con manifestazioni di piazza se le loro domande non verranno soddisfatte [7].
Nella città industriale di Gyor si tiene un’assemblea pubblica che il giornale locale del PC ungherese descrive come “il primo dibattito pubblico del tutto libero”. Gyula Hay cita gli esempi cinese e jugoslavo, reclama la “chiusura delle basi sovietiche in Ungheria” come parte integrante di una politica di indipendenza nazionale, afferma che la stampa è diretta “in maniera inetta” e dipinge l’espulsione di Déry e Tardos come un atto intimidatorio destinato a preparare il terreno a nuove misure contro lo stesso Ime Nagy. 2mila persone lo acclamano [8].
Il 22 all’università Lorand Eotvos di Budapest c’è un’assemblea degli studenti del Politecnico. Alcuni giorni prima, i meeting all’università politecnica di Varsavia sono stati il cuore della rivoluzione. È là che sono intervenuti i rivoluzionari di Zeran. È là che la gioventù rivoluzionaria di Varsavia ha dato il suo appoggio a Gomulka. I giovani ungheresi riuniti al Politecnico di Budapest sono ansiosi di giocare lo stesso ruolo. La riunione è turbolenta. Gli oratori, tra cui si nota uno studente anziano, Joszef Szilagy, un vecchio comunista amico di Imre Nagy, reclamano il ritorno al potere di Nagy. Anche la gioventù ungherese cerca il suo Gomulka. L’obiettivo della gioventù ungherese è una “società socialista veramente indipendente”; essa pensa di arrivarci attraverso il cambiamento della direzione del partito che richiede a gran voce. Gli obiettivi immediati sono fissati in una risoluzione programmatica di 16 punti - i 16 punti della gioventù - che prova a toccare tutte le rivendicazioni immediate della nazione ungherese.
1) Esigiamo il ritiro immediato dall’Ungheria di tutte le truppe sovietiche, in conformità col trattato di pace siglato nel 1947 tra URSS e Ungheria.
2) Esigiamo l’elezione a scrutinio segreto di tutti i dirigenti del partito, ad ogni livello, dal basso verso l’alto, affinché questi convochino appena possibile un congresso del partito che eleggerà una nuova direzione centrale.
3) Esigiamo la formazione di un governo presieduto dal compagno I. Nagy e che siano sostituiti tutti i dirigenti criminali dell’epoca stalino-rakosista.
4) Esigiamo dibattiti pubblici sul caso Farkas, Mihaly e banda, ed anche il loro rientro nel nostro paese ed un giudizio davanti al tribunale del popolo per Matyas Rakosi, principale responsabile del fallimento del paese e dei crimini commessi nell’ultimo periodo.
5) Esigiamo l’elezione a scrutinio segreto ed uguale, con la partecipazione di più partiti, di una nuova Assemblea nazionale. Esigiamo che sia garantito il diritto di sciopero per i lavoratori.
6) Esigiamo un nuovo accordo e la revisione delle relazioni culturali, economiche e politiche jugoslavo-ungheresi e sovietico-ungheresi, sulla base del principio di non intervento reciproco nelle questioni interne e di una piena uguaglianza economica e politica.
7) Esigiamo la riorganizzazione di tutta la vita economica ungherese con la partecipazione dei nostri specialisti. Esigiamo la riorganizzazione di tutto il sistema economico sulla base del piano, in modo da utilizzare le risorse nazionali per gli interessi vitali del nostro popolo.
8) Esigiamo che siano resi pubblici i trattati riguardanti il commercio con l’estero e i dati reali sull’entità dei danni di guerra. Esigiamo una informazione pubblica e completa sulle concessioni proposte ai russi, sullo sfruttamento e lo stoccaggio dell’uranio del nostro paese. Esigiamo che l’Ungheria possa fissare liberamente, in moneta forte, il prezzo di vendita del suo uranio sulla base del prezzo vigente sul mercato mondiale.
9) Esigiamo la revisione completa delle norme sui ritmi di lavoro nell’industria, come anche il soddisfacimento delle rivendicazioni salariali dei lavoratori manuali e intellettuali. I lavoratori pretendono che sia fissato un minimo vitale.
10) Esigiamo una nuova organizzazione del sistema delle consegne obbligatorie e l’utilizzo razionale dei prodotti agricoli. Esigiamo un trattamento paritario per i piccoli contadini lavoratori.
11) Esigiamo la revisione davanti a Tribunali, realmente indipendenti, di tutti i processi economici e politici e la riabilitazione di tutti gli innocenti condannati. Esigiamo il trasferimento immediato in Ungheria di tutti i cittadini e i prigionieri trasferiti coattivamente in URSS, compresi i condannati.
12) Esigiamo una radio libera, la completa libertà di stampa, di parola e di opinione e l’uscita di un nuovo quotidiano a grande tiratura, organo della MEFESZ (l’organizzazione indipendente degli studenti che si era appena costituita).
13) Esigiamo che la statua di Stalin, simbolo dell’oppressione politica e della dittatura stalinista, sia abbattuta al più presto e che al suo posto sia eretto un monumento ai martiri e agli eroi della lotta per la libertà del 1848-1849.
14) Al posto di simboli del tutto estranei al popolo ungherese, esigiamo il ritorno alle vecchie insegne di Kossuth. Esigiamo una nuova uniforme degna delle tradizioni nazionali della Honved (esercito ungherese, NdT). Esigiamo che il 5 maggio, anniversario della proclamazione dell’indipendenza nel 1848 sia festa nazionale e giorno festivo e che il 6 ottobre, giorno dei funerali solenni di Rajk, sia giorno di lutto e congedo scolastico.
15) La gioventù delle università politecniche di Budapest proclama con entusiasmo unanime la sua solidarietà completa con la classe operaia e la gioventù di Varsavia e della Polonia nella sua relazione col movimento polacco per l’indipendenza.
16) Gli studenti dell’università politecnica delle costruzioni costruiscono da subito le organizzazioni locali della MEFESZ ed hanno altresì deciso di convocare a Budapest per sabato 27 ottobre un Parlamento della Gioventù in cui tutti i giovani del paese saranno rappresentati da propri delegati.
La risoluzione è inviata al partito ed al governo. Gli studenti ne chiedono la pubblicazione sulla stampa e la lettura alla radio. In seguito manifestano la “loro simpatia fraterna ai compagni polacchi in lotta per la sovranità e la liberazione” [9]. Come a Varsavia, dove l’assemblea del Politecnico del 19 ottobre ha parlato a nome di tutta la gioventù rivoluzionaria, gli studenti ungheresi con questo gesto sottolineano la carica di internazionalismo proletario che anima questi giovani. Professori ed allievi dell’Accademia militare “Miklos Zrinyi”, scuola di formazione per ufficiali, adottano i 16 punti. Col medesimo spirito di simpatia militante verso la rivoluzione polacca, il circolo Petofi lancia per l’indomani, 23 ottobre, la parola d’ordine di una manifestazione pubblica in solidarietà con la Polonia. Il circolo vota una risoluzione in cui chiede la convocazione urgente di un Comitato Centrale, l’esclusione di Rakosi dal CC e dall’Assemblea nazionale, un processo pubblico per Farkas, l’appello a Imre Nagy, reintegrato il 14 ottobre nel partito, perché diriga il paese ed un cambiamento complessivo della politica governativa per mezzo di una informazione completa e di un dibattito pubblico.
La manifestazione pacifica del 23 ottobre
L’indomani l’appello del circolo Petofi è riprodotto sulla stampa. Il fatto contribuisce al tempo stesso alla mobilitazione ed all’ottimismo, dimostrando che il cambiamento è possibile. Nel frattempo Imre Nagy, rientrato in fretta e furia dalle rive del lago Balaton dove si stava riposando, apprende dai suoi amici il corso degli avvenimenti: pressato da Miklos Gimes perché prenda la testa della manifestazione onde evitare il peggio, si tira indietro con ostinazione invocando i rischi di una provocazione organizzata contro di lui da Gero. Alle 13 il ministro degli Interni annuncia che la manifestazione è vietata. Il suo portavoce si fa fischiare dagli studenti. Alle 14.30 il divieto è annullato quando si viene a sapere della decisione della Gioventù Comunista di aderire alla manifestazione in solidarietà con i lavoratori polacchi. Il divieto non ha indebolito la manifestazione: in ogni caso, i giovani erano decisi a sfidare il divieto. Il Comitato Centrale della Gioventù comunista (DISZ) l’ha affermato con nettezza: “Chi chiede che la nostra gioventù esprima il suo punto di vista con prudenza e cautela ignora lo sviluppo storico e l’autentica posizione della gioventù ungherese.” [10].
La manifestazione inizia alle 15. Il suo iniziale divieto, più volte ripetuto alla radio, e poi la decisione improvvisa di autorizzarla, hanno prodotto uno choc. Tutta la popolazione ha sentito l’esitazione dei dirigenti e considera la decisione finale delle autorità come un cedimento davanti alla forza del movimento. Tutta Budapest è in piazza. In testa, alcuni giovani portano immensi ritratti di Lenin [11]. Ci sono molte bandiere ungheresi ed una sola bandiera rossa, quella degli allievi dell’Istituto Lenin che scandiscono gli stessi slogan dei loro compagni: “Nagy al potere”, “Via i russi”, “Processo per Rakosi”. Gli studenti hanno prodotto striscioni enormi: “Non ci fermiamo a metà strada: liquidiamo lo stalinismo”, “Vogliamo nuovi dirigenti: abbiamo fiducia in Nagy”, “Indipendenza e libertà” e, ovviamente” “Viva i polacchi”. Si canta la Marsigliese, per gli ungheresi canto rivoluzionario, e viene scandito il poema di Sandor Petofi “La libertà o la morte”. A piedi o dalle piattaforme degli autobus, gli studenti diffondono i volantini ciclostilati clandestinamente che riproducono la risoluzione del giorno prima. Ai piedi della statua a Petofi si declama un suo poema, si legge la risoluzione dell’università dopodiché un giovane, solennemente, scrive la data 23 ottobre 1956 sul basamento della statua Ai piedi della statua dedicata al generale Bem, eroe polacco dell’indipendenza ungherese, tiene un discorso Peter Veres, presidente dell’Unione degli Scrittori. Si canta. Sono le 17.45 ed i manifestanti iniziano a defluire. Si potrebbe pensare che sia tutto finito. In realtà, tutto comincia. Uffici e fabbriche si svuotano. Impiegati ed operai si uniscono agli studenti. “Martedì noi abbiamo lavorato”, racconta un giovane elettricista di Ujpest, “ma mentre lavoravamo parlavamo. Abbiamo parlato di salari e dei risultati della riunione degli scrittori. Avevamo delle copie della loro dichiarazione e sapevamo quello che intendevano dire quando affermavano che non poteva continuare così. Non riuscivamo più a vivere del nostro lavoro. Finito il lavoro abbiamo visto gli studenti che manifestavano e li abbiamo raggiunti” [12].
Allora operai, impiegati e studenti riempiono le strade. Gli autobus si fermano.
Tutta Budapest è in strada.
Tutta Budapest dice che la misura è colma. Ci vuole un cambiamento. Si formano dei gruppi, si mettono in piedi piccoli cortei. Ci si sparpaglia ovunque. Non c’è una direzione ma una volontà comune di manifestare, una unanimità contro i dirigenti stalinisti ed i loro padroni della burocrazia russa. Alla fine, la massa si dirige verso il Parlamento scandendo ripetutamente “Nagy! Nagy!”. Davanti al Parlamento, la folla è impaziente, sempre più numerosa, scalpita fremente e si irrita. Dopo un po’ viene annunciato che Gero è rientrato da Belgrado e parlerà alla popolazione dalla radio. È il momento tanto atteso dalla maggioranza dei manifestanti. Per tutta la giornata si sono visti in mezzo a loro reporter e fotografi. Non ci sono stati incidenti con la polizia. Gero parlerà. Gero cederà, annunciando una riunione del Comitato Centrale che designerà Nagy alla testa del governo. I lavoratori di Budapest aspettano che Gero sancisca la loro vittoria chinandosi davanti alla loro volontà. Le manifestazioni di piazza avranno imposto il cambiamento nella direzione del PC: i comunisti liberali prenderanno in mano la situazione.
Così, alle 20, Gero parla: parla da burocrate quale egli è, servile verso i suoi padroni, arrogante coi lavoratori. Certo riconosce che il partito ed il governo hanno forse compiuto alcuni errori. Convoca certo il Comitato Centrale ma per il 31 ottobre, otto giorni dopo: tanta acqua scorrerà sotto i ponti del Danubio. Però, più grave ancora, non si accontenta di temporeggiare ma minaccia e insulta: “Chi pretende che i nostri rapporti economici e politici non sono basati sull’uguaglianza mente spudoratamente”. Il vecchio torturatore dei rivoluzionari di Barcellona afferma senza indugi che non vuole “mescolarsi alle questioni interne polacche”. Parla di “canaglie”, di “manifestazioni nazionaliste”. Domanda:” “Volete aprire la porta ai capitalisti?”. Conclude affermando che le manifestazioni di piazza “non fermeranno il partito ed il governo nel perseguimento degli sforzi che porteranno alla democrazia socialista” [13]. Ha parlato il burocrate, l’uomo di Mosca: la “destalinizzazione” sarà guidata dagli stalinisti; se i lavoratori non sono contenti, è che sono controrivoluzionari e gli si risponderà come conviene. Gli sgherri dell’AVH [14] avrebbero ben presto mostrato concretamente la natura della sanguinosa risposta di Gero.
L’AVH spara: è l’inizio dell’insurrezione
Tutta Budapest aveva ascoltato Gero. Tutta Budapest si sentì insultata dal suo discorso. I lavoratori e gli studenti, decine di migliaia di giovani e di adulti avevano appena manifestato con chiarezza la loro volontà, e Gero li aveva insultati. Hanno però il controllo della strada, lo avvertono e sono intenzionati a mostrarlo e ad approfittarne. Nagy, di fronte al Parlamento, cerca di pronunciare parole di pacificazione, promette che agirà per avvicinare la riunione del CC. Uno studente dà una personale interpretazione della sua tattica: “Non è che un privato cittadino e ha paura di pronunciarsi sulle nostre rivendicazioni a causa di Gero” [15]. Una parte dei giovani si erano già recati presso la sede della radio per esigere la diffusione della risoluzione approvata in Università. Una delegazione esigeva la lettura dei “sedici punti” e un “microfono in mezzo alla manifestazione” per consentire al popolo di esprimere le sue idee. Migliaia di manifestanti si erano diretti alla piazza dove si ergeva la statua gigantesca di Stalin ed iniziavano ad applicare il loro programma buttandola giù. Siccome la delegazione - accompagnata da Peter Erdos del circolo Petofi - tarda ad uscire dal palazzo della Radio l’ansia si impadronisce dei loro compagni fermi davanti alla porta: forse i delegati sono stati arrestati?
Il discorso di Gero produce l’effetto dell’olio gettato sul fuoco, confermando le paure dei più pessimisti. I giovani manifestanti iniziano a sfondare le porte per liberare i loro compagni. Nella confusione che si genera partono i primi spari. Gli uomini dell’AVH appostati nelle vicinanze del palazzo sparano: ci sono tre morti … È un giovane architetto a parlare, era tra i manifestanti: “Fu il colpo finale. Nella massa alcuni avevano delle carabine precedentemente prese ad alcuni ufficiali della MOHOSZ (“Federazione ungherese dei volontari della difesa”, un’organizzazione sportiva para-militare sostenuta dal partito). Risposero al fuoco dell’AVH come meglio poterono.
È allora che molti camion e carri armati si mossero da Buda ma né gli ufficiali né i soldati spararono sul popolo. Non fu diramato nessun ordine e i militari restarono sui camion. Cominciarono a far scivolare le loro armi nelle mani che si protraevano verso di loro”. Più tardi, nella serata, mentre i combattimenti continuano, due ufficiali dell’esercito ungherese smontano da un carro e, nell’intenzione chiara di interporsi, avanzano disarmati verso l’immobile della Radio. Sono abbattuti dall’AVH.
Le fucilate della Radio sono la scintilla della battaglia generale.
I lavoratori si armano: le carabine della MOHOSZ e le armi prelevate dalle armerie servono come capitale di partenza. Si dirigono davanti alle caserme. Come a Barcellona nel 1936, soldati aprono le porte degli arsenali e dei magazzini oppure lanciano fucili e mitragliatrici dalle finestre. Altri portano in strada camion pieni di armi e munizioni e le distribuiscono. Altrove, come alla caserma Hadik, i gruppi di operai che vogliono armarsi trovano una resistenza soltanto formale. Si spara dappertutto nelle strade di Budapest e compaiono le prime barricate. Finora l’esercito è rimasto neutrale ma ora il governo gli dà l’ordine di intervenire contro gli insorti. Il racconto che segue, ripreso da un testimone inglese, descrive il momento altamente drammatico in cui un’unità dell’esercito passa nelle file della rivoluzione:
“Le truppe della Honvédség [16]. Una donna che canta, uno sconosciuto che alza una bandiera, un esercito che si squaglia sotto il fuoco della rivoluzione, operai e contadini in divisa si uniscono ai loro fratelli di classe … avevano preso posizione in un punto strategico, un incrocio. Una massa d’insorti si era fermata a circa 60 metri da quel punto e un dialogo si aprì tra loro ed un ufficiale - scambio di idee che non era fatto di insulti ma di argomentazioni politiche. L’ufficiale, assicurando loro che le rivendicazioni avrebbero ottenuto soddisfazione, li invitava ripetutamente a tornare nelle loro case. Era evidente che avrebbe fatto tutto per evitare l’uso della forza. Nel lungo silenzio durante la discussione si udì la voce di una donna che intonava l’inno nazionale di Kossuth. L’effetto fu fulmineo. Tutta la massa, operai, tassisti, studenti e ragazzi si tolsero il cappello e si misero in ginocchio: da un istante all’altro tutti si erano messi a cantare l’inno con la donna. I soldati erano anch’essi commossi e terribilmente tesi. Qualcuno alzò la bandiera tricolore ungherese da cui era stata strappata la stella rossa. I soldati abbandonarono i ranghi e corsero ad unirsi ai manifestanti.”
Mentre i combattimenti si inaspriscono in tutta la città, i delegati studenteschi, incontratisi dopo il discorso di Gero, decidono di costituirsi in organismo permanente. Si forma il Comitato rivoluzionario degli studenti presieduto da un militante comunista, Ferenc Merey, professore di psicologia. Il comitato installa il suo quartier generale alla facoltà di Lettere ed inizia a funzionare, centralizzando le informazioni, l’attività dei gruppi armati, l’azione dei gruppi che contattano i soldati, diffondendo i volantini, facendo appello al popolo perché si unisca alla rivoluzione ed alla lotta armata contro i poliziotti dell’AVH di Gero. Infatti, contro i giovani ed i lavoratori di Budapest, sono rimasti solo i detestati poliziotti dell’AVH. Verso le 11 Szabad Nep, organo del partito, fa uscire un volantino per annunciare la riunione del CC e dichiara: “La redazione di Szabad Nep assicura al partito e al popolo che essa non sosterrà mai quelli che vogliono rispondere con le fucilate ed il terrore alla voce ed alle richieste del popolo” [17]. Il Comitato Centrale delibera. Tutta Budapest si batte.
II. Combattenti per la libertà e consigli operai
Nella notte tra il 23 ed il 24, mentre i rivoluzionari armati attaccano gli Avos dappertutto, il Comitato Centrale del PC delibera. Non sappiamo nulla di preciso sui suoi dibattiti, all’infuori del fatto che vi si sono opposte due tendenze in merito al modo più efficace per far tornare l’ordine: attraverso la repressione brutale o per mezzo di alcune concessioni. Conosciamo soltanto le decisioni adottate, segnate dalla politica di Gero e dei suoi padroni moscoviti. Poco importa che siano state o meno il frutto di una telefonata con Krusciov. È certo invece che, comportando la decisione dell’entrata in scena delle truppe russe per schiacciare l’insurrezione, esse non possono essere state prese senza l’accordo di Mosca.
L’astuzia della GPU: Nagy sostiene l’intervento russo
Mentre i militanti comunisti di Budapest sparano contro gli Avos, quando solo gli Avos si battono per difendere dalla gioventù rivoluzionaria il detestato regime di Gero e dei suoi burattinai del Cremino, il Comitato Centrale del partito continua ad essere lo strumento fidato della GPU. Quando le masse, armate, si sollevano contro il regime dei gendarmi e dei burocrati, l’azione dell’organismo “dirigente” del partito mostra quante illusioni nutrissero nei suoi confronti quei comunisti fiduciosi che una sua convocazione anticipata avrebbe portato un “cambiamento di linea” e un “cambiamento di direzione”.
In seguito alla defezione dell’esercito e della polizia, la grande decisione presa in nottata è l’appello alle truppe russe per “mantenere l’ordine” e proclamare la legge marziale. I burocrati del Cremino ed i loro agenti dell’apparato ungherese sono decisi a conservare ad ogni costo il controllo della situazione e ad affogare nel sangue la rivoluzione nascente. Dalle 4,30 di mattina i blindati sovietici si dirigono verso Budapest di cui bloccano le uscite. I soldati russi sono stati informati di dover andare a combattere una “controrivoluzione fascista appoggiata dalle truppe occidentali” [18]. Gli Avos ricevono rinforzi considerevoli: blindati, artiglieria e fanteria si riversano nella capitale insorta.
Qualche ora prima il Comitato Centrale ha deciso di fare appello a Imre Nagy per formare un nuovo governo: Geza Losonczy, Ferenc Donath, Gyorgy Lukacs, Zoltan Szanto, tutti seguaci di Nagy, entrano nel CC. Donath, Nagy, Szanto diventano membri del nuovo Politburo di 11 membri da cui sono stati allontanati alcuni stalinisti più noti. Ma nulla di fondamentale è cambiato. Gero mantiene la carica di segretario generale del partito nonché il controllo dell’apparato. I comunisti oppositori sono semplici ostaggi in seno alla nuova direzione. Nagy è la copertura all’ombra della quale Gero, padrone dell’apparato, continua a portare avanti la politica dei burocrati del Cremino. Ma c’è di più: il decreto che istituisce la legge marziale e l’appello alle truppe russe sono decisioni che si suppone siano state prese dal governo Nagy. Nagy ha le mani legate, legate nel sangue dei lavoratori. È in suo nome che russi ed Avos si apprestano a mitragliare gli insorti che hanno chiesto e domandano ancora la sua ascesa al potere. La parabola dei sostenitori della “riforma” del partito si precisa: la burocrazia si serve della loro popolarità per disorientare e disarmare i rivoluzionari; ostaggi dell’apparato, portano assieme ad esso la responsabilità dei suoi crimini.
Nagy parla
Imre Nagy, che aveva rifiutato di prendere la parola alla manifestazione della mattina del 23, che aveva rifiutato di parlare - malgrado l’intervento insistente del suo amico Geza Losonczy - la sera del 23 per lanciare un appello alla calma, questa volta è invitato a parlare dagli stessi dirigenti, dal Comitato Centrale. Su richiesta del Politburo, in tarda serata, ha cercato di arringare i manifestanti che stazionavano davanti al Parlamento, in piazza Kossuth, prima di recasi al palazzo del Comitato Centrale dove è informato della decisione presa nel frattempo a suo proposito. Quel palazzo, circondato di carri armati russi, Nagy non lo abbandonerà per diversi giorni, isolato materialmente non solo dalla realtà, di fronte al movimento rivoluzionario che deborda, della repressione che lo colpisce in suo nome, ma anche dai suoi amici che riusciranno a riprendere contatto con lui solo alcuni giorni dopo, mescolandosi alle delegazioni operaie che Nagy sarà autorizzato a ricevere.
Eppure, nel corso della notte, all’indomani della sua “nomina”, sulle onde di Radio-Kossuth-Budapest egli si rivolge al popolo ungherese: “Su ordine del Comitato Centrale, sono stato nominato presidente del Consiglio. Ungheresi, amici e compagni, vi parlo in un’ora grave… posso garantirvi che ho la possibilità di realizzare il mio programma politico basato sul popolo ungherese guidato dal partito comunista… Sono presidente del Consiglio ed avremo presto la possibilità di realizzare la democrazia in tutto il paese. Prego tutti gli uomini e le donne ed ogni giovane di non perdere la testa” [19]. La battaglia continua e si estende senza tregua. La radio lancia appelli impauriti agli operai, agli studenti, ai giovani. Ai microfoni di Radio-Kossuth passano rappresentanti della Chiesa, dei vecchi partiti - il “piccolo proprietario” Zoltan Tildy, il socialdemocratico Szakasits -, dei sindacati. I dirigenti del circolo Petofi dichiarano di non aver voluto il “bagno di sangue” e chiedono ai giovani di gettare le armi. Il governo promette un’amnistia completa a chi abbandonerà le armi prima delle ore 14. Poi vengono concesse nuove scadenze e si alternano promesse e minacce. La radio diffonde gli appelli delle madri ai figli combattenti, invita ad aprire le finestre perché gli insorti possano ascoltare dalla strada le promesse che il governo fa alla radio. Nessuna manovra modifica alcunché. Tutta Budapest si batte.
Quelli che si battono: gli operai
Le trasmissioni di Budapest su Radio-Kossuth e Radio Petofi sono significative: il grosso dei combattimenti si svolge attorno alle fabbriche. I loro nomi tornano in tutti gli appelli ed i comunicati governativi: Csepel, Csepel-la-Rossa, le fabbriche di Ganz, Lang, le fabbriche “Klement Gottwald”, “Jacques Duclos”, i quartieri di Ujpest, Angyafold. I quartieri proletari sono i bastioni dell’insurrezione. Come dichiara ad un corrispondente dell’Observer un “combattente della libertà” rifugiato in Austria: “Gli studenti hanno cominciato la lotta ma, quando si è sviluppata, non avevano né il numero né la capacità di battersi così duramente come i giovani operai” [20]. Lasciamo la parola a uno di loro, 21 anni, che racconta le vicende di mercoledì vissute nella sua fabbrica di Ujpest: “Mercoledì mattina (24 ottobre) è iniziata la rivolta nella nostra fabbrica. Era spontanea e non organizzata. Se fosse stata organizzata, l’AVH avrebbe saputo e l’avrebbe schiacciata prima che esplodesse. I giovani operai hanno rotto il ghiaccio e gli altri li hanno seguiti… Di solito iniziamo il turno di lavoro alle sette. Chi di noi viene in treno dai quartieri periferici aspetta l’arrivo degli altri operai in fabbrica. Appena prima delle sette, un camion carico di giovani operai armati è arrivato davanti alla porta. Quando uno di loro ha iniziato a sparare contro la stella rossa al di sopra della fabbrica un membro dell’amministrazione ha dato l’ordine di chiudere le porte. Eravamo divisi in due gruppi, quelli all’interno e quelli all’esterno. Noi che eravamo dentro abbiamo sfondato le porte del locale della Mohosz e preso le carabine. Una responsabile comunista, una donna, ha cercato di fermarci piazzando una guardia davanti alle armi. Non poteva funzionare perché tutti - compresi i capireparto - erano uniti. Siamo usciti dalla fabbrica coi fucili ed abbiamo marciato verso la città. Quando abbiamo iniziato la nostra azione non avevamo contatti con nessuno. Non avevamo collegamenti con nessuna fabbrica. Però, mentre avanzavamo, eravamo raggiunti da altri operai, sempre più numerosi, alcuni in armi. All’angolo di via Rakoczih, uno studente universitario ha cominciato ad organizzarci in piccoli gruppi ed a spiegarci le parole d’ordine che bisognava lanciare” [21].
Si forgiava così, nelle strade, la fusione dei giovani combattenti rivoluzionari. Contemporaneamente, il Comitato rivoluzionario degli studenti, diventato “Comitato rivoluzionario degli studenti in armi”, si allargava. Un postino del comitato racconta: “All’inizio era formato da studenti delle scuole di eccellenza e dell’università ma in seguito vi entrarono soldati e giovani operai. Penso che tutti fossero eletti da comitati di base, a loro volta espressione di singole organizzazioni di studenti, operai e soldati” [22]. Pare che nelle prime ore della mattinata l’Accademia Kossuth, scuola militare con 800 allievi, si sia unita all’insurrezione, coi suoi quadri tecnici e le sue armi.
Le fucilate davanti al Parlamento
Le fucilate in piazza del Parlamento sono state giovedì. Questo episodio dimostrava ai lavoratori di Budapest ancora esitanti, con chiarezza e in modo definitivo, che per ottenere la realizzazione delle loro rivendicazioni non c’era alternativa alla lotta rivoluzionaria armata, e che deporre le armi sarebbe stato un suicidio a favore di Gero. Migliaia di operai e studenti disarmati si recarono al Parlamento per esigere la deposizione di Gero, la liberazione dei loro dirigenti arrestati a partire dal 23 ed un incontro immediato con Imre Nagy. In piazza i giovani accerchiavano i carri armati russi fraternizzando coi soldati. Gli Avos, nascosti sui tetti del palazzo del ministero degli Interni, in faccia al Parlamento, aprirono il fuoco. Anche i blindati iniziarono a sparare; così, i manifestanti si trovarono presi tra due fuochi e trecento cadaveri restarono sul terreno. Proprio in quel momento alla radio, il capo del futuro governo - Nagy senza potere, Nagy ostaggio dell’apparato, Nagy prigioniero - moltiplicava gli appelli alla calma ed alla resa … Portando sulle spalle i cadaveri dei loro compagni, brandendo bandiere impregnate del loro sangue, chi riuscì a sfuggire si sparse in tutta la città al grido di “uccidono gli operai” [23]. Non era più possibile dubitare, ormai: agli occhi dei giovani rivoluzionari di Budapest era chiaro che Nagy era senza potere, fosse o meno prigioniero, ed altresì che Gero deteneva il potere reale e, dietro di lui, i Russi, e, non ultimo, che ci si doveva battere, qualsiasi cosa Nagy affermasse, contro gli Avos ed i Russi. Niente sintetizza meglio questo stato d’animo che il volantino diffuso nel pomeriggio, dopo il massacro, firmato “Gli studenti e gli operai rivoluzionari”: “Facciamo appello a tutti gli ungheresi allo sciopero generale. Finché il governo non soddisfa le nostre rivendicazioni, finché gli assassini non sono chiamati a rendere conto, risponderemo al governo con lo sciopero generale. Viva il nuovo governo sotto la direzione di Imre Nagy!” [24]. Nello stesso frangente, in nome del governo, Radio-Kossuth proclamava che lo sciopero sarebbe stato un atto controrivoluzionario…
In nome del Comitato rivoluzionario degli studenti sono stampati e diffusi ai soldati sovietici 100mila volantini in lingua russa. Questi volantini dicono ai soldati dell’Armata Rossa che sono stati chiamati ad intervenire contro i lavoratori, i giovani ed i soldati ungheresi, i quali non sono né reazionari né controrivoluzionari né fascisti ma combattono per il socialismo democratico.
“Non sparate contro di noi, non sparate sui vostri fratelli di classe!” concludeva il volantino.
Nuove concessioni
Di fronte alla nuova fiammata di collera scatenata dal massacro della piazza del Parlamento, di fronte allo sciopero generale insurrezionale esteso a tutto il paese, l’apparato decide di orientarsi a nuove concessioni. La decisione peraltro non è presa in autonomia ma in seguito a discussioni serrate con due emissari del governo di Mosca, Michail Suslov e Ananstase Mikoyan, precipitatisi in Ungheria per cercare di salvare una situazione ai loro occhi compromessa dagli errori di Gero. Quest’ultimo, esonerato dal suo incaricato di segretario generale del partito, conserva ancora per settimane il suo ufficio …
Janos Kadar è nominato al suo posto. Kadar è popolare: vecchio militante operaio, ha lottato in Ungheria durante la guerra, nella clandestinità, mentre Rakosi e Gero erano a Mosca. Beninteso, Rajk è stato torturato e assassinato mentre egli era ministro degli Interni, ma poi Kadar è stato a sua volta arrestato e torturato con ferocia in base all’accusa di “titismo”. Riabilitato in tempi recenti, si è battuto per la “riforma” del partito ripartendo in un quartiere operaio di Budapest dove è stato nominato segretario locale. Eppure ha accettato di partecipare al governo Hegedus, dopo il crollo di Rakosi, ed ha accompagnato Gero a Belgrado. Kadar parla alla radio giovedì 25 ottobre: “Sono stato nominato in un momento reso molto difficile da un’accozzaglia di soggetti che hanno lavorato contro di noi. Il governo ed il partito hanno deciso che dobbiamo sconfiggere quest’accozzaglia con ogni mezzo a nostra disposizione … Facciamo appello agli operai ed ai giovani perché sostengano il nostro punto di vista.” [25]. Non è convincente. Parlando ancora alla vigilia di “controrivoluzionari” in lotta contro il “potere della classe operaia”, minacciando “i provocatori che lavorano nell’ombra”, salutando “gli alleati e fratelli sovietici”, e sottolineando quel giorno in cui “la direzione del partito ha preso posizione all’unanimità riguardo alla necessità di usare ogni mezzo per stroncare l’aggressione armata contro il potere della nostra repubblica popolare”, senza neppure menzionare le rivendicazioni degli insorti, presenta a chi lo ascolta un discorso appena diluito rispetto alle minacce di Gero che hanno suscitato il sollevamento. Imre Nagy, invece, sembra aver compreso meglio la situazione quando interviene a sua volta alla radio: “il suo discorso del 25 ottobre mostra che pare capire la determinazione dei combattenti e la necessità di fare concessioni politiche per ottenere la fine dei combattimenti: “Dichiaro che il governo ungherese intraprenderà tra poco dei negoziati con l’Unione Sovietica per: 1) ottenere il ritiro delle truppe sovietiche dall’Ungheria; 2) fondare l’amicizia sovietico-ungherese sulla base dei principi di uguaglianza e di indipendenza nazionale.
[…] Promettiamo di trattare con magnanimità coloro che - giovani, civili e membri dell’esercito - cesseranno da subito di combattere… La legge colpirà soltanto chi continuerà…” [26].
Quelli che si battono: gli studenti
Oggi sappiamo in che modo si sono battuti i giovani ungheresi contro i blindati russi. È importante chiarire l’atteggiamento dei giovani “Combattenti per la libertà” - nome che si sono dati essi stessi, mutuandolo dalla rivoluzione democratica e dalla guerra d’indipendenza del 1848. A quell’epoca i “Combattenti per la libertà” costituirono l’esercito di Kossuth, la Honvédség, “esercito dei difensori della patria”, per contrastare l’invasione delle armate di Jelachich, degli eserciti imperiale e zarista. Due giovani, con la loro mitraglietta - la “chitarra” - in mano, due studenti, Ferko e Pista, hanno risposto durante i combattimenti di Budapest alle domande di un giornalista britannico che conosceva l’ungherese: “I Combattenti della libertà, dicono loro, hanno arrestato tutti gli Avos che sono riusciti a scovare. In questa operazione molti membri della polizia politica sono stati uccisi, ma ben pochi a titolo di rappresaglia: la maggior parte sono stati uccisi in azione. L’apparato del partito è stato completamente disintegrato sin dal primo giorno dell’insurrezione ma non c’è stato alcun massacro dei quadri del partito. Abbiamo invaso i locali del partito, sequestrato le armi e detto a tutti di tornare a casa. Ne abbiamo catturati alcuni. Molti si sono uniti a noi.” [27].
Giovedì il “Comitato rivoluzionario degli studenti in armi”, rappresentato dal suo presidente Ferenc Merey, si incontra con Nagy [28]. Si mantiene il programma presentato dagli studenti alla vigilia della rivoluzione aggiungendo alcune condizioni necessarie per deporre le armi: “Governo provvisorio comprendente tutti i propri dirigenti”, “ritiro immediato delle truppe russe”, “processo pubblico per i responsabili dei massacri”, “libertà per tutti i prigionieri politici”, “scioglimento dell’AVH” [29]. Inoltre Merey precisa: “Non siamo insorti per cambiare la base della società ungherese, ma vogliamo un socialismo ed un comunismo che corrispondano a ciò che veramente vuole l’Ungheria. Su questo punto siamo tutti d’accordo.” [30].
Quelli che si battono: l’esercito
Dalla sera del 24 non si trova più nessuna unità militare ungherese che obbedisca al governo. Non se ne trova neanche una che combatta contro gli insorti al fianco degli Avos e dei Russi. Il 25 ottobre molte accademie militari, dopo aver costituito comitati rivoluzionari di ufficiali e soldati, si battono con gli insorti contro gli Avos. Una di esse strappa alla polizia politica il palazzo della stamperia del giornale dell’esercito. Nella serata del 25 camionette militari diffondono il seguente volantino:
Giuriamo davanti ai cadaveri dei nostri martiri che in queste ore critiche conquisteremo la libertà per il nostro paese. I dirigenti del partito e del governo si sono preoccupati soltanto di conservare il loro potere. Che direzione politica è quella che prende misure timide soltanto sotto la pressione delle masse?
I loro atti arbitrari ci sono costati troppi sacrifici in questi ultimi dieci anni. Ora hanno chiamato l’esercito sovietico con l’obiettivo di reprimere il popolo ungherese.
Cittadini, noi chiediamo:
Un nuovo esercito rivoluzionario provvisorio e un nuovo governo nazionale rivoluzionario provvisorio, in cui siano inclusi i dirigenti della gioventù insorta.
L’abolizione immediata della legge marziale.
L’annullamento immediato del Patto di Varsavia ed il ritiro immediato e pacifico delle truppe sovietiche dalla nostra patria.
La testa dei veri responsabili del bagno di sangue, la liberazione dei prigionieri politici e un’amnistia generalizzata.
Una base autenticamente democratica per il socialismo ungherese; nel frattempo l’esercito ungherese porterà la responsabilità per il mantenimento dell’ordine ed il disarmo della polizia politica, l’AVH.
Lo stesso volantino prosegue affermando che “i compagni Imre Nagy e Janos Kadar sono membri del nuovo governo rivoluzionario dell’esercito” [31], confermando ancora una volta la volontà dei rivoluzionari di dissociare Nagy dall’apparato.
La provincia: sciopero generale e nascita dei consigli operai
A Budapest le organizzazioni studentesche erano il motore dell’agitazione politica. È al loro comitato rivoluzionario che si sono unite le delegazioni operaie che si lanciavano nella battaglia. In provincia la rivoluzione è iniziata con uno sciopero generale insurrezionale scatenato dall’intervento russo. La rivoluzione ha immediatamente preso la forma di consigli operai che hanno preso il potere.
Così, per la prima volta dopo alcuni decenni, i lavoratori ungheresi, in lotta contro la burocrazia, ritrovavano spontaneamente le forme di organizzazione e di potere proletarie. Ritrovavano la tradizione dei soviet (la parola russa che significa consiglio) del 1905 e del 1917 ed anche della prima Repubblica ungherese dei consigli (marzo 1919). I consigli, eletti dal basso, con delegati revocabili in ogni momento e responsabili davanti alla propria base, sono la realizzazione autentica e concreta della democrazia proletaria e del potere degli operai armati.
Per descrivere i consigli ungheresi possiamo riprendere un passaggio di Trotsky sul soviet di Pietrogrado del 1905:
“Il soviet è il potere organizzato della stessa massa, al di sopra di tutte le sue frazioni. È la democrazia autentica e non falsificata, senza le due Camere, senza burocrazia di mestiere ma che garantisce agli elettori di sostituire, quando lo decidono, i deputati da loro eletti. Il soviet, per mezzo dei suoi membri, attraverso i deputati che gli operai hanno eletto, presiede direttamente a tutte le attività sociali del proletariato nel suo insieme o nei suoi gruppi, organizza la sua azione, gli dà una parola d’ordine ed una bandiera"
Il Consiglio di Miskolc
Situata nella regione nord-occidentale dell’Ungheria, nella zona industriale di Borsod, vicina alle miniere di carbone ed alle acciaierie, nel cuore dell’industria siderurgica e metalmeccanica, Miskolc, città di 100mila abitanti, è la prima in cui si annuncia la costituzione di un consiglio operaio. Nella notte tra il 24 ed il 25 ottobre gli insorti, padroni della radio, annunciano che hanno preso il potere ed esigono un “nuovo governo nello spirito di Bela Kun e Laszlo Rajk” [32]. Il riferimento a questi due dirigenti comunisti, entrambi assassinati da Stalin - Kun presidente nel 1919 della Repubblica dei consigli assassinato durante i processi di Mosca, Rajk impiccato in quanto “titista” nel 1949 - è significativa dell’orientamento politico del movimento. Il 25 ottobre i Comitati operai delle fabbriche hanno eletto un Consiglio operaio della città, il cui programma è diffuso dalla radio locale: “Noi chiediamo che ai posti di maggior responsabilità del partito e dello Stato siano messi dei comunisti devoti al principio dell’internazionalismo proletario, che siano innanzi tutto ungheresi e rispettino le nostre tradizioni nazionali ed il nostro passato millenario. Chiediamo l’apertura di un’inchiesta sull’istituzione che garantisce la sicurezza dello Stato (l’AVH) e l’eliminazione di tutti quelli che, dirigenti o funzionari, siano in qualche misura compromessi. Chiediamo che i crimini di Farkas e dei suoi sgherri siano esaminati in un processo pubblico davanti ad un tribunale indipendente, anche qualora si dovessero chiamare in causa alti dirigenti. Chiediamo che i responsabili della cattiva direzione ed amministrazione del piano economico siano subito sostituiti. Chiediamo un aumento dei salari reali. Vogliamo ottenere la garanzia che il Parlamento non resti ancora a lungo una camera di registrazione coi parlamentari ridotti a mero pezzo di quell’ingranaggio.” [33]. Il 25 il consiglio operaio ed il “Parlamento studentesco” prendono il potere nell’agglomerazione urbana di Miskolc e dall’indomani l’autorità del consiglio operaio è riconosciuta in tutta la provincia di Borsod.
Il 26 Rudolf Foldvari, segretario regionale del PC, membro del consiglio operaio, dichiara su Radio-Miskolc che il governo Nagy ha accettato le rivendicazioni del Consiglio. Miskolc fa un appello ai lavoratori della regione per eleggere consigli in tutte le fabbriche senza considerare l’affiliazione politica dei candidati [34]. Lo stesso giorno si forma, attraverso la federazione dei consigli locali, il consiglio operaio della provincia di Borsod. Il consiglio operaio controlla la regione. La sua delegazione a Budapest reclama da Nagy: aumento immediato dei salari, delle pensioni e degli assegni familiari, la fine del rialzo dei prezzi, l’abolizione della tassa sulle famiglie senza bambini, il processo a Farkas e un Parlamento che non sia una assemblea di yes man, il ritiro delle truppe sovietiche e la pubblicazione del Trattato di commercio sovietico-ungherese, la correzione degli “errori” del piano economico [35]. La mattina del 28 la radio annuncia che i consigli operai hanno sciolto tutte le organizzazioni comuniste della regione di Borsod. Nelle campagne i contadini, sottomessi ad una collettivizzazione forzata, hanno cacciato i responsabili dei kolchoz ed hanno proceduto alla distribuzione delle terre. I consigli operai approvano la loro azione [36]. Primo a costituirsi, il Consiglio operaio di Miskolc è consapevole delle proprie responsabilità. Cerca di estendere a tutto il paese ciò che ha stabilito nella regione di Borsod, il potere dei consigli.
Il 28 Radio Miskolc “chiede ai consigli operai delle città della provincia di coordinare i propri sforzi nell’obiettivo di forgiare un solo e potente movimento” [37]. Il programma seguente è proposto come base comune:
“Edificazione di un’Ungheria libera, sovrana, indipendente, democratica e socialista.
Una legge che istituisca elezioni libere a suffragio universale.
Partenza immediata delle truppe sovietiche.
Elaborazione di una Costituzione.
Soppressione dell’AVH, il governo dovrà appoggiarsi su due forze in armi: l’esercito nazionale e la polizia.
Amnistia completa per chi ha imbracciato le armi e processo per Gero e i suoi complici.
ùpartiti.” [38]
I Consigli di Gyor e di Transdanelia sono i primi a rispondere all’appello.
Il Consiglio di Gyor
Gyor è una città di 100mila abitanti. È la città della gigantesca fabbrica di vagoni e locomotive “Wilhelm-Pieck (Gyori-Mavag)”. L’insurrezione ha avuto inizio con uno sciopero generale. La guarnigione russa ha accettato di buon grado di ritirarsi senza combattere. Un Comitato nazionale rivoluzionario, eletto nelle fabbriche, dirige la regione assieme ad un Comitato militare ai suoi ordini. Il Comitato comprende 20 membri di differente provenienza politica. Il presidente è un metalmeccanico, in passato responsabile del partito socialdemocratico, Gyorgy Szabo, ma la personalità più in vista è Attila Szigeti, un vecchio dirigente del Partito nazionale contadino [39], deputato e amico di Imre Nagy. Nel Comitato si sviluppa anche un’opposizione, diretta dal vecchio sindaco della città, Ludwig Pocsa, eletto nella fabbrica in cui lavora [40]. Sulle rivendicazioni immediate, però, il Comitato è compatto: esige che sia fissata una data per elezioni libere entro 2-3 mesi ed il ritiro delle truppe russe dall’Ungheria [41]. I delegati dei minatori chiedono “la garanzia che l’esercito sovietico abbandoni immediatamente il paese, come pure l’assicurazione che vengano autorizzate elezioni libere con la partecipazione di tutti i partiti” [42]. Radio-Gyor dichiara solennemente il 28:
“Agli insorti si sono mescolati elementi bacati con tendenze fasciste e controrivoluzionarie. Noi non vogliamo che ritorni il vecchio sistema capitalista; vogliamo un’Ungheria libera e indipendente.” [43].
Il Consiglio di Sopron
Nella cittadina industriale di Sopron, Ungheria occidentale, il consiglio operaio è stato eletto a scrutinio segreto nelle imprese e nella scuola forestale. Il socialista austriaco Peter Strasser ha assistito alle riunioni e assicura: “Sono decisamente opposti alla restaurazione del vecchio regime di Horthy (dittatore del paese fra le due guerre mondiali, ndt).” [44]. Il consiglio ha organizzato il controllo dell’ordine pubblico mediante la formazione di pattuglie miste composte da un operaio, un soldato e uno studente [45]. Il consiglio ha inviato in Austria due delegazioni di giovani comunisti per sviluppare una campagna di solidarietà orientata verso il movimento operaio internazionale [46].
Il Consiglio di Magyarovar
Il Consiglio di Magyarovar è stato anch’esso eletto a scrutinio segreto. Comprende 26 membri, tra cui 4 comunisti, dei senza partito e alcuni rappresentanti dei vecchi partiti riformisti - socialdemocratici, nazional-contadini e piccoli proprietari. Il suo presidente è un operaio comunista, Gera, il quale dichiara: “Ci sono sostanzialmente due grandi problemi: i Russi devono andarsene e si devono tenere elezioni democratiche.” Al giornalista americano, stupito, precisa: “I comunisti che sono nel Consiglio sono brave persone. Non opprimono nessuno ed il popolo ungherese lo sa.” [47]. Il programma del Consiglio di Magyarovar chiede elezioni libere e democratiche sotto il controllo dell’ONU, la libertà dei partiti democratici, la libertà di stampa e di riunione, l’indipendenza dei sindacati, la liberazione dei carcerati, lo scioglimento dell’AVH, la partenza dei Russi, lo scioglimento delle aziende agricole collettive imposte con l’uso della forza, la soppressione delle differenze di classe [48].
Il programma dei consigli
Non è possibile continuare l’elenco. In ogni città industriale dell’Ungheria si sono formati consigli operai: a Dunapentele, la vecchia Sztalinvaros, perla dell’industrializzazione del periodo Rakosi, a Szolnok, nodo ferroviario del paese, a Pecs, nelle miniere del sud-ovest, a Debreczen e a Szeged. Entro il 1° novembre si sono formati in tutto il paese, in ogni località, consigli che assumono il compito di salvaguardare le conquiste socialiste e assicurare il rifornimento della capitale in lotta. Tutti hanno le stesse caratteristiche: eletti dai lavoratori nel fuoco dello sciopero generale insurrezionale, essi garantiscono il mantenimento dell’ordine e la lotta contro i Russi e gli Avos con milizie composte di operai e studenti armati; hanno sciolto gli organismi del PC ed epurato le amministrazioni ora sottoposte alla loro autorità. Sono l’espressione del potere degli operai in armi. Ecco uno dei tanti esempi possibili dello spirito della popolazione di cui esprimono la volontà. Il 29 ottobre alle 10.20 radio Gyor-libera annuncia:
“Comunichiamo il messaggio delle donne del villaggio Gyirmot alla radio di Gyor libera:
‘Le contadine di Gyirmot fanno appello alle donne dell’area di Gyor. Ieri abbiamo saputo, da una di noi che tornava dal mercato di Gyor, un fatto vergognoso che ci ha disgustate. Eccolo: alcune contadine presenti al mercato, davanti alla domanda smisurata, hanno venduto il latte destinato alla distribuzione ordinaria a 6 fiorini al litro invece di 3. Dunque, non soltanto esse non hanno adempiuto ai loro doveri, e ci sarà meno latte per gli operai di Gyor, ma in più ne hanno approfittato per fare profitto. Analogamente siamo scandalizzate per l’aumento del prezzo dell’anatra, venduta da una contadina a 30 fiorini al chilo… Una donna siffatta non è un’ungherese!
Donne, non permettete che cose del genere possano accadere di nuovo! Non dimenticate che chi compra è il combattente in lotta per il nostro futuro!”.
Il programma dei consigli, malgrado alcune formulazioni differenti, è straordinariamente coerente: tutti esigono la partenza immediata dei Russi, la dissoluzione dell’AVH, la promessa di elezioni libere, la libertà per i partiti democratici, l’indipendenza dei sindacati ed il diritto di sciopero, la libertà di stampa e di riunione, la revisione del piano e l’aumento dei salari, la libertà in campo artistico e culturale. Tutti, per la loro stessa esistenza, rivendicano il diritto dell’operaio ungherese di prendere in mano la sua vita. Tutti esigono un governo rivoluzionario che includa i rappresentanti degli insorti. Col loro esempio, con la loro azione, sono un pericolo mortale per la burocrazia come per l’imperialismo. Nell’immediato sono i primi responsabili delle rivolte antiburocratiche che si verificano nell’esercito russo.
L’esercito russo si squaglia al fuoco della rivoluzione
I soldati russi intervenuti contro la rivoluzione ungherese, come abbiamo ricordato, erano stati precedentemente informati che avrebbero combattuto una “controrivoluzione fascista appoggiata da truppe occidentali”. Però, di stanza nel paese da mesi, si sono velocemente resi conto del lavoro che veniva loro richiesto. Non hanno visto eserciti occidentali, non hanno visto fascisti o controrivoluzionari ma un intero popolo insorto: operai, studenti, soldati. Dal secondo giorno dell’insurrezione un corrispondente britannico sottolinea che alcuni equipaggi dei carri armati hanno tolto dalla loro bandiera lo stemma sovietico e si battono, così, a fianco dei rivoluzionari ungheresi sotto la “bandiera rossa del comunismo” [49]. Un testimone dichiara di aver visto carri russi unirsi agli insorti: “Di solito l’equipaggio di un carro prendeva una decisione collettiva. I soldati abbassavano la bandiera sovietica ed issavano al suo posto la bandiera ungherese. Gli ungheresi li coprivano di fiori.” [50]. Il 28 ottobre il giornale dei sindacati ungheresi, Nepszava, esigeva il diritto di asilo per i soldati russi passati nelle file dei rivoluzionari. In altre zone molte unità rimasero neutrali; abbiamo visto che la guarnigione di Gyor si ritirò… Un testimone britannico ha visto nella periferia di Budapest insorti che portavano latte negli accampamenti russi: “Latte per i bambini russi”, spiegavano. “Hanno stipulato un accordo. Ogni giorno i patrioti portano 50 litri di latte per i bambini russi.” [51]. Il fatto è che i rivoluzionari ungheresi ogni volta che possono circondano i soldati russi, gli mostrano le loro mani callose di operai: “Guarda le mie mani, compagno… Sono le mani di un operaio. Mi sono battuto contro i vostri carri. Ho mani da fascista?” [52].
In tali condizioni, davanti alla resistenza determinata dei rivoluzionari ungheresi, l’utilizzo dell’esercito russo per fini repressivi diventava sempre più pericoloso. La repressione aveva bisogno di truppe fresche e sicure. Ciò basta a spiegare la svolta del 28 ottobre, quando chiaramente Imre Nagy ha riconquistato la sua libertà d’azione e ha smesso di essere un ostaggio in mano ai Russi. È nei giorni seguenti che si concluderà la chiarificazione politica, mentre sarà confermato dall’entourage stesso di Nagy che dal suo arrivo al “potere” egli era stato un ostaggio dei Russi.
Il 27, in effetti, Imre Nagy riceve una delegazione degli operai di Angyafold a cui si sono uniti molti dei suoi amici politici, tra cui Miklos Gimes e Jozsef Szilagyi, a cui egli garantisce di non aver fatto appello alle truppe russe anche se Gero - dopo la sua sostituzione del 25 - ha cercato di fargli firmare un documento in questo senso. Nagy inoltre promette loro che il giorno seguente, il 28, farà una dichiarazione sul significato della rivoluzione, “democratico-nazionale e non controrivoluzione”, sul ritiro delle truppe russe da Budapest e su altre importanti misure.
III. I giorni dell’indipendenza
Il secondo governo Nagy
Il 27 Nagy annuncia la formazione di un nuovo governo destinato a soddisfare le rivendicazioni degli insorti. I socialisti hanno rifiutato di parteciparvi, ma alcuni noti stalinisti sono stati messi da parte: Istvan Bata, della Difesa Nazionale, Hegedus, Darvas… Il filosofo Lukacs e Geza Losonczy sono riconosciuti invece come oppositori comunisti. Il generale Karoly Janza, militare di professione, sembra sul punto di unirsi ai quadri dirigenti dell’esercito. Da Bela Kovacs e da Zoltan Tildy, leader dei piccoli proprietari, Nagy senz’altro spera che otterranno l’appoggio dei contadini al suo governo.
Ma sono speranze vane. Da parte degli insorti, l’accoglienza è molto fredda. Il 27 ottobre Radio-Miskolc dichiara: “Imre Nagy gode oggi della fiducia del popolo. È sufficiente? […] Imre Nagy dovrebbe avere il coraggio di sbarazzarsi dei politicanti i quali non possono che appoggiarsi sulle armi, che utilizzano per opprimere il popolo”. L’indomani, sulla stessa frequenza, il consiglio operaio di Borsod argomenta così: “Imre Nagy ha dichiarato che, durante i combattimenti, si era formato un governo di unità nazionale democratico, per l’indipendenza ed il socialismo, espressione dell’autentica volontà popolare. I lavoratori di Borsod ritengono sia davvero l’ora che il governo Nagy esprima appena possibile la volontà del popolo con atti concreti. Il governo promette di basarsi sulla forza ed il controllo del popolo, e spera di conquistare la fiducia del popolo. La forza popolare sosterrà Nagy se il suo governo passa da subito alla realizzazione delle legittime rivendicazioni del popolo, senza alcuna ulteriore esitazione.” [53]. Szigeti, in nome del consiglio di Gyor, dichiara di considerare Nagy un patriota ma che alcuni membri del suo governo sono inaccettabili [54]. Il portavoce del consiglio di Magyarovar dichiara: “Siamo disponibili ad appoggiare il nuovo governo, ma esso ci deve prima di tutto dimostrare il suo spirito perché noi gli diamo piena fiducia…” [55]. I Consigli di Debrecen e Dunapentele sostengono il governo Nagy ma quello di Szeged richiede a gran voce l’eliminazione dello stalinista Antal Apro dalla compagine; i ferrovieri di Pecs non accettano Bebrics come ministro delle Comunicazioni ed il Consiglio Rivoluzionario dell’Università esige che sia cacciato dal governo Ferenc Munnich, ministro degli Interni, considerato un agente del Cremino.
Le decisioni del 28 ottobre
Nella notte tra il 27 ed il 28 Imre Nagy ha ripreso contatto coi rappresentanti del “Comitato rivoluzionario degli studenti in armi”, i quali mantengono tutte le loro rivendicazioni iniziali. Adesso Nagy le accetta, proprio come il giorno prima aveva accettato quelle di Miskolc. Si fissa una tregua. Il quotidiano del PC Szabad Nep afferma: “Il popolo vuole ordine e, in primis, la partenza delle truppe sovietiche… Noi vogliamo una democrazia ungherese, economicamente, socialmente e politicamente indipendente… Era un giusto movimento nazionale.”
Nagy annuncia direttamente alla radio le ultime novità. Egli dichiara che il governo sovietico accetta di evacuare Budapest e che ci sono negoziati per la partenza delle truppe russe dall’Ungheria. Nagy riconosce i consigli operai a cui chiede collaborazione. L’AVH è sciolta. Nasce una nuova forza armata, con un Esecutivo Nazionale: è una sorta di milizia o guardia nazionale dove entreranno, a fianco del vecchio esercito e della vecchia polizia, i rivoluzionari armati, operai e studenti. Nagy annuncia anche il ristabilimento della bandiera nazionale e che il governo farà tutto il possibile per soddisfare le rivendicazioni dei rivoluzionari.
I consigli rispondono: quello di Gyor domanda ai consigli della regione di nominare chi parteciperà alla nuova milizia [56]. Joszef Kiss, presidente del consiglio operaio di Borsod, proclama a Miskolc: “L’insurrezione nazionale è vittoriosa, il governo soddisferà le nostre richieste, non sparate né contro le truppe sovietiche né contro quelle governative.” [57]. Radio-Miskolc chiama gli insorti ad arruolarsi nella nuova milizia nazionale. Ma nessuno di questi consigli vuole riconoscere il governo Nagy prima di aver acquisito la certezza che esso cerchi veramente di ottenere la partenza dei Russi. Tutti dichiarano che non consegneranno le armi prima dell’evacuazione completa del paese.
Nel contempo, da tutte le regioni del paese delegazioni dei consigli partono per Budapest e fanno sapere a Nagy le condizioni poste dai lavoratori per riconoscere il suo governo. Sono questi incontri che produrranno, nei giorni seguenti, le ferme prese di posizione da parte di Nagy. Davanti alla scelta tra le esigenze dei Russi e quelle degli operai rivoluzionari, Nagy si ricorda della lezione della settimana appena trascorsa e sceglie la rivoluzione, contro la burocrazia e l’apparato.
Il problema della partenza dei Russi
La tregua precaria conclusa il 26 rischia di fallire. Il comando militare russo, prima di ritirarsi da Budapest, esigeva la consegna delle armi da parte degli insorti. Al rifiuto opposto da questi ultimi i combattimenti ripresero nella notte tra il 29 ed il 30.
Così il 29, alle 20.50, Radio-Gyor-libera proclama:
“Contrariamente all’informazione fornita da Radio-Kossuth, il popolo di Budapest continua la sua lotta armata per la liberazione. Noi, consigli operai dei minatori di Pecs, Dorog, Tokod, Tatabanya, Tata, Miskolc abbiamo preso le decisioni seguenti: non potremo strappare la nostra rivendicazione - il ritiro dei Russi dal nostro paese - che con l’arma dello sciopero!
“ I consigli operai si sono impegnati, parlando a nome del popolo, a sospendere la produzione di carbone finché resteranno soldati Russi in Ungheria! La gioventù di Gyor non riprenderà il lavoro prima che l’ultima unità russa abbia abbandonato il nostro paese…
Avanti verso lo sciopero per una Ungheria libera ed indipendente!”
Infine, i Russi cedettero e cominciarono il ritiro mentre gli insorti, sotto assedio dall’inizio della rivoluzione, uscivano con le loro armi. Fu così che, in particolare, Budapest e l’Ungheria conobbero il nome del colonnello Maleter, ufficiale comunista che aveva diretto per 6 giorni i 1200 insorti, operai studenti e soldati, assediati dai Russi nella caserma Kilian. Questo ufficiale, là inviato per reprimerli, era passato assieme ai suoi soldati dalla parte degli insorti.
Allo stesso tempo un comunicato governativo toglieva dalle spalle di Nagy la responsabilità per i decreti istitutivi della legge marziale e di appello alle truppe russe:
“Radio-Kossuth, 30 ottobre, ore 18.30, comunicato molto importante: “Ungheresi, la nostra tristezza, la nostra vergogna, il surriscaldarsi degli animi erano provocati da due decreti che hanno fatto versare il sangue di centinaia di persone: il primo, l’appello per l’intervento a Budapest dell’esercito sovietico, l’altro, la legge marziale contro i combattenti della libertà.
Assumiamo la responsabilità di dichiarare davanti alla storia che Imre Nagy, presidente del consiglio dei Ministri, non sapeva nulla di queste due decisioni. La sua firma non figura a suggello di questi due decreti. La responsabilità per questi due decreti è portata da Erno Gero e Andrai Hegedus.” [58].
Nagy riprende tutto ciò in un grande discorso pronunciato il giorno seguente, 31 ottobre, davanti ad una folla in delirio. Dichiara:
“La rivoluzione ha vinto… La banda (Rakosi-Gero) ha cercato di insudiciarmi affermando che avevo richiesto l’intervento sovietico. È falso. Al contrario, esigevo la partenza immediata dell’esercito sovietico”, ed aggiunge, “oggi inizia la conferenza per l’abrogazione del Patto di Varsavia ed il ritiro dei Russi dal nostro paese.” Ed è del 1° novembre, davanti ai movimenti di truppe russe che violano formalmente le dichiarazioni del loro governo, la risonante dichiarazione del ritiro dell’Ungheria dal Patto di Varsavia e la proclamazione della sua neutralità: “Operai di Ungheria, proteggete il nostro paese, la nostra Ungheria libera, indipendente e democratica.” [59].
Il problema del partito stalinista
Imre Nagy, in questi giorni decisivi, inchinandosi alla volontà dei lavoratori ungheresi, ha smesso di parlare come un uomo d’apparato. Szabad Nep, rispondendo in termini vivaci alle accuse della Pravda, tiene un linguaggio del tutto diverso da quello della stampa stalinista di tutto il mondo. Il fatto sostanziale è che, sotto la pressione delle masse, Nagy e i suoi compagni hanno rotto con l’apparato stalinista.
Abbiamo visto come quelli che chiamavamo i “comunisti liberali” si fossero battuti, nel quadro del partito, per la reintegrazione degli esclusi ed il cambiamento della direzione, in una parola per la riforma ed il cambiamento di corso del partito. Ma questa posizione, dopo alcuni giorni di lotta armata, si è rivelata impraticabile.
Il 28 ottobre i consigli operai hanno intrapreso in tutto il paese lo scioglimento delle organizzazioni di partito. Chi poteva ancora credere in un cambiamento del partito da realizzarsi sotto la direzione del CC che ha mantenuto e coperto Gero, cooptando Nagy ed i suoi seguaci soltanto per comprometterli col sangue degli insorti in una repressione ordinata da Mosca? Il Comitato Centrale si autoscioglie e nomina una direzione provvisoria incaricata della preparazione del prossimo congresso. Il Presidium che ne risulta ha nelle sue fila solo militanti imprigionati o perseguitati sotto Stalin-Rakosi. In suo nome, Kadar dichiara: “Potranno essere membri del partito rinnovato solo coloro che non hanno alcuna responsabilità nei crimini passati.” [60]. Nessuno può più parlare di “riforma” davanti ad un rinnovamento così radicale. Due giorni dopo, Kadar fa appello ai militanti perché si uniscano ai Combattenti per la libertà [61].
Il 1° novembre anche l’ipotesi del partito “rinnovato” si dimostra impraticabile. Non c’è più un partito comunista. L’apparato si è battuto dalla parte dei Russi assieme agli Avos. La gran parte dei militanti si è battuta coi rivoluzionari. Nessuno si sogna di unirsi ad un partito stalinista, per quanto “rinnovato”. Ansiosi di “rompere per sempre col passato”, Nagy, Kadar, Lukacs, Szanto formano un nuovo partito che rompe con l’organizzazione ufficiale e che essi chiamano Partito Socialista Operaio Ungherese. Hanno così riconosciuto il loro fallimento, l’impossibilità di riformare un partito stalinista? Almeno all’apparenza, si inchinano al verdetto delle masse ungheresi: comunisti e antistalinisti fondano un partito sulla base del leninismo. Ma non è ancor più significativo che un militante come Miklos Gimes abbia rifiutato di unirsi ad una formazione politica che non considerava avesse rotto realmente con lo stalinismo?
Il potere dei consigli
Sin dal 28, annunciando il cessate il fuoco, Nagy aveva riconosciuto i consigli e promesso la vittoria per le loro rivendicazioni. Andando oltre, “propone ai consigli operai e ai comitati rivoluzionari di coordinare le loro attività e di formare gli Stati generali dell’insurrezione.” [62]. Nascerebbe così un’autentica repubblica dei consigli, una reale rappresentanza dei lavoratori in armi per mezzo di un Parlamento operaio. Non si poteva andare oltre sulla via rivoluzionaria e, su questo punto, Nagy si collegava al consiglio di Miskolc che aveva rivolto una proposta simile a tutti i consigli di provincia.
Nell’esercito si sono formati Comitati rivoluzionari dei soldati. La riunione dei loro delegati del 30 ottobre al ministero della Difesa costituisce in via definitiva il Comitato rivoluzionario dell’esercito [63]. Viene subito lanciato un manifesto dove si dichiara che l’esercito è al fianco del popolo per difendere le conquiste della rivoluzione, dopo aver eliminato un certo numero di ufficiali reazionari e mentre si accinge al disarmo degli Avos.
Lo stesso giorno si apprende che il Comitato rivoluzionario dei giuristi ungheresi ha appena costretto alle dimissioni il procuratore generale Gyorgy Non in seguito ad un esame del dossier riguardante la sua attività [64].
Si forma un Comitato rivoluzionario al ministero degli Esteri. Fa proposte concrete al governo per la riorganizzazione della rappresentanza ungherese all’estero e richiama la delegazione all’ONU perché non ha sostenuto il punto di vista dei rivoluzionari.
I ferrovieri hanno ottenuto la revoca del ministro delle Comunicazioni, Lajos Bebrics, ed il Consiglio rivoluzionario dell’Università invoca quella di Munnich. A tutti i livelli, in ogni località, in ogni amministrazione, i consigli operai ed i comitati rivoluzionari prendono in mano la gestione delle cose. Si crea una nuova democrazia socialista, la democrazia operaia autentica dei consigli, identica a quella dei soviet russi del 1917.
Il programma dei sindacati
Il 27 ottobre su Nepszava ed il 3 novembre su Nepakarat, i sindacati ungheresi, epurati per opera dei lavoratori della loro direzione stalinista, hanno presentato un programma che riflette la volontà della classe lavoratrice e la tendenza della rivoluzione ungherese in questa settimana decisiva: fine dei combattimenti attraverso negoziati coi capi della gioventù insorta, costituzione di una Guardia Nazionale con operai e giovani per rinforzare l’esercito e la polizia, negoziati per il ritiro delle truppe sovietiche [65]. I sindacati, inoltre, richiedono la costituzione di consigli operai in tutte le fabbriche, con diritto di opinione sulla pianificazione e la fissazione delle norme lavorative [66]. Questi consigli consentiranno di instaurare una autentica “direzione operaia” dell’economia, e di conseguenza una “trasformazione radicale del sistema di pianificazione e di direzione dell’economia”. Coscienti del ruolo parassitario della burocrazia installata nelle imprese, i sindacati chiedono, assieme all’aumento immediato dei salari inferiori a 1500 fiorini, lo stabilimento di un tetto massimo di 3.500 fiorini per tutti i salari. Questa rivendicazione, analoga a quella avanzata dagli studenti di Szeged prima dell’inizio dell’insurrezione, dimostra quanto i lavoratori avessero preso coscienza del ruolo giocato nella divisione dei lavoratori dalla differenziazione salariale, una delle chiavi di volta del sistema burocratico stalinista. I sindacati esigevano anche il diritto di sciopero e la denuncia delle norme di lavoro vigenti. Proclamavano, il 3 novembre, la loro indipendenza rispetto ad ogni partito politico ed ogni governo, al pari della loro volontà di partecipare alla direzione degli organismi rivoluzionari ed alle future elezioni generali. Decidevano, infine, di rompere con la Federazione Sindacale Mondiale - controllata dagli stalinisti - che, per bocca di Saillant, suo presidente, li aveva insultati, mantenendo contatti con tutte le altre organizzazioni sindacali internazionali [67].
Il programma degli intellettuali
Il programma adottato dal Comitato rivoluzionario degli intellettuali, “costituito il 28 ottobre nell’edificio centrale dell’Università Lorand Eotvos di Budapest”, che riuniva “tutte le organizzazioni di intellettuali, scrittori, artisti, eruditi e studenti”, non è meno indicativa della volontà dei rivoluzionari ungheresi di costruire un’autentica democrazia socialista che delle possibilità che si offrivano di far emergere una direzione ed un programma chiari per tutti i rivoluzionari:
1) Regolamento immediato delle nostre relazioni con l’Unione Sovietica. Ritiro delle truppe sovietiche dal territorio ungherese.
2) Annullamento immediato di tutti gli accordi commerciali conclusi con paesi stranieri che portino danno alla nostra economia nazionale. Il paese deve essere informato sulla natura di tali accordi commerciali, inclusi quelli relativi alle esportazioni di uranio e bauxite.
Elezioni generali a scrutinio segreto. I candidati devono essere nominati dal popolo.
Le miniere e le fabbriche devono realmente appartenere agli operai. Le miniere e le terre devono rimanere proprietà del popolo e niente deve essere restituito ai capitalisti ed ai vecchi grandi proprietari. Le fabbriche devono essere dirette da Consigli operai liberamente eletti. Il governo deve proteggere il diritto di esercizio di artigiani e piccoli commercianti
Abolizione del vecchio sistema pieno di abusi odiosi. I salari troppo bassi e le pensioni devono essere aumentati in base alle possibilità della nostra economia.
I sindacati devono difendere realmente gli interessi della classe operaia e i loro dirigenti devono essere eletti liberamente. I contadini potranno creare i loro sindacati.
Il governo deve assicurare la libertà della produzione agricola e aiutare i piccoli contadini e le cooperative formate su base volontaria. Bisogna abolire l’odioso sistema delle consegne obbligatorie.
Bisogna rendere giustizia ai contadini che hanno subito la collettivizzazione forzata ed indennizzarli.
Il governo deve assicurare una completa libertà di stampa e di riunione.
Il 23 ottobre, giorno dell’insurrezione del nostro popolo per la sua liberazione, deve essere proclamato festa nazionale. [68]
La caccia agli Avos
La partenza dei Russi aveva lasciato a Budapest gli Avos isolati di fronte agli insorti. I conti con loro furono presto regolati. Vogliosa di fatti eclatanti, la stampa borghese a grande tiratura ha raccontato tutti i dettagli della caccia agli Avos in cui si lanciarono i “Combattenti della libertà” nei giorni della loro effimera vittoria. È inutile descriverla nuovamente. Sono tutt’al più necessarie alcune spiegazioni.
Diciamo innanzitutto che gli insorti hanno dato la caccia agli Avos perché li odiavano. Il corrispondente a Budapest del Daily Worker, Charlie Coutts, ha intitolato uno dei suoi articoli “Perché si odiava l’AVH” [69]. Spie e torturatori, arroganti ed onnipotenti, per dieci anni gli Avos avevano concentrato su di loro l’odio di un intero popolo. La loro condotta sin dall’inizio dell’insurrezione, la sparatoria alla Radio e quella al Parlamento, le esecuzioni sommarie, tutto ciò ha fatto tracimare l’odio nei loro confronti durante le giornate rivoluzionarie.
Inoltre, gli Avos dovevano essere cacciati perché costituivano un pericolo reale. Finché le truppe russe stazionavano in Ungheria, finché Budapest restava alla portata dei loro cannoni, finché il loro ritorno era possibile, la presenza di un Avos rappresentava un pericolo mortale per ogni rivoluzionario ungherese. Nella Budapest libera gli Avos erano la Quinta Colonna: gli insorti si sono voluti garantire al tempo stesso la loro sicurezza e la loro retrovia.
Senz’altro, non tutti i rivoluzionari hanno approvato i metodi sbrigativi con cui Budapest è stata ripulita dagli Avos. Sappiamo che la sera del 31 una delegazione degli Avos supplicò l’Unione degli Scrittori di intervenire presso i Combattenti della Libertà per siglare un accordo che gli salvasse la pelle. Ma l’intervento dell’Unione degli Scrittori - tra cui molti, e dei migliori, erano stati torturati dagli Avos - non produsse alcun effetto. Ugualmente il 3 novembre Bela Kiraly, capo delle forze militari rivoluzionarie di Budapest, confermava che gli ordini del governo e dei comitati erano di non uccidere nessuno sul posto ma di deferire tutti gli Avos arrestati davanti ai tribunali [70]. Concretamente, la caccia ai poliziotti dell’AVH si ferma soltanto il 2 novembre, ormai in assenza di preda [71].
La stampa dei partiti stalinisti ha utilizzato questi fatti ed ha cercato di trarne vantaggio per descrivere una controrivoluzione bianca che dava la caccia ai militanti comunisti nelle strade di Budapest. Ma i medesimi fatti da essa citati smentiscono tale tesi: scrivendo infatti che “un militante della Federazione, il compagno Kelemen, è stato tolto dalla forca dalla folla che l’ha riconosciuto” [72], André Stil, su L’Humanité, confessa in questo modo che la folla non uccideva chi non conosceva come Avos, quando scopriva che si trattava invece di un comunista. La morte, dovuta ad una tragica sottovalutazione, del veterano comunista Imre Mezo, segretario del partito a Budapest, già nelle Brigate Internazionali in Spagna e nei partigiani FTP-MOI in Francia, coraggioso avversario di Rakosi, non smentisce questa interpretazione. Fu ucciso proprio mentre difendeva la sede del partito, dove stava ricevendo delegazioni di rivoluzionari ma dove giunsero degli Avos a cui si dava la caccia, per aver resistito all’ira delle masse con le armi alla mano, trascinando alla morte gli altri occupanti della sede.
Fino ad oggi massacri, esecuzioni sommarie e linciaggi, hanno accompagnato ogni rivoluzione. Dobbiamo ricordare i massacri di settembre durante la rivoluzione francese, le esecuzioni di ostaggi effettuati dalla Comune di Parigi ed i fatti analoghi avvenuti durante la rivoluzione russa, la rivoluzione spagnola o, in tutta Europa, durante la Liberazione? La vendetta delle masse è tanto più terribile quanto più i controrivoluzionari che hanno scatenato la loro collera erano stati crudeli e brutali. Gli Avos hanno raccolto ciò che avevano seminato: sono stati bruciati dall’incendio acceso da quella burocrazia di cui erano stati i fedeli servitori.
Tendenze controrivoluzionarie: gli emigrati
Sin dall’annuncio dell’insurrezione ungherese numerosi emigrati hanno cercato di rientrare nel loro paese; si trattava di elementi democratico borghesi, socialdemocratici, fascisti. È nota la tesi de L’Humanité, secondo la quale queste tendenze hanno fornito i quadri al movimento controrivoluzionario, che avrebbe così trionfato sotto il bastone protettore di Nagy non fosse stato per il provvidenziale intervento russo.
Un certo numero di fatti contraddice questa tesi. Innanzitutto un memorandum del governo austriaco, datato 3 novembre, dichiara: “Il governo austriaco ha ordinato di istituire una zona vietata lungo la frontiera austro-ungherese… Il Ministro della Difesa ha visitato questa zona assieme ai delegati militari delle quattro grandi potenze, compresi quelli dell’URSS. I delegati militari hanno così potuto assicurarsi delle misure prese per proteggere la frontiera e garantire la neutralità austriaca. Tutte le precauzioni possibili sono così state adottate alla frontiera occidentale per impedire l’infiltrazione di emigrati… Le autorità austriache hanno pregato il vecchio Presidente del Consiglio, Ferenc Nagy (del Partito dei Piccoli Proprietari), arrivato rapidamente a Vienna, di abbandonare il territorio austriaco. Di ciò sono a conoscenza anche le autorità sovietiche. Il permesso per rimanere in Austria è rifiutato ai dirigenti politici dell’emigrazione. L’ambasciatore austriaco a Mosca ha informato di questi fatti il Ministero degli Esteri dell’URSS”. Nonostante la campagna della stampa stalinista, il governo russo non ha mai contestato ufficialmente questi fatti presso il governo austriaco [73].
Allo stesso modo il vecchio segretario della gioventù socialista ungherese, Ferenc Eross, linotipista a Bruxelles, non ha potuto varcare la frontiera ungherese, essendo stato respinto proprio dagli insorti, che egli tra l’altro approva per questa misura cautelare [74].
Il principe Eszterhazy
L’Humanité ha fatto molto chiasso anche sulla liberazione del principe Eszterhazy, il maggior proprietario terriero dell’Ungheria anteguerra, la cui liberazione indicherebbe, secondo il quotidiano del PCF, il carattere “horthysta” del movimento. In verità, liberato come ogni prigioniero politico, liberato come tutte le vittime di Rakosi, il principe si è ben guardato dal restare in questa terra dove brucia la fiamma rivoluzionaria. È partito in fretta e furia e con discrezione per l’Austria, godendovi senza turbamenti l’immensa fortuna conservata. Ha provato ad agire pubblicamente inviando, dall’Austria, soccorsi e vestiti ai contadini dei suoi antichi possedimenti in Ungheria. Tutto gli è stato rispedito senza nemmeno essere stato toccato [75]. Immaginiamo dei contadini che versano il loro sangue per restituire al principe i suoi possedimenti, battersi per subire nuovamente il secolare giogo di servitù?
Il cardinale Mindszenty
Il cardinale Mindszenty ha fornito molto materiale per le dichiarazioni più sensazionaliste di chi, borghesi o stalinisti, voleva accreditare l’idea di una controrivoluzione bianca in Ungheria. Radio-Praga, il 1° novembre, dà l’annuncio di un governo presieduto dal primate: l’informazione, rilanciata da AFP, farà le delizie della stampa reazionaria e de L’Humanité, ben felice di utilizzare le invenzioni di Radio Free Europe per le necessità della sua propaganda.
Mindszenty, cardinale e primate d’Ungheria, è un reazionario senza scrupoli, un nemico inconciliabile della rivoluzione. È stato però liberato, come Eszterhazy, da una rivoluzione che, generosa come ogni rivoluzione, apriva le porte delle prigioni. Gli stessi uomini avevano torturato anche Rajk. Come Rajk anche Mindszenty aveva confessato. Riabilitato Rajk si doveva liberarlo…
Si sono attribuite al cardinale ogni sorta di intenzioni e propositi. In particolar modo la sua intervista su Radio-Budapest avrebbe preoccupato i Russi spingendoli all’intervento. Il giornalista britannico Mervyn Jones ha cercato il resoconto stenografico del suo discorso pronunciato alla radio il 3 novembre. Il cardinale ha parlato della “lotta per la libertà” che si sviluppava in Ungheria e affermato che essa segnalava la volontà di un popolo di stabilire “una coesistenza pacifica fondata sulla giustizia”. Ha chiesto la messa sotto accusa dei rakosisti davanti a “tribunali imparziali e indipendenti” e si è pronunciato contro lo spirito di vendetta. Ecco il suo programma: “Noi vogliamo una società senza classi ed uno Stato in cui prevalga la legge, un paese che sviluppi le sue conquiste democratiche, fondata sul diritto alla proprietà privata ristretto giustamente dagli interessi della società e della giustizia”. Non chiede la restituzione dei beni confiscati alla Chiesa ma libertà di insegnamento religioso e libertà di stampa e di organizzazione per i cattolici. Equivale forse ciò ad una conversione del cardinale ad una forma cristiana di democrazia socialista? Certo che no, ma, come pensa Jones, “a causa del fatto che il dominio delle forze democratiche era così schiacciante e le prospettive per la controrivoluzione così scarse”, il cardinale non poteva che assumere quel linguaggio [76]. Il giornalista jugoslavo Vlado Tesic, in una nota d’agenzia in cui insiste sul pericolo di “una evoluzione verso destra” soprattutto a causa della liberazione di Mindszenty, fornisce un’informazione preziosa: gruppi di destra distribuiscono volantini dal titolo: “Non abbiamo nulla a che vedere coi Consigli operai: i comunisti hanno il naso là dentro”. Pubblicamente, però, su questa questione i vari Mindszenty tacciono. Un altro corrispondente jugoslavo, Djuka Julius, ha notato un gruppo di giovani distribuire volantini scritti a mano in cui si rivendica l’eliminazione dei comunisti e la formazione di un governo Mindszenty; “parole d’ordine moderatamente fasciste”, dice il giornalista. L’indomani, in seguito ad un incontro coi delegati della siderurgia di Csepel assieme al loro presidente Elek Nagy, conclude che l’appello dei fascisti a liquidare “le conquiste del socialismo” non trova alcun impatto significativo tra la popolazione. Durante la sua conferenza stampa del 3 novembre, Mindszenty, le cui prospettive sono chiaramente di patrocinare la ricostruzione di un partito democratico cristiano, si rifiuta di rispondere alla domanda di un giornalista ungherese su una sua eventuale candidatura a primo ministro, abbandonando la sala.
Joszef Dudas
L’Humanité, ancora grazie alla penna di André Stil, ha designato Joszef Dudas, presidente del Comitato Rivoluzionario di Budapest, come uno dei dirigenti della controrivoluzione “fascista” [77].
Chi era veramente Dudas? “Un giornalista fascista”, come scrive Stil? “Un ingegnere”, come scrive il suo compare sul Daily Worker? Lui stesso si è presentato ai giornalisti come un vecchio militante comunista, membro del PC durante l’occupazione nazista, passato nel 1947 al Partito dei Piccoli Proprietari, arrestato poco dopo, liberato nel 1956 e riabilitato pochi giorni prima dell’inizio della rivoluzione, ancora durante il regno di Gero. Né L’Humanité né The Daily Worker negano che per un periodo egli si sia “infilato” nelle fila del PC.
Dunque, è possibile affermare che, nella misura in cui Dudas si è espresso pubblicamente durante le giornate rivoluzionarie, nessuna delle sue apparizioni spettacolari consente di appioppargli l’etichetta di fascista. Nel suo giornale, Fuggetlentség (Indipendenza), ha pubblicato quattro articoli i cui temi erano, secondo Anna Kethly, “che non si metta mano alle riforme economiche del 1945, ritiro delle truppe sovietiche, libertà di stampa e di associazione, libere elezioni” [78]. Ma sappiamo anche che la testata del suo giornale del 30 ottobre aveva scritto “Non riconosciamo l’attuale governo” e che l’indomani è stato ricevuto da Nagy a cui avrebbe richiesto il portafoglio del ministero degli Esteri [79]. Ricevuto un rifiuto, assieme ai suoi seguaci si è impadronito del ministero per qualche ora e, per questo, è stato arrestato su ordine del governo Nagy [80].
Si trattava di un avventuriero che cercava di trarre vantaggio dalla rivoluzione? Il suo comportamento può indurre a pensarlo. È comunque l’ipotesi che si impone dopo la lettura della nota del comunista polacco Woroszylski, basata sul racconto della sua intervista con Dudas, e dell’analisi che abbozza in quel frangente. Ma questo prova che per ottenere risultati un avventuriero ambizioso doveva guardarsi bene dall’utilizzare un linguaggio fascista. Ciò prova pure che il 3 novembre il governo Nagy era sufficientemente solido ed in sella da poter fare arrestare un uomo che ostentava funzioni rivoluzionarie importanti come quelle di Dudas. Stil, raccontando la parabola di Dudas, alla sua maniera, conclude repentinamente: “È a quel punto che fu arrestato” [81]. Non dice però da chi, et pour cause: se Dudas fosse stato, come L’Humanité afferma, un autentico fascista e controrivoluzionario, come spiegare poi che Nagy, secondo Stil artefice della controrivoluzione, l’abbia fatto arrestare? Queste menzogne sono così grossolane che basta sfiorarle perché si sbriciolino.
Prospettive per la rivoluzione ungherese dopo il 4 novembre
I fatti sono chiari. È certo che si siano espresse tendenze controrivoluzionarie. Non è meno chiaro, come scrive il comunista Peter Fryer, corrispondente del Daily Worker, nella sua lettera di dimissioni dal PC, che “il popolo in armi era del tutto consapevole del pericolo della controrivoluzione ma anche assolutamente in grado di schiacciarla lui stesso” [82]. Dopo le dure battaglie della prima settimana, l’Ungheria ha sperimentato un’autentica esplosione di libertà, tradottasi in una fraternità fra tutte le classi che si erano opposte ai Russi e in una certa confusione: niente è più tipico dell’apparire dei giornali più diversi, da quelli “ufficiali”, stampati, a quelli ciclostilati, dattiloscritti o persino scritti a mano e poi attaccati ai muri. In questa atmosfera alcuni reazionari hanno potuto infiltrarsi e “ficcare il naso” nel movimento. Niente più di questo. È comparso un solo giornale reazionario: Virradat (l’Aurora). Ne è uscito un solo numero perché il giorno seguente gli operai hanno rifiutato di stamparlo [83]. Ciò non ha trattenuto la stampa borghese occidentale dal parlare di esplosione di giornali anticomunisti. A noi invece basta ricordare il giornale Igazsag (La Verità), organo del Partito della gioventù rivoluzionaria, diretto dal giovane intellettuale comunista Obersovszky, assieme ai giovani redattori di Szabad Ibjusag, giornale della Gioventù Comunista, ed avremo un’idea più chiara di che cos’era quel preteso “anticomunismo”.
Non menzioneremo che en passant la tesi per cui la rivoluzione ungherese si indirizzava verso una “democrazia all’occidentale”. Tutto lo smentisce, tutto l’ha smentito sin dall’inizio: la resistenza operaia, l’azione dei Consigli, la repressione dei Russi contro i settori operai della rivoluzione. Questa tesi, in ultima analisi, ha avuto un’unica funzione: fornire agli stalinisti argomenti per giustificare la loro repressione.
L’orientamento della rivoluzione ungherese era così travolgente che nessuno in Ungheria è potuto sfuggire alla sua influenza, nessuno ha agito senza tenerlo in considerazione. Sotto questo aspetto, le basi su cui in Ungheria si sono ricostituiti i partiti piccolo borghesi e riformisti sono assai significative. Non è per questo decisiva la presenza di dirigenti riformisti come Bela Kovacs per giudicare correttamente il significato politico del III governo Nagy: è utile invece studiare il loro linguaggio ed il programma comune a base dell’accordo. Di fronte al potere nascente dei Consigli operai, la restaurazione governativa non poteva procedere che utilizzando un linguaggio il quale trovasse consenso tra le masse insorte.
Il terzo governo Nagy
L’Ufficio Politico del PCF ha parlato di “quelli che furono gli alleati di Hitler, i rappresentanti della reazione e del Vaticano, rimessi al governo dal traditore Nagy” [84]. La stampa reazionaria francese è rimasta esemplarmente silenziosa sulla costituzione di questo governo formato, come l’avevano richiesto i consigli, da rappresentanti di tutti i partiti democratici e dai capi degli insorti. A fianco dei comunisti nagysti - Nagy, Kadar, Losonczy - accedevano in effetti al governo dirigenti dei partiti riformisti socialisti e contadini che sotto Rakosi avevano avuto un’esistenza legale, sebbene soltanto teorica, e gli eroi militari dell’insurrezione di Budapest, tra cui Maleter, considerato come il rappresentante dei “Combattenti della libertà”.
I socialisti
Anna Kethly ha lungamente esposto il punto di vista del suo partito, sin dalla sua partenza dall’Ungheria. È importante sottolineare che il 1° novembre, nel giornale di partito, Nepszava [85], dichiarava: “Vigiliamo sulle nostre fabbriche e sulle nostre miniere, ed anche sulla terra che deve restare nelle mani dei contadini” [86].
Gyula Kelemen, segretario del partito, utilizzava lo stesso linguaggio. Ricevendo una delegazione di giornalisti jugoslavi, diceva che il partito socialista “lotterà con la più grande determinazione per mantenere le conquiste della classe operaia e sosterrà i consigli operai” [87].
I dirigenti dei partiti contadini
Il 21 ottobre a Pecs, nell’assemblea di ricostituzione del Partito dei piccoli proprietari, Bela Kovacs esclamava:“La questione è sapere se il partito, rinato, proclamerà di nuovo le vecchie idee. Nessuno può pensare di tornare indietro al mondo dei conti, dei banchieri e dei capitalisti; questo vecchio mondo è morto, una volta per tutte. Un autentico membro del Partito dei piccoli proprietari non può pensare oggi nella maniera in cui pensava nel 1939 o nel 1945” [88].
Ferenc Farkas, segretario del partito nazional-contadino, rinominatosi Partito Petofi, il 3 novembre sottolineava che “il governo manterrà delle realizzazioni socialiste tutto ciò che può e deve essere utilizzato in un paese libero, democratico e socialista” [89].
Pal Maleter, eroe dell’insurrezione
Infine, c’è Maleter, questo ufficiale dell’esercito passato con gli insorti sin dalle prime ore. Il difensore, con 1500 giovani operai, studenti e soldati, della caserma Kilian; Maleter, eroe dei Combattenti della libertà. Chi è? Secondo Stil si tratta di “un vecchio ufficiale horthysta che ha finto di aggregarsi al potere popolare”. [90] In realtà è un vecchio comunista convinto al comunismo durante la prigionia, già allievo delle Accademie Militari russe, paracadutato in Ungheria durante la guerra quando fu capo di bande partigiane. L’inviato speciale del Daily Herald, il laburista Basil Davidson, è andato ad intervistarlo. Racconta: “Portava ancora la sua piccola stella di partigiano del 1944 (ed un’altra stella rossa ottenuta per l’estrazione di carbone effettuata dal suo reggimento a Tatabanya), in momenti nei quali tutti gli ufficiali toglievano le mostrine di tipo sovietico”. Davidson gli domanda le prospettive per la rivoluzione ungherese. “Se noi ci libereremo dei Russi”, dice, “non crediate che torneremo indietro, al passato. E se ci sono delle persone che pensano di tornare indietro, allora faremo i conti - e mise la mano sulla sua rivoltella” [91].
Il governo della rivoluzione
L’atteggiamento del giovane capo comunista dell’esercito ungherese era chiaro. Rifletteva l’immagine del governo di cui era membro e che aveva appena accettato il programma e le istituzioni della rivoluzione. In suo nome, il comunista Geza Losonczy dichiarava che non si sarebbe rimessa in discussione “la nazionalizzazione delle fabbriche, la riforma agraria e le conquiste sociali”. Si dichiarava pronto a battersi per “l’indipendenza nazionale, l’eguaglianza dei diritti e la costruzione del socialismo non attraverso la dittatura ma sulla base della democrazia” [92].
La rivoluzione dei consigli operai aveva appena portato a termine con successo la prima tappa. Ovunque regnava l’ordine dei consigli e degli operai in armi. Gli ungheresi, nonostante gli orrori e le distruzioni, si preparavano a costruire ‘il sol dell’avvenire’. Mikoyan e Suslov, ritornati, erano ripartiti per Mosca garantendo a Imre Nagy il loro appoggio. Era il 3 novembre. Quella stessa sera i Russi catturavano a tradimento Maleter ed il suo capo di stato maggiore mentre negoziavano il loro ritiro. Il 4 lanciarono contro la rivoluzione i loro obici, i loro cannoni ed i loro autoblindo, mentre la stampa stalinista di tutto il mondo assecondava i passi degli assassini e suonava la marcia funebre ai rivoluzionari d’Ungheria.
Il dualismo di potere
La rivoluzione polacca aveva scatenato la rivoluzione ungherese. La vittoria dei consigli operai, sulla base del loro programma rivoluzionario, è considerata dalla burocrazia dell’URSS alla stregua di un pericolo mortale. L’8 novembre, Krusciov, in un discorso ai giovani comunisti di Mosca, ha parlato della gioventù ungherese sollevatasi contro il regime concludendo sulla necessità, anche in URSS, di “aumentare senza sosta la vigilanza e attribuire sempre più attenzione all’educazione della gioventù”. L’effervescenza che caratterizza in quel momento (dicembre 1956 - gennaio 1957) l’ambiente universitario di Mosca lo prova: la diagnosi era corretta. Il programma della gioventù rivoluzionaria polacca e di quella ungherese è lo stesso di quello della gioventù tedesca sollevatasi il 17 giugno 1953 a Berlino Est, lo stesso dei giovani cecoslovacchi, rumeni e russi. Nel 1940 Stalin ha assassinato Trotskij ma non ha potuto assassinare il trotskismo, le cui idee trionfano oggi nei grandiosi sommovimenti rivoluzionari della nostra epoca. I successori di Stalin hanno svolto il loro compito assassinando decine di migliaia di militanti rivoluzionari ungheresi e deportandone in URSS altre decine di migliaia. Ma la rivoluzione continua.
La lotta militare
Malgrado una schiacciante superiorità numerica, malgrado una schiacciante superiorità nell’armamento pesante, i Russi hanno impiegato più di una settimana per fare cessare ogni forma di resistenza militare organizzata. “I maggiori centri di resistenza furono i quartieri operai. Gli obiettivi che i Sovietici attaccarono con una rabbia ed una furia superiori furono le fabbriche metalmeccaniche della “periferia rossa” di Budapest, i quartieri operai e le industrie dove i comunisti ungheresi avevano i loro bastioni e i loro militanti più attivi”, annota un testimone [93], ed in un altro punto: “Sono soprattutto gli operai, i comunisti, i giovani sotto i vent’anni che si batterono dappertutto a Budapest con vecchi fucili, mitragliatrici o bottiglie molotov, contro gli autoblindo russi.
Fu la fabbrica di Csepel, con le sue migliaia di operai, avanguardie dei militanti proletari del PC ungherese, che offrì la maggior resistenza ai carri russi” [94]. Gli operai di Csepel hanno deposto le armi soltanto dopo 10 giorni di combattimenti accaniti e, il giorno stesso, hanno deciso di proseguire la lotta per le loro rivendicazioni, quelle della rivoluzione operaia. I lavoratori di Dunapentele, la vecchia Sztalinvaros, si sono battuti “per il socialismo” con la direzione dei loro consigli, fino a quando sono stati travolti dagli autoblindo e sommersi dalle bombe. I minatori di Pecs hanno resistito nelle loro miniere ed alcuni vi hanno trovato volontariamente la morte facendosi saltare in aria con esse. Deportazioni massicce di giovani ungheresi rivelano l’impotenza dei Russi davanti alla volontà indomabile della gioventù rivoluzionaria.
L’internazionalismo proletario
A partire dal 4 novembre la burocrazia del Cremlino ha deciso di far intervenire truppe provenienti dall’Asia sovietica, nella speranza che la barriera linguistica impedisca la fraternizzazione tra gli operai ed i contadini sovietici in divisa e la gioventù rivoluzionaria ungherese. Allo stesso tempo i burocrati facevano credere a queste truppe di essere inviate a difendere il canale di Suez, nazionalizzato da Nasser, contro la spedizione degli imperialisti anglo-francesi del 4 novembre; ed ai Combattenti ungheresi toccava di spiegare che il Danubio non era il canale di Suez …
Combattenti della libertà, convinti della loro causa, continuarono i loro appelli all’internazionalismo proletario dei soldati dell’URSS. Il 7 novembre i lavoratori di Dunapentele indirizzarono un appello alle truppe sovietiche in occasione del 39° anniversario della rivoluzione russa: “Soldati! Il vostro Stato è stato creato al prezzo di una lotta sanguinosa perché voi abbiate la vostra libertà. Perché voler schiacciare la nostra libertà? Potete constatare coi vostri occhi che a prendere le armi contro di voi non sono stati i padroni delle fabbriche, i proprietari terrieri, i borghesi ma il popolo ungherese che combatte per gli stessi diritti per i quali voi avete lottato nel 1917. Soldati sovietici! Avete dimostrato a Stalingrado come eravate in grado di difendere il vostro paese. Soldati non vi servite delle vostre armi contro la nazione ungherese.” [95]. La risposta è arrivata: a Budapest il comandante di un’unità di carri armati russi si è arreso ai Combattenti della libertà. Aveva dovuto sparare contro tre bambini che cercavano di incendiare il suo carro con una bottiglia di benzina e capì allora che aveva a che fare con una rivoluzione operaia [96]. Migliaia di soldati russi disarmati sono riportati in URSS e sistemati in campi. Alcuni si sono dati alla macchia ed altri nel Nord-Ovest del paese hanno liberato un treno carico di deportati ungheresi [97]. La rivoluzione ungherese e l’intervento armato russo diventano così un potente fattore di radicalizzazione delle masse russe e della volontà rivoluzionaria della gioventù.
Il governo di Janos Kadar
Quando l’esercito russo attaccava la rivoluzione ungherese, si disegnava una manovra destinata ad ingannare i lavoratori ed a fornire una copertura all’opera controrivoluzionaria della burocrazia. Poco ore dopo l’ingresso sulla scena dei blindati, Radio-Budapest, controllata dai Russi, annunciava la formazione di un “governo rivoluzionario operaio e contadino” presieduto da Janos Kadar. La personalità di Kadar, la popolarità derivatagli dalle persecuzioni e dalle torture subite nell’era Rakosi-Gero ne avevano fatto un leader dei comunisti oppositori prima della rivoluzione ed un luogotenente di Nagy durante il processo rivoluzionario. Ancora il 1° novembre aveva dichiarato all’ambasciatore sovietico Yuri Andropov che, se necessario, avrebbe combattuto “a mani nude” [98]. Quel medesimo giorno aveva parlato alla radio in nome del governo Nagy di cui era membro. Benché come ministro degli Interni avesse comunque preso parte al processo contro il suo compagno Rajk, benché si fosse tenuto estraneo alle attività del circolo Petofi ed avesse accompagnato Gero a Belgrado, nel corso dei giorni decisivi sembrava essersi staccato dall’apparato stalinista con la stessa nettezza di Nagy e Losonczy. Cosa può spiegare una virata così brusca? Cosa è veramente successo? Kadar, spezzato dalle torture, è diventato forse un corpo privo di pensiero, uno strumento nelle mani dei poliziotti stalinisti? [99] Ha invece semplicemente agito come uomo d’apparato cedendo alle pressioni della burocrazia? Non è possibile stabilire con certezza la questione. È sicuro invece che un governo con la presenza dirigente di Kadar e formato dal nucleo duro degli stalinisti - i vari Munnich, Apro e Marosan di cui i consigli avevano richiesto l’eliminazione - serviva alla burocrazia del Cremino per creare confusione tra i lavoratori.
Un passo indietro di fronte ai consigli
Nei primi giorni di combattimento seguenti al 4 novembre, sembra che l’iniziativa sia stata nelle mani degli elementi più controrivoluzionari del campo stalinista. In questi termini infatti il comandante ungherese di Szombathely, unitosi ai Russi, annunciava trionfalmente alla Radio: “I lavoratori hanno colpito. Nelle fabbriche i consigli operai ed i fascisti sono stati liquidati.” [100]. L’8 novembre lo stalinista Ferenc Munnich, ministro degli Interni e delle Forze Armate del governo Kadar, esprimeva pubblicamente la volontà del Cremlino di annientare il potere dei Consigli operai dissolvendo i Comitati rivoluzionari dell’esercito, esigendo l’eliminazione di quelli che battezzava i “controrivoluzionari” dei consigli. I consigli erano riconosciuti ma il governo toglieva loro ogni rilevanza decretando che non avevano alcun potere per nominare o licenziare chiunque all’interno dell’amministrazione, proibendo loro di prendere una qualsiasi decisione senza l’approvazione di un “commissario politico” che era ormai il loro tutore [101].
Ma in realtà, man mano che gli operai erano costretti a cessare i combattimenti, appariva con chiarezza che, nonostante le esecuzioni, gli arresti e le deportazioni, i consigli erano rimasti in piedi ovunque, rinnovatisi per riempire i vuoti che si creavano, portati avanti e sostenuti da quei lavoratori i quali non riconoscevano altra autorità ed altro programma eccetto il loro. Sette giorni di combattimento non avevano fatto indietreggiare la volontà rivoluzionaria delle masse. Bisognava cambiare tattica. Janos Kadar cominciò a giocare il ruolo che gli era stato affidato.
Kadar cerca di conquistare i consigli
L’11 novembre Kadar ha dichiarato alla radio che il governo avrebbe negoziato il ritiro dei Russi. I membri del precedente governo Nagy, a suo dire, “concordano pienamente col suo programma rivoluzionario” ed hanno altresì manifestato la volontà di collaborare strettamente con lui. Kadar dice che molti partiti politici potranno partecipare alla vita pubblica. Mentre condanna il regime instaurato sotto Rakosi e Gero, si lascia sfuggire che “in Ungheria ci sono persone le quali temono che questo governo reintroduca i metodi del vecchio partito comunista ed il suo sistema di direzione. Non c’è un solo uomo in posizione dirigente che immagini di agire in tal senso perché, anche qualora lo desiderasse, sa che sarebbe spazzato via dalle masse” [102]. Il 12 novembre il quotidiano del PC britannico è autorizzato ad annunciare che “il signor Kadar ha avuto un colloquio con Nagy” [103]. Il 14 novembre il dirigente dei sindacati ungheresi, Sandor Gaspar, afferma che il governo ha riconosciuto i consigli i quali avranno il diritto, all’interno delle fabbriche, di prendere le decisioni che i direttori dovranno eseguire. Aggiunge che i consigli dovranno però essere confermati coi loro nuovi poteri da nuove elezioni [104].
Il 14 novembre a Budapest si era costituito il Consiglio centrale degli operai di Budapest, eletto dalla totalità dei consigli operai della capitale. I componenti del Consiglio centrale sono molto giovani: la metà ha tra i 23 ed i 28 anni. Alcuni “anziani” hanno conosciuto la repressione del regime fascista di Horthy prima ancora di quella di Rakosi, alcuni sono stati militanti socialdemocratici prima di aderire al partito “comunista”: è il caso di Sandor Bali, delegato alla fabbrica Belojannis di Budapest, molto ascoltato all’interno del Consiglio centrale. Questo fabbro, assieme al fabbro diventato ingegnere, Karsai, è la testa politica che ispira la maggioranza del Consiglio centrale dopo l’eliminazione, iniziata il 15 novembre, dell’ala pro-Kadar diretta da Arpad Balasz. Gli altri militanti che diventano dirigenti sono il giovane attrezzista Sandor Racz, anch’egli delegato della fabbrica Belojannis, l’ingegnere ottico Miklos Sebestyen, il fabbro Ferenc Toke, il delegato della raffineria di Csepel Gyorgy Kamocsai, il rappresentante dei ferrovieri Endre Mester, tutti rappresentanti della generazione operaia a cui il nuovo regime ha dato istruzione e qualifica privandola al tempo stesso di ogni diritto democratico. Dopo la repressione seguita al 4 novembre, il Consiglio centrale è la sola autorità realmente riconosciuta a Budapest. Incarna la rivoluzione operaia ed è in contatto costante coi Comitati rivoluzionari degli studenti e degli intellettuali. È al Consiglio centrale che Kadar - senz’altro potere che i blindati russi impotenti di fronte allo sciopero - lancia un appello per trattare la ripresa del lavoro. Come avrebbe dichiarato in seguito: “Il governo ha trattato più volte col Consiglio di Budapest valutando che esso avrebbe aiutato i consigli di fabbrica nella realizzazione dei loro compiti e scopi” [105].
Fin dal 14 novembre il Consiglio centrale degli operai di Budapest rende pubbliche le condizioni che pone per la ripresa del lavoro. Sono le rivendicazioni della rivoluzione: riconoscimento del diritto di sciopero, ritorno al potere di Imre Nagy, ritiro dei Russi, elezioni libere ed oneste a suffragio universale, abolizione del partito unico e libertà per i partiti che accettano il regime economico vigente, indipendenza completa dall’URSS, neutralità dell’Ungheria rispetto ai patti militari internazionali. Le risposte di Kadar, evasive o positive, tali quali sono state rese pubbliche l’indomani, testimoniano innanzitutto del suo desiderio di convincere i delegati dei consigli della purezza delle sue intenzioni, ma anche dei suoi limiti … Sottolinea le conseguenze economicamente disastrose del prolungamento dello sciopero, dichiara che “non si pone neppure la questione del ritorno al potere di Imre Nagy finché si troverà in territorio straniero” (cioè l’ambasciata jugoslava).
Kadar si dice d’accordo, in linea di principio, col ritiro dei Russi: “quando sia sconfitto il pericolo reazionario, le truppe sovietiche abbandoneranno l’Ungheria”. Kadar promette la costruzione di un “sistema politico pluripartitico”, “a condizione che tutti i partiti riconoscano il regime socialista”; domanda inoltre ai Consigli di essere prudenti sulla questione di elezioni libere, “punto delicato”, perché “il nostro partito potrebbe essere sconfitto”. Non fa nessuna promessa rispetto all’uranio ungherese che, così dice, “non potremmo comunque sfruttare da soli” ma in compenso si impegna a rendere pubblici tutti i futuri accordi economici con l’URSS. L’idea di neutralità, infine, viene categoricamente rifiutata. Al Consiglio in rivolta contro le deportazioni dichiara: “Abbiamo raggiunto un accordo col Comando sovietico sulla base del quale nessuno deve essere deportato dall’Ungheria” [106].
Appena viene resa nota, la risposta di Kadar è discussa dai consigli operai. La sera di quella stessa giornata, il 15 novembre, i delegati del Consiglio centrale di Budapest registrano la volontà operaia di non porre fine allo sciopero prima di aver ottenuto il soddisfacimento delle rivendicazioni essenziali. In riunione nella sede della Compagnia dei trasporti di Budapest, i delegati votano la continuazione dello sciopero generale. L’ottenimento di due rivendicazioni centrali potrebbe, secondo loro, motivare un cambiamento della loro linea: il ritorno al potere di Imre Nagy e l’allontanamento da Budapest e a breve termine da tutto il paese delle truppe, elemento chiave “nell’interesse del mantenimento di una relazione fraterna con l’Unione Sovietica” [107]. Vale ricordare che il Consiglio centrale non abbandona le rivendicazioni presentate il giorno prima. Ma il ritorno al potere di Imre Nagy, di cui Kadar ha lasciato intravedere la possibilità, e la partenza dei Russi sarebbero la garanzia che i Russi sono pronti ormai a consentire che la vita politica ungherese si sviluppi senza interventi esterni. Realista, il Consiglio ipotizza una ritirata graduale. Diffidenti, i suoi delegati avvertono Kadar che si riservano il diritto di ricorrere nuovamente allo sciopero, se lo ritenessero necessario, al fine di ottenere le altre rivendicazioni. È chiaro che in quel momento i componenti del Consiglio di Budapest pensano che continuando lo sciopero sia possibile che Kadar ed i Russi cedano sui due punti fondamentali. Per parte sua Kadar vuole mantenere questi “interlocutori credibili”. In piena riunione del Consiglio, la sala è invasa dai soldati russi appoggiati da due carri e tre autoblindi [108]. Kadar, raggiunto telefonicamente, si scusa coi delegati operai ed intercede presso il Comando russo perché vengano ritirate le truppe. Questo episodio induce senz’altro alcuni membri del Consiglio a pensare che Kadar sia il difensore dei consigli presso i Russi e persegua una politica del male minore conveniente da cavalcare. In verità il ‘gioco’ di Kadar, il seguito lo avrebbe dimostrato, non consisteva nell’imporre ai Russi il punto di vista dei consigli ma al contrario ad imporre ai consigli la volontà dei Russi.
Primi frutti dell’azione di Kadar
La fame ed il freddo stavano diventando gli alleati più preziosi di Kadar. Le sofferenze sopportate durante e dopo i combattimenti, la stanchezza e le privazioni non avrebbe potuto, esse sole, demoralizzare i lavoratori. Ma, aggiungendosi alle promesse di Kadar che lasciava intravedere una possibile via d’uscita pacifica, esse hanno contribuito ad alimentare la demoralizzazione nella classe operaia. Sembra che proprio questi due elementi siano stati decisivi per spingere gli operai di Csepel alla ripresa del lavoro.
I metalmeccanici di Csepel erano stati l’ariete della rivoluzione. Si erano battuti fin dal 23 ottobre. La mattina del 4 novembre resistevano all’attacco portato dai Russi contro la loro fabbrica. Nel corso di quella battaglia accanita gli operai della “Billancourt” [109] ungherese hanno perso molti dei migliori combattenti rivoluzionari. Nonostante ciò, il giorno in cui consegnano delle armi votano pure la continuazione dello sciopero. I contadini li riforniscono [110]. Il governo vieta allora ogni scambio di alimenti al di fuori del controllo dei suoi organismi. Kadar moltiplica promesse e pressioni, facendo intravedere la possibilità di un accordo: molti lavoratori di Csepel, che hanno subito più di altri, vorrebbero curare le loro ferite. È questa la prima vittoria di Kadar, parziale soltanto ma che sfrutterà sino in fondo. I dirigenti operai del Consiglio di Csepel pensano di poter riprendere il lavoro senza rinunciare alle proprie rivendicazioni operaie: “Vogliamo certamente riprendere il lavoro nelle fabbriche di Csepel”, dichiara il loro manifesto uscito la sera del 15 novembre, “ma alla sola condizione che proseguano le trattative tra governo e operai e che le nostre rivendicazioni siano accettate. Continueremo la lotta per la realizzazione completa delle idee della nostra rivoluzione, poiché ci sentiamo abbastanza forti per eseguire il testamento dei nostri eroi caduti nella lotta di liberazione… Niente al mondo può privarci di quest’arma invincibile che è lo sciopero, qualora i negoziati col governo fallissero.” [111].
Il peso degli operai di Csepel nel proletariato di Budapest ed il peso dei suoi delegati nel Consiglio centrale sembrano avervi fatto pendere la bilancia a favore dei “conciliatori”. Kadar fa pressione sui delegati in nome delle necessità materiali. Ripete che la continuazione dello sciopero è un “suicidio nazionale”. Ripete che la ripresa del lavoro, il “ristabilimento dell’ordine”, sono la precondizione di un qualsiasi successivo passo in avanti. Senz’altro alcuni conciliatori pensano che si debba “aiutare” Kadar, il quale, ottenuta la fine dello sciopero, sarebbe in una posizione di maggior forza per strappare alcune concessioni ai Russi. Dopo una lunga notte di discussione sono i conciliatori a riportare la vittoria, con una maggioranza risicata.
La mattina del 16 novembre il Consiglio centrale degli operai di Budapest lancia un appello per la ripresa del lavoro:
Consapevoli della responsabilità verso la nostra patria ed il nostro popolo, che hanno tanto sofferto, dobbiamo dire che nell’interesse dell’economia nazionale, per ragioni sociali ed umanitarie, ed in seguito a determinate circostanze, si rende assolutamente necessaria la ripresa del lavoro produttivo.
“In questa tragica situazione, il vostro buon senso, la vostra consapevolezza ed il vostro spirito operaio vi ordinano categoricamente di riprendere il lavoro, mantenendo i vostri diritti, per sabato 17 novembre.
“Proclamiamo con solennità che tale decisione non significa in nessun modo che noi abbiamo abbandonato, fosse pure una virgola, gli obiettivi e le conquiste della nostra insurrezione nazionale.
“I negoziati continuano e siamo convinti che, grazie agli sforzi reciproci, le questioni in sospeso saranno risolte per il meglio.
“Chiediamo la vostra fiducia ed il vostro unanime aiuto.” [112]
È evidente che tale posizione è lungi dall’essere condivisa da tutti gli operai. Quel giorno stesso alcuni delegati sono revocati dalla base che gli rimprovera di non aver rispettato le decisioni prese la vigilia dopo le discussioni tra gli operai. Molti consigli protestano ricordando le condizioni poste dallo stesso Consiglio centrale per la ripresa del lavoro: ritorno al potere di Imre Nagy e ritiro dei Russi da Budapest [113]. L’opposizione si esprime pubblicamente: un volantino diffuso il 17 rivela che Kadar ha minacciato di deportare i membri del Consiglio nel caso in cui il lavoro non fosse ripreso. Il 18 una delegazione operaia chiede al Consiglio centrale di fare un appello a tutti i consigli di provincia perché eleggano un Consiglio nazionale, un Parlamento operaio che, eletto dall’insieme dei lavoratori ungheresi, sarebbe l’unico organismo col potere di trattare in nome di tutti.
Le tendenze politiche all’interno dei consigli
Il Consiglio centrale di Budapest, sommerso da un’ondata di proteste e constatando che il suo appello alla ripresa del lavoro non è stato seguito, fa sua la proposta ed inizia a preparare la riunione del Consiglio nazionale per la quale solleciterà tra l’altro un’autorizzazione ufficiale che verrà negata [114]. La situazione di Budapest sembra analoga a quella di Csepel dove, il 19 novembre, il 30% degli operai entra in fabbrica ma nessuno lavora. Un portavoce dichiara: “Riteniamo che sia la sola cosa ragionevole che possiamo fare in questo momento. Siamo qui in fabbrica perché abbiamo bisogno del nostro salario ed anche perché la presenza in fabbrica aiuta a raggrupparci. Se continuavamo a resistere nelle nostre case, i cancelli delle fabbriche sarebbero stati chiusi, rendendo più facile al governo il compito di occuparsi di noi individualmente a casa nostra piuttosto che di farlo nelle fabbriche dove siamo riuniti” [115].
Ma la provincia si rivelerà molto meno propensa alla conciliazione che la maggioranza - ristretta, è vero - dei componenti del Consiglio centrale di Budapest Il fatto non ha nulla di straordinario. A Budapest i consigli operai sono nati quando l’insurrezione era già iniziata. I primi combattenti operai hanno raggiunto i distaccamenti formati dal Comitato rivoluzionario degli studenti. Lo sciopero generale ha fatto seguito all’insurrezione provocata dall’attacco dell’AVH contro le manifestazioni del 23 ottobre. Durante l’insurrezione i consigli operai, isolati gli uni dagli altri, non hanno avuto modo di centralizzarsi. I lavoratori in lotta con gli insorti si sono messi sotto gli ordini di vari organismi: il Comitato degli studenti, il Comitato nazionale rivoluzionario di Dudas, il Comitato dell’esercito. Molti operai mescolati agli altri Combattenti della libertà seguivano Maleter, altri ancora il governo Nagy. La forza organizzata della classe operaia, coi suoi consigli eletti nelle aziende, le sue posizioni in fabbrica - in altri termini i suoi bastioni industriali - è apparsa soltanto quando la repressione, abbattendo gli organismi nati dall’insurrezione e i comitati locali, ha attaccato direttamente gli embrioni di un nuovo potere. I militanti dirigenti dei consigli operai hanno costituito il Consiglio centrale, su proposta del consiglio di Ujpest, perché erano coscienti che solo l’organizzazione su base di classe dei consigli poteva dare alla classe operaia la forza per difendere le conquiste dell’Ottobre per conto dell’intera popolazione. A proposito del Consiglio centrale, è utile osservare che se è diventato l’organismo più rappresentativo della resistenza operaia organizzata, a Budapest si è scontrato con una concentrazione sproporzionata di forze armate russe ed all’apparato amministrativo, ridotto ma reale, formato da ex Avos che spalleggiavano il governo Kadar. In provincia, inversamente, l’insurrezione è scaturita dallo sciopero generale e i consigli operai, dopo averlo diretto, hanno assunto direttamente il potere. Hanno spazzato via l’amministrazione stalinista, dato ordini alle forze armate, ed il governo Nagy ha tratto la propria forza dal loro appoggio. Durante il periodo dell’“indipendenza” hanno realmente esercitato il potere. Dopo l’attacco del 4 novembre sono rimasti nei fatti la sola autorità davanti ai Comandi russi, una volta squagliatisi l’apparato del partito e dello Stato. In alcune città il Comando russo ha trattato con loro. Così a Miskolc la radio continua a trasmettere liberamente e i russi si rifiutano di intervenire per far riconoscere il governo Kadar, a patto che i suoi soldati non vengano attaccati. I consigli operai di provincia sono così molto meno inclini al compromesso rispetto al Consiglio centrale, sottoposto ad una maggiore pressione. Questi consigli hanno il potere e l’esigeranno per tutti i consigli.
Lo scontro coi burocrati è inevitabile. Un portavoce dei sindacati, seguace di Kadar, dichiara in effetti il 19, secondo quanto riporta Stil: “Ci sono ancora in Ungheria compagni i quali non credono che la formazione di consigli sia positiva e non vedono che i pericoli della loro azione… Finora tali consigli, allontanandosi dal loro ruolo di organismo economico locale, limitato alla singola impresa, pretendendo di assumere una funzione di potere politico o di sostituirsi ai sindacati, o di organizzarsi in comitati cittadini, regionali o nazionali, hanno portato soltanto verso una situazione di caos anarchico” [116]. La situazione è chiara. All’interno della burocrazia un’ala è tenacemente opposta all’esistenza stessa dei consigli, un’altra è pronta a tollerarli qualora si limitino a “funzioni di organizzazione economica locale”. Una parte dei Consigli, di contro, è decisa a “giocare il ruolo di organismo del potere politico”. Avendo il Consiglio di Budapest ceduto alle pressioni dei burocrati, i lavoratori fanno appello al Consiglio nazionale rispetto alla decisone di porre fine allo sciopero.
Il consiglio nazionale operaio
La riunione del consiglio nazionale operaio, una sorta di Parlamento operaio, doveva iniziare alle ore 9 del 21 novembre presso il Palazzo dello Sport di Budapest. Quando i delegati si presentarono trovarono i lati della sala bloccati dalla polizia e dall’esercito, rinforzati dai carri russi. Decisero allora di riunirsi al locale del Consiglio centrale, alla sede della Compagnia dei trasporti. Nessun giornalista ha potuto assistere a quella riunione, durata cinque ore, nell’edificio accerchiato dalla polizia che la tollerava come sessione “allargata” del Consiglio di Budapest.
La prima decisione del Consiglio nazionale fu di accantonare l’ordine di ripresa del lavoro lanciato dal Consiglio centrale di Budapest, seguito da non più di un quarto dei lavoratori. Il Consiglio nazionale fa appello alla ripresa dello sciopero per 48 ore, in segno di opposizione alle misure prese contro la sua riunione ed ai tentativi governativi di impedirla. L’ordine di sciopero è valido per tutta l’industria, salvo quella alimentare. Al termine delle 48 ore, la condizione per la ripresa del lavoro è il riconoscimento da parte del governo Kadar del Consiglio nazionale operaio eletto democraticamente come la sola rappresentanza autentica dei lavoratori ungheresi. Se questa domanda è accettata, il lavoro riprenderà il 24 novembre contemporaneamente ai negoziati tra il governo e i delegati del consiglio nazionale operaio. Questi avranno come oggetto le rivendicazioni della classe operaia, le stesse avanzate il 15 novembre dal Consiglio centrale: ritorno al potere di Imre Nagy, liberazione dei prigionieri tra cui figura Maleter, ritiro dei Russi ed abbandono del paese, elezioni libere con tutti i partiti, libertà di stampa e di riunione, indipendenza dell’Ungheria. Le discussioni tra il governo ed il Consiglio dovranno essere pubblicate con esattezza sulla stampa. Il governo dovrà manifestare “la sua buona fede liberando immediatamente i civili ed i militari fermati, arrestati e deportati” [117], “deferendo davanti ai tribunali ungheresi per giudizi pubblici coloro che sono incolpati per delitti comuni” [118].
La risposta della classe operaia ungherese era netta. Prima di consegnare le armi esigeva garanzie serie. È ancor più significativa la rivendicazione del Consiglio nazionale di essere riconosciuto unica autorità in grado di rappresentare autenticamente i lavoratori ungheresi. Con la formazione del Consiglio nazionale operaio prendeva forma quel movimento “unito e potente” reclamato sin dal 28 ottobre da parte del consiglio operaio di Miskolc, questi “stati generali dei consigli operai” che Nagy voleva realizzare. Si era davanti alla rivendicazione sostenuta dalla classe operaia di esercitare il potere per mezzo delle sue organizzazioni autonome di classe, dei suoi soviet, i consigli locali e regionali, del suo Consiglio nazionale. Il braccio di ferro era inevitabile tra la classe operaia e i burocrati, determinati per loro conto a soffocare o a svuotare di sostanza i consigli. Però, nello scontro tra un governo che aveva una strategia nei confronti dei lavoratori e preparava scrupolosamente i suoi colpi, da una parte, e una direzione operaia priva di esperienza, senza quadri politici rivoluzionari formati, dall’altra, tra la burocrazia dotata di politicanti capaci di manovrare ed i consigli operai cui mancava il sostegno e l’organizzazione di un partito rivoluzionario come il partito bolscevico del 1917, ci fu bisogno di tempo e di numerose esitazioni della giovane direzione perché la situazione diventasse chiara.
Il governo Kadar manovra e temporeggia
I burocrati capivano che era troppo presto per puntare ad una prova di forza. I comitati rivoluzionari formatisi ad ogni livello dell’amministrazione e dello Stato costituivano un ostacolo piuttosto ingombrante per l’azione della burocrazia. Dal 22 il governo decide di passare all’attacco nei ministeri, alla rivoluzione riuscitasi ad installare nel cuore dello Stato. “I Comitati rivoluzionari dei ministeri vogliono prendere decisioni che superano la loro competenza e non favoriscono né la ripresa del lavoro né il ristabilimento dell’ordine”, dichiara Radio-Budapest che aggiunge: “Il governo ha dato l’ordine ai direttori dei ministeri di ridurre l’attività di questi comitati e di accettare i loro suggerimenti solo se sono realmente costruttivi” [119].
Quello stesso giorno il Consiglio operaio di Csepel, fedele alla linea condensata nella sua risoluzione del 16, si dichiarava contrario allo sciopero di 48 ore deciso dal Consiglio nazionale e condiviso dal Consiglio operaio centrale di Budapest. Dopo aver protestato contro la decisione governativa di mettere al bando il Consiglio nazionale, dopo aver chiesto di “porre termine alle misure contro gli operai ed i loro rappresentanti”, il Consiglio di Csepel considerava “un grave errore” la consegna dello sciopero, poiché “ciò rende la situazione economica ancora più difficile”. Si chiedeva inoltre al Consiglio di Budapest di “ammettere che il periodo dell’irruenza e del libero sfogo delle passioni è da archiviare” e che l’arma dello sciopero deve essere utilizzata “in maniera più ragionevole” [120].
La presa di posizione dei lavoratori di Csepel sembra essere stata, ancora una volta, decisiva. La mattina del 23 Radio Budapest annuncia che la notte precedente è stato firmato un accordo per la ripresa del lavoro tra Kadar ed il Consiglio operaio centrale di Budapest. Viene riconosciuta l’autorità dei Consigli dentro la fabbrica, compresa la facoltà di nomina dei direttori. Riprendono le trattative tra governo e consigli, ma il Consiglio si riserva di ricorrere nuovamente all’arma dello sciopero [121]. Senza dubbio gli elementi conciliatori potevano vantare di essere riconosciuti dal loro proprio consiglio, come implicava l’annuncio alla radio di un accordo concluso tra essi ed il governo Kadar. Tuttavia, sembra proprio che la dichiarazione del 23 novembre, quello stesso giorno, da parte dell’Unione degli Scrittori, indichi una posizione più ferma di fronte al governo, poiché dopo aver approvato l’operato dei Consigli “in difesa delle conquiste sociali”, l’Unione degli Scrittori “consiglia la ricerca di un accordo per la ripresa del lavoro senza fare concessioni sulle rivendicazioni fondamentali” [122]. Ancor più della presa di posizione degli scrittori, in cui ritroviamo l’influenza di Tibor Dery [123], l’opposizione operaia è netta. Un giornalista, dopo aver discusso coi dirigenti del Consiglio centrale di Budapest il 23, riferisce quanto segue: “Il Consiglio riconosce che l’ordine di ripresa non è stato seguito; aggiunge di aver ricevuto centinaia di telefonate che reclamavano la continuazione dello sciopero contro il rapimento di Imre Nagy” [124].
Il rapimento di Imre Nagy
In effetti, il 4 novembre Nagy aveva richiesto asilo presso l’ambasciata yugoslava a Budapest. Con lui c’erano i suoi amici Geza Losonczy, Ferenc Donath, Janos Szilagyi, veterani comunisti, la vedova di Rajk, Gabor Tanczos, il segretario del circolo Petofi, in totale una trentina di persone. Tra loro figuravano anche Lukacs, il filosofo, Zoltan Szanto, ex ambasciatore a Parigi e il vecchio comunista Zoltan Vas. Questi ultimi tre avevano lasciato l’ambasciata senza più ricomparire in pubblico. Il 21 novembre, però, era stato firmato un accordo tra i governi ungherese e yugoslavo per garantire a Nagy ed ai suoi compagni la possibilità di rientrare liberamente al proprio domicilio.
Avevamo già osservato che il giornale comunista inglese annunciava che Kadar si era trovato con Nagy. Già il 14 novembre, spazzando via le calunnie a proposito del “traditore Nagy”, Kadar aveva dichiarato pubblicamente: “Non credo che Nagy abbia coscientemente aiutato la controrivoluzione. Né il governo né i Russi desiderano limitare la sua libertà” [125].
Davanti ai Consigli operai Kadar aveva parlato di “negoziati” con Nagy appena egli fosse rientrato in territorio ungherese. L’accordo realizzato tra il governo yugoslavo e Kadar, rivelato da fonte ufficiale yugoslava il 23 novembre, andava in direzione delle promesse di Kadar. La liberazione di Nagy non poteva che significare la ripresa delle trattative con lui e la soddisfazione almeno parziale della richiesta degli operai i quali esigevano il suo ritorno al potere. Nagy, uscito dall’ambasciata, ha realmente discusso con Kadar alla sede del Parlamento? Entrambi, come ritiene il corrispondente della Reuter, studiavano l’ipotesi di un governo di coalizione. Un governo Nagy-Kadar? Il ruolo di Kadar e le sue intenzioni reali sono poco chiare. Non è comunque l’elemento decisivo. I fatti sono indiscutibili, che Kadar abbia agito coscientemente oppure no, che abbia ingannato Nagy e gli yugoslavi o che sia servito da esca per attirare Nagy fuori dal suo rifugio e permettere così ai Russi di catturarlo. È infatti sulla base della promessa di Kadar che Nagy è uscito ed è grazie a questa promessa subito violata che è stato arrestato dai Russi. Che sia stato o meno informato dell’operazione, Kadar l’ha comunque coperta facendo annunciare la partenza volontaria di Nagy per l’Ungheria. Fa poi di più e rinnega le proprie dichiarazioni della vigilia sostenendo: “Quest’uomo è diventato il fantoccio dei controrivoluzionari e degli horthysti” [126].
Il Consiglio di Budapest ed il rapimento di Nagy
Il rapimento di Nagy da parte dei Russi ed il rinnegamento della parola data per parte di Kadar condannavano senza appello la prospettiva dei conciliatori. Nelle parole di un portavoce del Consiglio in seguito al discorso di Kadar su Nagy, “Kadar, il quale aveva detto agli operai una settimana fa: “Riportate Nagy e sarò felice di cedergli il posto”, si è ora allineato al punto di vista sovietico affermando che “la questione Nagy è chiusa”. Lo stesso operaio constatava la falsità dell’opinione diffusa tra i conciliatori che introduceva una distinzione tra Kadar ed i Russi precisando: “Kadar ha ora un atteggiamento rigido ed utilizza argomenti fondati sulla presenza di 5mila carri armati”. Nonostante ciò il Consiglio di Budapest manteneva le sue rivendicazioni sul ritorno al potere di Nagy e sul ritiro dei Russi: “Non cederemo ed il governo lo sa. Il ritorno al potere di Imre Nagy è stato e resta la nostra rivendicazione centrale. Qualunque cosa accada, alla fine vinceremo” [127]. L’appello tuttavia si chiudeva con una prova della volontà di arrivare ad ogni costo ad una conciliazione, aggiungendo: “Nell’interesse della popolazione chiediamo ciononostante ai Consigli di continuare la produzione ed anche di intensificarla” [128].
Allora, mentre si poteva supporre che il tradimento di Kadar verso Nagy avrebbe irrigidito la posizione dei componenti del Consiglio di Budapest appena ingannati, si assiste invece a continui cedimenti. Il 20 novembre un portavoce del Consiglio lascia intendere che gli operai sono pronti a rinunciare al ritorno di Nagy se “questi affermasse personalmente che rifiuta di guidare un nuovo governo” [129]. Secondo il parere dei delegati che hanno discusso con Kadar, sarebbe al momento preferibile tralasciare la questione del ritorno al potere di Imre Nagy [130]: avvertono Kadar che “potrebbero scoppiare scioperi spontanei se agli operai ungheresi non fosse detta la verità su quello che succede ad Imre Nagy ” [131]. Ben presto, tuttavia, i burocrati distruggeranno tutte le illusioni sul loro conto: ottenuto un passo indietro passano all’attacco cercando di demolire i consigli. Spariscono così i conciliatori: davanti all’assenza di una conciliazione…
Il problema dell’esistenza dei consigli
Sam Russel, corrispondente del Daily Worker, organo del partito comunista britannico, è stato per conto del suo giornale a Csepel. Certamente sperava di trovare nelle conversazioni coi dirigenti di quel consiglio la prova che gli operai di Csepel iniziavano a sostenere il governo. Invece, suo malgrado, ha dovuto riportare esattamente il contrario. I dirigenti degli operai di Csepel, infatti, si sono opposti allo sciopero ma non per solidarietà con Kadar. Così Russell descrive la “confusione” che si sta producendo ed annuncia una lotta diretta tra Kadar ed i consigli: “Ho parlato col segretario del Consiglio operaio provvisorio, Bela Szenetzy, col vice presidente Pal Kupa e con un altro membro del consiglio, Jozsef Devenyi. Dalle conversazioni avute emerge chiaramente che c’è ancora molta confusione rispetto al ruolo del consiglio operaio, divenuto ormai un organismo permanente in virtù della nuova legge. È ancora viva l’idea che essi potrebbero combinare assieme la funzione di datori di lavoro e di sindacato assumendo una sorta di generica funzione politica” [132]. Da analisi come questa troviamo la conferma che i consigli, compreso quello di Csepel, vogliono giocare un ruolo politico, essere l’organo del potere operaio. Prestiamo attenzione al giornalista comunista britannico mentre spiega le ragioni avanzate dal Consiglio operaio di Budapest per giustificare la sua contrarietà allo sciopero: “Continuare lo sciopero potrebbe fare più male che bene agli operai. Era preferibile guadagnare un po’ di soldi per comprare di che mangiare piuttosto che essere costretti dalla fame a tornare al lavoro” [133].
I dirigenti di alcuni consigli, particolarmente quelli del Consiglio centrale di Budapest, sono convinti che lo sciopero sarebbe dannoso. Mantengono però la loro idea rispetto al ruolo dei consigli operai, il ruolo della classe operaia. E su quel punto non c’è alcuna conciliazione che sia proponibile. In assenza di un’organizzazione d’avanguardia che consenta di unificare esperienze e prese di posizione, c’è tuttavia bisogno di tempo perché un organismo politico come il Consiglio centrale raggiunga l’omogeneità politica traducendo quella della classe in azione; il clima creato dai combattimenti di strada, e poi dalla repressione, non favorisce per niente il prevalere della democrazia politica, condizione per una chiarificazione. Già il 14 novembre il presidente del Consiglio operaio centrale, Arpad Balasz, si era permesso di lanciare alla radio, in nome del Consiglio centrale, un appello a favore della ripresa del lavoro. La maggioranza del Consiglio operaio lo solleva allora dalle sue funzioni ritenendo che giochi, coscientemente o no, a favore di Kadar, e vieta al tempo stesso che i suoi membri facciano dichiarazioni su questioni non sottoposte precedentemente ad una votazione. Il nuovo presidente del Consiglio centrale è eletto tra i delegati di Csepel: si tratta di Jozsef Devenyi. Alcuni giorni dopo, tuttavia, in seguito ad atteggiamenti temporeggiatori, anche Devenyi dà le dimissioni dopo essere stato messo in minoranza e sotto accusa davanti al Consiglio centrale. A quel punto, il giovane fabbro di Belojannis, Sandor Racz, di 23 anni, sarà il presidente, affiancato dal suo compagno di fabbrica Bali e da Karsai come vicepresidenti. Questi tre uomini saranno fino alla fine i portavoce del Consiglio operaio centrale.
Tocca al vicepresidente, l’attrezzista fabbro Sandor Bali, il 25 novembre, esprimere davanti al governo, per convincerlo ad intavolare negoziati, una concezione del ruolo dei consigli operai che è, in tutta evidenza, il frutto di un compromesso occasionale:
“È la classe operaia, dice, che ha messo in piedi i consigli operai i quali, al momento, sono gli organismo economici e politici che hanno dietro di sé la classe operaia […] Sappiamo bene che i consigli operai non possono essere delle organizzazioni politiche. Sia chiaro che ci rendiamo perfettamente conto della necessità di avere un partito politico ed un sindacato. Ma, visto che ora non abbiamo la possibilità pratica di costruire tali organizzazioni, siamo obbligati a concentrare le nostre forze su un solo punto ed attendere il seguito degli avvenimenti. Non dobbiamo e non possiamo parlare di sindacati prima che gli operai ungheresi abbiamo formato dal basso i loro sindacati e gli sia stato ridato il diritto di sciopero” [134].
Tuttavia, i fatti spingono inesorabilmente il Consiglio operaio centrale a svolgere un ruolo politico. Nelle parole di uno dei suoi componenti, Ferenc Toke, Karsai fu portato a “dire ai dirigenti che noi avevamo una missione economica da realizzare, che non tenevamo per niente a svolgere un’attività politica, ma che la loro doppiezza ci obbligava a farlo” [135]. Così il 26 novembre il Consiglio centrale informa Kadar che, oltre alle sue rivendicazioni iniziali - ritorno di Nagy al potere, partenza dei Russi, fine delle deportazioni - porta avanti la volontà degli operai di organizzare una milizia operaia armata e di avere propri giornali [136].
I Consigli hanno ben compreso che il loro potere e la loro autorità non varranno nulla finché non disporranno di una propria forza armata: tale forza non può essere altro che il popolo in armi. Reclamano l’organizzazione di milizie operaie. Rifiutano il monopolio sulla stampa stabilito a beneficio della burocrazia che autorizza solo i suoi giornali di partito e sindacali. I Consigli vogliono i loroloro posizioni, dare le loro parole d’ordine, fare bilanci, discutere. Manifestano con chiarezza che hanno l’intenzione di opporsi allo “Stato dei gendarmi e dei burocrati” denunciato da Dery: gli si vogliono opporre, reclamano una propria forza armata ed una propria stampa. Kadar dichiara a L’Humanité che sono “gli elementi controrivoluzionari ad aver presentato richieste non realistiche” [137].
Dunque, Kadar, dopo aver riconosciuto i consigli, ha fatto sapere, una volta lanciato l’ordine di rientro al lavoro, che essi erano autorizzati a discutere i “problemi del lavoro”… [138]. Il Consiglio operaio centrale prepara, sotto la direzione di Sebestyen, la pubblicazione del suo giornale, Munkasujsag (Gazzetta operaia): è confiscato in stamperia assieme ad un resoconto di una discussione in cui Kadar aveva dichiarato: “Per me il vostro riconoscimento conta poco. 200.000 soldati sovietici sono dietro di me. In Ungheria comando io” [139]. Il Consiglio fa allora uscire un foglio ciclostilato: le autorità russe perquisiscono e confiscano il ciclostile [140]. In reazione il Consiglio centrale organizza una giornata di boicottaggio del giornale di partito Nepszabadsag: i lavoratori lo comprano e poi in strada lo strappano senza leggerlo. Ferenc Toke potrà scrivere: “Le persone camminavano con i fogli di giornale che arrivavano alle caviglie” [141]. Il Consiglio centrale decide la distribuzione di volantini talvolta dettati e ricopiati a mano per dare informazione della propria azione ed invita tutti i consiglia ad imitarlo [142]. I delegati del Consiglio tornano a vedere Kadar. “Sarà una serata decisiva, dichiara uno di loro alla stampa, se le trattative falliscono non c’è alcuna garanzia che riusciremo ad impedire scioperi spontanei tra gli operai” [143]. Chiederanno la modifica della legge sui consigli e l’autorizzazione ad istituire consigli non solo nelle fabbriche ma in tutti le imprese statali, dalle ferrovie alle poste ecc. dove essi non sono autorizzati.
Nepakarat, organo dei sindacati, è incaricato di rispondere alle tre rivendicazioni fondamentali dei consigli: valenza politica dei consigli operai, creazione di consigli regionali in ogni provincia e pubblicazione di un giornale centrale. A parere dell’organo dei sindacati si tratta di rivendicazioni “distruttive”: i consigli “non potrebbero assumere un qualsiasi ruolo politico ma unicamente economico”; il giornale centrale dei consigli non è assolutamente “necessario” e la creazione di consigli regionali “non corrisponderebbe ai compiti dei consigli operai”.[144].
La burocrazia è disposta ad accettare l’esistenza dei consigli a patto che essi siano docili collaboratori nell’amministrazione della fabbrica. La burocrazia intende conservare il monopolio della direzione dello Stato, della vita politica e della stampa. O i consigli si inchineranno ai suoi diktat o li distruggerà. Non c’è una via di mezzo che permetta una conciliazione. Per Kadar ed i burocrati russi è necessario che la classe operaia ed i suoi consigli rinuncino al potere. sintetizza quali sarebbero invece questi compiti: fare il proprio dovere sul terreno economico riorganizzando le fabbriche.
L’offensiva dei burocrati
Il 4 dicembre il governo scaglia la sua offensiva. Essa è diretta contro i comitati rivoluzionari. Fino a quel momento i soli ad essere sciolti sono stati quelli dell’esercito. Secondo un comunicato governativo i comitati “non tenevano in considerazione le disposizioni governative che avevano regolamentato la loro attività, delimitato il loro campo d’azione, fissato le loro attribuzioni” [145]. “L’esperienza mostra che i comitati non svolgevano alcuna attività di interesse pubblico ma al contrario, quando c’erano, la loro azione consisteva nell’ostacolare il lavoro delle autorità statali e la realizzazione di compiti utili all’interesse pubblico” [146]. I comitati rivoluzionari sono dunque sciolti da un decreto firmato da Ferenc Munnich, il quale al contempo indica l’esistenza e la dissoluzione di un “Comitato esecutivo centrale dei comitati rivoluzionari” [147]. Miklos Gimes, rifiutatosi di emigrare, è arrestato il 5 dicembre.
A questo punto, pensando che cederanno davanti alla minaccia ed all’intimidazione, il governo lancia la polizia contro i dirigenti dei consigli operai. Nella notte del 6 dicembre ne sono arrestati più di un centinaio. Il Consiglio centrale è “letteralmente sommerso di proteste contro gli arresti di membri di consigli operai” [148]. Il 7 il Consiglio centrale lancia un appello. Agli operai, ai quali denuncia il “fronte organizzato in tutto il paese contro i consigli operai”, dichiara: “Se questo atteggiamento continua, perderemo la sola possibilità di costruire una vita normale e restaurare l’ordine” [149]; avverte poi il governo: “se questo atteggiamento continua, la fiducia degli operai sarà perduta e chi ci provoca avrà definitivamente sollevato la classe operaia contro il governo” [150]. Scoppiano immediatamente scioperi spontanei. La metà dei lavoratori di Csepel entra in sciopero. Chi ha creduto alla conciliazione dichiara allora con asprezza: “Le nostre trattative col governo non sono sfociate nel risultato sperato. Pare che Janos Kadar non abbia il potere di sbarazzarsi di alcune persone del suo entourage” [151]. In seguito ad un’ultima e vana ricerca di Kadar, il consiglio, sulla base del resoconto della delegazione capeggiata da Sandor Racz, decreta 48 ore di sciopero generale. La delegazione deve denunciare “la campagna condotta contro il popolo e contro gli operai dal governo Kadar, appoggiato dall’URSS” e che “vuole ignorare tutta la popolazione ungherese ed i suoi rappresentanti” [152].
Il Consiglio di Budapest, allargato nell’occasione a delegati di consigli di provincia, si rivolge alla nazione. Ai lavoratori del mondo intero chiede “scioperi di solidarietà con la loro lotta per una vita senza paura e per la libertà individuale” [153].
Il governo Kadar contrattacca con l’imposizione della legge marziale e la messa al bando dei consigli operai, a partire da quello di Budapest. Il suo crimine: aver voluto “fare del Consiglio centrale degli operai l’organismo del potere centrale esecutivo” [154], “costruire un nuovo potere da opporre agli organi esecutivi dello Stato” [155]. La burocrazia dichiara guerra senza quartiere al potere dei consigli, al potere operaio. È lanciata una nuova prova di forza. Questa volta nella più totale chiarezza politica.
Sconfitta e vittoria
Lo sciopero generale dell’11 e 12 dicembre, sulla parola d’ordine del Consiglio centrale, ha confermato oltre ogni previsione l’indistruttibile volontà rivoluzionaria dei lavoratori ungheresi. Totale, malgrado il terrore poliziesco, lo sciopero esprime in forma spettacolare l’avvenuta rottura degli ultimi legami sapientemente intessuti dalle astuzie di Kadar, tra la burocrazia e gli elementi conciliatori della classe operaia. Lo sciopero non è tuttavia riuscito a spazzare via il terrore controrivoluzionario. Con esso si chiude la prima fase della rivoluzione ungherese: uno dopo l’altro spariscono, sotto i colpi della repressione, i consigli operai nati dalla Rivoluzione d’ottobre. La rivoluzione ungherese indietreggia.
Il Consiglio centrale e lo sciopero generale
Il governo Kadar aveva accusato il Consiglio centrale di voler “fare del Consiglio centrale degli operai un organismo di potere centrale esecutivo” [156]. In realtà, se tale era in effetti la volontà degli operai ungheresi a volte espressa dal loro Consiglio centrale, la sua posizione pubblica non ha quasi mai oltrepassato l’affermazione di essere il rappresentante degli operai per negoziare col governo, senza parlare di rovesciarlo e prenderne il posto. Analogamente, per un periodo in Russia i soviet non avevano reclamato il potere, essendo i bolscevichi i soli, con Lenin, ad avanzare la parola d’ordine “tutto il potere ai soviet”. Il Consiglio centrale non ha chiesto “tutto il potere ai consigli”.
Certo, bisogna capire che la gran maggioranza dei lavoratori ha a lungo conservato illusioni, sperando in un cambiamento della politica russa, contando sull’appoggio dell’ex “nagysta” Kadar al fine di riportare per mezzo di manovre governative quella vittoria parziale che la loro compattezza faceva apparire verosimile. Altri, senz’altro, hanno sperato di evitare nuovi combattimenti sanguinosi, desiderato di riprendere fiato, senza capire che Kadar, strumento della burocrazia russa, avrebbe utilizzato tale pausa solo per colpire meglio i lavoratori. È di tali illusioni e di tali sofferenze mandate giù che si è alimentato il pensiero dei “conciliatori”. La prolungata stasi delle masse ha portato ad uno sciopero che era, nello spirito dei suoi dirigenti, meno una nuova offensiva che una difesa disperata: una dimostrazione della propria volontà in cui però, sin dall’inizio, essi accettavano la sconfitta se il governo si rifiutava di cedere. In tali condizioni era inevitabile la sconfitta immediata: il governo Kadar non poteva cedere ma soltanto colpire ancora più duro. È ciò che ha fatto.
Il Consiglio centrale non fu per nulla unanime sulla opportunità dello sciopero. Secondo Radio-Budapest quattro dei suoi membri sarebbero andati a confidare a Kadar che a loro avviso la decisione di scioperare “non era corretta” [157]. Azione spontanea? Ne possiamo dubitare: tre giorni dopo la decisione … Balazs, già eliminato dalla presidenza il 14 novembre, avrebbe dato le sue dimissioni nel corso della riunione allargata ai delegati della provincia [158]. Ma se ci furono le dimissioni di Balazs, cosa comunque non provata, ciò non implica un’adesione al governo Kadar di cui né la stampa né la radio danno traccia. Al contrario il ferroviere Endre Mester denuncia i “controrivoluzionari” del Consiglio centrale [159] tre giorni dopo essere stato lui stesso denunciato da Kadar come il loro ispiratore [160]. Dichiarazione sospetta, nel caso sia autentica: queste “confessioni” tardive e questa “conversione” improvvisa non si possono spiegare che con l’intervento di una polizia capace di strappare confessioni e conversioni.
Il Consiglio centrale ha preso le sue misure per far fronte alla repressione: una radio clandestina parlerà a suo nome ed uno dei suoi componenti, Istvan Torok, è inviato all’estero per portare documenti ad Anna Kethly. Il giorno 8 dicembre Sandor Racz aveva concordato con un corrispondente italiano un’intervista da pubblicare nel caso fosse stato arrestato: “Ho la coscienza tranquilla perché sono stato l’infelice interprete della volontà dei lavoratori e di quelli che hanno lottato con l’ideale di una Ungheria libera, indipendente e neutrale e per uno Stato socialista… Tutto ciò ci è stato negato. Il governo sa di non avere il paese con lui e, consapevole che oggi l’unica forza organizzata che ha fatto veramente la rivoluzione è la classe operaia, vuole smantellare il fronte dei lavoratori. Posso però affermarlo: non si riuscirà mai a spezzare la volontà degli ungheresi che sono pronti a dare la vita” [161]. L’appello lanciato dalla radio clandestina è ancora più profondamente impregnato di pessimismo sull’esito immediato dei combattimenti: “Il governo ha mostrato che non accorda e non accorderà mai alcuna attenzione al nostro lavoro. Operai e contadini devono restare uniti. L’altro campo desidera la lotta aperta. Continueremo il combattimento malgrado la nostra posizione di debolezza… Noi, operai, non siamo controrivoluzionari. Abbiamo lottato per conquistare la libertà. Abbiamo creato dei consigli operai legali, responsabili di trattare col governo centrale. Siamo però stati considerati dei fuorilegge. Tutti devono sapere da quale parte si trova la ragione e saprà allora come siamo stati ingannati” [162].
Lo sciopero generale
La consegna del Consiglio centrale era di iniziare lo sciopero alla mezzanotte dell’11 dicembre. Nella giornata del 10 si tengono assemblee in tutte le fabbriche di Budapest e della provincia: ancora una volta gli operai discutono democraticamente l’azione che intraprenderanno [163]. Il governo moltiplica gli arresti, le retate e le perquisizioni. Dalle ore 18 del 10, ancor prima dell’inizio dello sciopero, viene decretata la legge marziale.
Nonostante ciò, l’11 ed il 12 lo sciopero è generale in tutto il paese. Radio-Budapest proclama che il Consiglio di Csepel si è pronunciato contro lo sciopero ma nel complesso industriale lo sciopero è generale, come conferma il comunista Sam Russel [164]. L’Humanité cita a ripetizione il presidente del Consiglio operaio di Mavag, contrario allo sciopero, ma lo sciopero è totale anche a Mavag… [165]. Nel primo pomeriggio sono arrestati Sandor Racz, presidente del Consiglio centrale, ed il suo compagno Sandor Bali, come lui membro del consiglio e operaio nella fabbrica di apparecchi elettrici Belojannis. La prefettura della polizia di Kadar annuncia: “Queste due persone hanno giocato un ruolo di primo piano nella trasformazione del Consiglio centrale di Budapest in uno strumento della controrivoluzione… Hanno comandato un’organizzazione illegale, promosso scioperi provocatori; con le minacce hanno cercato di intimidire gli operai ed i tecnici onesti. Recentemente, hanno organizzato una conferenza nazionale con la partecipazione di elementi controrivoluzionari privi di alcun rapporto coi consigli operai. In questa occasione hanno lanciato un appello per rovesciare il governo e, con questa finalità, hanno imposto un provocatorio sciopero generale di 48 ore…”. Lo stesso comunicato accusa Racz e Bali di aver “mantenuto relazioni strette con Radio Free Europe e con corrispondenti della stampa occidentale” [166]. Lo stesso giorno viene sciolto il Comitato rivoluzionario degli intellettuali. La polizia perquisisce la sua sede e ne chiude i locali [167]. Queste misure poliziesche non impressionano però i lavoratori e lo sciopero sarà così generale entrambi i giorni. Addirittura, il 13 ed il 14 lo sciopero continuerà sia alla Belojannis che a Csepel per protestare, in particolare, contro l’arresto di Racz e Bali [168].
La classe operaia resiste ancora
È difficile descrivere con precisione la situazione nelle fabbriche ungheresi all’indomani della repressione scatenata contro i dirigenti dei consigli operai. La maggior parte delle fabbriche sono ferme o lavorano al minimo. Il governo Kadar attribuisce la responsabilità alla mancanza di carbone. Nella prima metà di dicembre, alternando minacce e promesse come abitudine, il governo ha portato avanti una campagna accanita per far riprendere il lavoro nelle miniere. I minatori hanno risposto il 16 attraverso la radio clandestina del consiglio operaio. I minatori ungheresi rifiutano di trattare con Kadar. Accetterebbero di trattare con un eventuale successore se polizia ed esercito russo si ritirassero del tutto e se tutti gli ungheresi arrestati dopo il 4 novembre fossero liberati… In più chiedono l’aumento generalizzato dei salari e la proibizione del lavoro forzato. Con senso dello humour, i minatori anticipano che se la polizia e l’esercito russo si ritirassero, loro riprenderebbero il lavoro assicurando il 25% della produzione normale. Se i prigionieri politici fossero liberati arriverebbero al 33%. Comunque, non riprenderebbero il lavoro al 100% prima di aver visto soddisfatte tutte le proprie rivendicazioni. L’appello finisce con l’affermazione di una indomita volontà rivoluzionaria: “Se il governo non accetta queste condizioni, nessuno lavorerà nelle miniere, anche se noi minatori dovessimo ridurci a fare l’elemosina oppure ad emigrare all’estero”.
Il 10 gennaio hanno luogo manifestazioni operaie a Csepel, durante le quali un metalmeccanico è ucciso dalla polizia di Kadar. Quello stesso giorno si dimettono i Consigli di Csepel e di Belojannis, il giornale di Kadar Nepszabadsag fa un appello alla lotta “contro gli elementi ostili che si mascherano da marxisti e lanciano parole d’ordine su democratizzazione e destalinizzazione”.
Il governo moltiplica le concessioni ai contadini ricchi: è il “piccolo proprietario” Istvan Dobi che dirige il “presidium” della Repubblica ungherese. Kadar tratta con Bela Kovacs, Istvan Bibo e Zoltan Tildy, dirigenti del partito dei piccoli proprietari, e con Ferenc Erdei, nazional-contadino. In seguito verranno altre concessioni la cui linea è già tracciata: concessioni agli elementi filocapitalisti ed alla borghesia internazionale in cambio di “prestiti”. Non ci saranno però concessioni alla classe operaia ungherese finché essa si organizzerà nei consigli: tra i soviet e la burocrazia l’antagonismo è inconciliabile.
La direzione rivoluzionaria
Nella lotta che continua si preparano le condizioni per la vittoria di domani. I lavoratori ungheresi si sono lanciati nella rivoluzione senza direzione rivoluzionaria. Gli intellettuali e i quadri del PC che hanno animato le prime manifestazioni volevano una riforma del partito, un cambiamento nella sua direzione. La dimostrazione che la presenza di Nagy alla testa del governo non cambiava nulla finché esisteva lo Stato dei gendarmi e dei burocrati è stata fatta nei primi giorni della rivoluzione. La trappola di Gero si è ritorta contro di lui ed i suoi padroni perché, spontaneamente, i lavoratori hanno cominciato a costruire il loro Stato, quello dei consigli operai. Per alcuni giorni la loro forza è stata irresistibile: si trattava, come dice il comunista polacco Bielicki, della sostituzione del caos con “l’ordine rivoluzionario”. Ma non era sufficiente. La volontà, espressasi ovunque di costruire un governo dei consigli - a Miskolc, Gyor, Sopron, nel Consiglio di Borsod o nel Comitato Transdanubiano - avrebbe dovuto concretizzarsi immediatamente nella costituzione di un Parlamento operaio, di un Consiglio operaio nazionale. Per realizzare ciò era necessaria una direzione rivoluzionaria, con prospettive giuste, provvista di un’analisi sulla potenza dell’avversario e sull’obiettivo da raggiungere, il potere operaio, e che avrebbe dovuto essere in grado di organizzare il potere nazionale dei consigli e dei comitati.
È grottesco, come qualcuno ha fatto, e pensiamo di averlo mostrato, affermare con presunzione che Nagy e i suoi erano socialdemocratici e favorevoli alla restaurazione del capitalismo. È fuor di dubbio che si sono uniti alla rivoluzione ed hanno, senza ambiguità, rotto con la burocrazia ed il suo apparato. Sarebbe però erroneo pensare che abbiano svolto il ruolo di direzione: scavalcati dagli eventi, in ritardo di molti giorni sulle masse - nel fuoco di una rivoluzione in cui le ore sono giorni e i giorni anni - sono stati al traino degli avvenimenti, schiacciati dal peso di anni passati a pensare ed agire come uomini d’apparato.
È significativo che il nuovo partito comunista che hanno voluto fondare non abbia raccolto l’avanguardia dei combattenti rivoluzionari dell’Ottobre. I Miklos Gimes, Fekete Sandor e gli altri oppositori comunisti che puntano a fondare nella clandestinità la “Lega dei socialisti ungheresi” pubblicheranno 9 numeri clandestini di “23 Ottobre” prima di essere colpiti dalla repressione. Anche in questo caso la burocrazia è riuscita a colpire con rapidità: ha utilizzato la sua organizzazione, la sua esperienza e la sua tecnica per reprimere ed al tempo stesso disorientare le masse operaie prive di una direzione. I lavoratori di Dunapentele rivolgevano un appello ai lavoratori russi per fraternizzare, quelli di Miskolc gridavano ai lavoratori cecoslovacchi e rumeni che si stavano battendo anche per loro. Invece Imre Nagy faceva appello all’aiuto dell’ONU… Ed infine, la manovra per eccellenza della burocrazia, la sua ultima carta, cioè “l’oppositore” Kadar, il quale ha potuto provvisoriamente giocare un ruolo che né i carri né i cannoni avrebbero potuto svolgere. Anche in questo frangente nessuna direzione rivoluzionaria ha potuto impedire che i lavoratori ungheresi cadessero in questo tranello. Erano i più forti e si sono battuti alla grande. Eppure sono stati sconfitti.
Un’ “opposizione” inconseguente
Una delle ragioni della sconfitta è da cercare nel carattere dell’opposizione interna al partito ungherese. Come abbiamo visto Imre Nagy si collegava, all’interno del movimento comunista, alla tradizione della tendenza “di destra” incarnata negli anni Trenta da Bukharin. Un compagno ungherese scrive al riguardo:
“Le tradizioni ‘bukhariniane’ si sono organizzate attorno a tre principi:
NEP: mantenimento della piccola proprietà per un periodo prolungato di transizione verso il socialismo;
Democrazia popolare: periodo di transizione in cui si conservano le forme politiche della democrazia borghese (parlamentarismo, sistema multipartitico);
Fronte popolare: sul piano della politica interna ed internazionale, alleanza coi settori piccolo borghesi ed i loro rappresentanti politici.”
Aggiunge inoltre che il limite dell’ala nagysta “bukhariniana” era che essa “non possedeva l’esperienza trotskista della critica allo stalinismo in quanto sistema burocratico”:
“Secondo l’ala nagysta, lo stalinismo era una forma settaria di estremismo, cioè una marcia in avanti troppo veloce su una strada però necessaria, lungo la quale però si erano abbandonate le forme necessarie della transizione. Essa era così incapace di criticare lo stalinismo in quanto sistema conseguente alla degenerazione del socialismo e la sua posizione non era “più socialista” ma solamente “più moderata””.
Al momento dello scontro frontale di novembre, Nagy ha senz’altro avuto il merito di abbandonare la via del temporeggiamento e del compromesso con la burocrazia stalinista, l’adattamento che aveva seguito sino ad allora: tenendo testa ai suoi boia ed ai suoi giudici Nagy ha scelto il suo campo di classe, quello dei lavoratori ungheresi caduti sotto i carri e l’AVH, riportata per volontà del KGB e dei capi del Cremlino. Non è meno vero che fino a quel momento si era astenuto dal prendere qualsiasi iniziativa per organizzare gli oppositori in maniera indipendente dall’apparato, in altre parole di rompere in modo decisivo con la burocrazia controrivoluzionaria.
Sin dal 1955 alcuni coraggiosi militanti, ad esempio Miklos Gimes, ex giornalista di Szabad Nep, o quel giovane storico che in mezzo ad una riunione di partito chiedeva l’espulsione di Rakosi, aprivano una via che non fu seguita. Gli elementi più coscienti dell’opposizione comunista - e Miklos Gimes era uno di loro - avevano iniziato ad analizzare la società russa - talvolta appoggiandosi alla lettura dell’unico esemplare, in francese, della ‘Rivoluzione tradita’ portato da Parigi da Gimes - ed avevano scoperto l’esistenza della casta burocratica, rotto nella loro testa con la “legalità” del partito e ipotizzato la costruzione di un’organizzazione clandestina contro l’apparato. Tuttavia non si dedicarono al raggiungimento di questo obiettivo, schiacciati innanzitutto dall’ampiezza del compito storico ed anche dal ritmo rapidissimo ed allucinante dello sviluppo rivoluzionario. Alcuni mesi dopo il soffocamento delle ultime resistenze conclusioni analoghe erano formulate da un altro comunista oppositore, Sandor Fekete, in un pamphlet a firma Hungaricus arrivato in Occidente.
Eppure nel 1956 il programma espresso da milioni di lavoratori manuali ed intellettuali di Ungheria nelle risoluzioni dei loro consigli e comitati riprendeva quasi alla lettera, paragrafo per paragrafo, il programma della rivoluzione politica tracciato vent’anni prima nella ‘Rivoluzione tradita’ - e precisato nel ‘Programma di transizione’ - all’ordine del giorno in URSS ed in seguito anche nei paesi sottomessi alla burocrazia stalinista. Mancava a questo programma la sua punta più avanzata, la necessità della costruzione di un partito rivoluzionario collegato alla IV Internazionale. La responsabilità principale non sta sulle spalle dei rivoluzionari dell’opposizione comunista ungherese, ma su quelle degli uomini che all’epoca erano alla testa della IV Internazionale e tentavano con Pablo e Mandel di difendere e riabilitare la prospettiva di una “rigenerazione dell’apparato”, della “mutazione” dei partiti stalinisti … e celebravano la ‘rivoluzione politica’ diretta da Gomulka!
Un apparato controrivoluzionario conseguente
La burocrazia, invece, non ha commesso errori. Anche se è stata costretta a gridare ai quattro venti che era dovuta intervenire per reprimere l’assalto della “controrivoluzione horthysta”, anche se ha denunciato a gran voce gli uomini dei “partiti borghesi” rientrati a suo dire sotto l’ala protettrice di Nagy, essa non ha impiccato nessun horthysta e nessun dirigente dei vecchi partiti schieratisi col governo Nagy. Essa ha invece incarcerato tanti comunisti quanti Horthy. Ma soprattutto, la burocrazia stalinista ha ucciso innanzitutto i comunisti, non soltanto a caldo, nel corso della repressione e della riconquista delle città, ma anche più tardi a freddo e segretamente. La burocrazia ha impiccato lo stesso Imre Nagy, Pal Maleter, Miklos Gimes e Jozsef Szilagyi, condannato a pene pesantissime Sandor Racz, Bali, Karsai ed altri dirigenti del Consiglio operaio centrale, Gabor Tanczos, segretario del Circolo Petofi, Janos Varga, membro del Comitato rivoluzionario degli studenti, militanti della Gioventù Comunista come Balint Papp, difensore di Dunapentele, o Laszlo Bede di Debrecen… Migliaia di militanti, combattenti della rivoluzione politica del 1956, sono stati condannati ad anni di prigione, hanno perso il lavoro, sono stati costretti ad una sorveglianza estenuante, isolati dai loro compagni, tenuti lontani dalle giovani generazioni. Colpendo questi uomini, strappando dalla memoria collettiva dei lavoratori ungheresi persino il ricordo della rivoluzione del 1956, la burocrazia ha mostrato alla luce del giorno la sua natura e la sua coscienza controrivoluzionaria, il suo carattere di casta irriducibilmente ostile alla classe operaia.
Il futuro
In questa sconfitta si trovano, nonostante tutto, i germi delle prossime vittorie. La direzione politica rivoluzionaria che è mancata ai lavoratori ungheresi per coordinare la loro azione e renderla inarrestabile, per superare i tranelli della burocrazia controrivoluzionaria del Cremino, si forgia oggi nella resistenza dei lavoratori, nelle fabbriche come nei campi di concentramento e nelle prigioni ed anche nella clandestinità. La futura direzione sarà rinforzata dagli insegnamenti della lotta in questi mesi decisivi. La vittoria della rivoluzione russa del 1917 è il frutto della sconfitta del 1905 e della costruzione del partito bolscevico di Lenin. Combattenti comunisti di diverse generazioni preparano oggi il loro Ottobre vittorioso in Ungheria come in Polonia, a Praga come a Mosca.
Dicembre 1956
Pubblicato originariamente sotto lo pseudonimo François Manuel. Il testo in italiano è tradotto da una successiva versione del lavoro di Pierre Broué, edita nel 1976 nella serie Documents de l’OCI. Rispetto alla versione originale manca un capitolo sulla relazione tra i fatti d’Ungheria e la situazione politica francese ed internazionale dell’epoca.
Note
[1] Intervista citata da Bondy. Demain, 8 novembre 1956
[2] New York Times, 2 luglio 1956
[3] New York Times, 1 luglio 1956
[4] Irodalmi Ujzag, 18 agosto 1956
[5] Ghepeu o GPU: polizia politica russa, diventata poi NKVD e poi KGB
[6] Irodalmi Ujzag, 30 giugno 1956
[7] New York Times, 22 ottobre 1956
[8] Ibidem, 23 ottobre 1956
[9] New York Times, 22 ottobre 1956
[10] Szabad Nep, 23 ottobre 1956
[11] Sefton Delmer, in Daily Express, 24 ottobre 1956
[12] Sherman, The Observer, 11 novembre 1956
[13] Notizia della United Press, 24 ottobre 1956
[14] AVH (o AVO): polizia politica ungherese. Gli “Avos” sono i suoi membri
[15] The Observer, 11 novembre 1956
[16] Anthony Rhodes, Daily Telegraph, 24 novembre 1956
[17] Archivi privati.
[18] Daily Telegraph, 29 ottobre 1956
[19] United Press, 24 ottobre 1956
[20] Citato dal Demain, 1 novembre 1956
[21] The Observer, 1 novembre.
[22] Ibidem
[23] Ibidem
[24] New York Times, 27 ottobre.
[25] Radio-Kossuth e Petofi, 25 ottobre, ore 15.18: “I compagni Janos Kadar e Imre Nagy al microfono.”
[26] Ibidem
[27] United Press, 25 ottobre 1956
[28] The Observer, 25 novembre 1956
[29] Coutts, su The Daily Worker, 26 novembre 1956
[30] New York Times, 28 ottobre 1956
[31] The Times, 27 ottobre 1956
[32] New York Herald Tribune, 27 ottobre 1956
[33] United Press, 26 ottobre 1956
[34] Ibidem
[35] Times, 27 ottobre 1956
[36] Le Monde, 29 ottobre 1956
[37] Ibidem, 30 ottobre 1956
[38] Franc Tireur, 29 ottobre 1956
[39] Il Partito nazionale contadino si è formato nel 1939 sotto la direzione di scrittori “populisti”; raggruppava braccianti, contadini poveri, intellettuali, maestri di paese. Si dichiarò fin dalla costituzione a favore di una riforma agraria. Partecipò al governo provvisorio del dicembre ’44, a fianco del PC, del PSP e del partito dei piccoli proprietari; prese l’iniziativa nella direzione di una radicale riforma agraria. Era parte del governo di coalizione del 1945-1948 e venne sciolto dopo la “svolta” del 1948. Rinasce il 31 ottobre 1956
[40] New York Times, 29 ottobre 1956
[41] Ibidem
[42] Le Monde, 30 ottobre 1956
[43] Le Franc-Tireur, 30 ottobre 1956
[44] Demain, 1 novembre 1956
[45] New York Times, 2 novembre 1956
[46] Demani, 1 novembre 1956
[47] New York Times, 31 ottobre 1956
[48] Franc-Tireur, 30 ottobre 1956
[49] Daily Mail, 26 ottobre 1956
[50] Notizia Reuter, 27 ottobre 1956
[51] Daily Telegraph, racconto di Rhodes, 24 novembre 1956
[52] Gordey, su France-Soir, 12 novembre 1956
[53] Jpurnal du Dimanche, 27 ottobre 1956
[54] Times, 29 ottobre 1956
[55] Ibidem
[56] Le Monde, 30 ottobre 1956
[57] Ibidem
[58] Comunicato a Radio-Kossuth, 30 ottobre 1956
[59] Radio-Kossuth, 31 ottobre, ore 20.01
[60] Le Monde, 1 novembre 1956
[61] New York Times, 31 ottobre 1956
[62] France-Oservateur, 1° novembre 1956
[63] New York Times, 30 ottobre 1956
[64] Ibidem
[65] Le Monde, 28 ottobre 1956
[66] United Press, 27 ottobre 1956
[67] Le Monde, 14 novembre 1956
[68] Citato da Pologne-Hongrie 1956, EDI, pp. 196-197
[69] The Daily Worker, 1° dicembre 1956
[70] New York Times, 4 novembre 1956
[71] France-Observateur, F. Fejto, 8 novembre 1956
[72] L’Humanité, 17 novembre 1956
[73] Tribune, 23 novembre 1956
[74] Le Peuple, 14 novembre 1956 Anna Kethly su Franc-Tireur, 30 novembre 1956
[75] Anna Kethly su Franc-Tireur, 30 novembre 1956
[76] Tribune, 30 novembre 1956
[77] L’Humanité, 16 novembre 1956
[78] Anna Kethly su Franc Tireur, 30 novembre 1956
[79] Le Monde, 5 dicembre 1956
[80] Ibidem
[81] L’Humanité, 16 novembre 1956
[82] The Daily Worker, 16 novembre 1956
[83] Demain, 29 novembre 1956
[84] L’Humanité, 5 novembre 1956
[85] Nepszava (Voce del popolo), organo centrale del partito socialdemocratico ungherese dalla fine del XIX secolo, diventò l’organo centrale dei sindacati dopo la ‘fusione’ tra questo partito ed il PC nel giugno 1948. Ridiventato organo del partito socialdemocratico riorganizzatosi durante la rivoluzione, oggi è nuovamente l’organo dei sindacati
[86] Tribune, 23 novembre 1956
[87] Ibidem
[88] Ibidem
[89] Ibidem
[90] Ibidem
[91] Ibidem
[92] Le Parisien libéré, 5 novembre 1956
[93] Michel Gordey, France-Soir, 12 novembre 1956
[94] Ibidem, 16 novembre.
[95] New York Times, 8 novembre 1956
[96] Daily Telegraph, 10 novembre 1956
[97] New York Times, 25 novembre 1956
[98] Tibor Meray, nel suo racconto “Imre Nagy durante la rivoluzione” (in Imre Nagy, un communisme qui n’oublie pas l’homme, Plon, Parigi, p. 249), riferisce in questi termini la conversazione tenuta tra i ministri ungheresi venuti a protestare contro l’avanzata delle colonne motorizzate che occupavano ormai punti strategici: “Intervenendo uno dopo l’altro, i membri del governo appoggiano “il vecchio”. Il più virulento è il suo successore, Janos Kadar. Poco importa quello che sarà di lui, dice prima di iniziare a gridare, perché se si renderà necessario egli è disposto, come ungherese, a combattere. “Se i vostri carri, grida Kadar all’ambasciatore sovietico, entrano a Budapest scenderò in strada per battermi contro di voi, anche a mani nude.”
[99] Franc-Tireur, 29 novembre 1956
[100] The Daily Worker, 5 novembre 1956
[101] Franc-Tireur, 5 novembre 1956
[102] Ibidem, 12 novembre 1956
[103] The Daily Worker, 12 novembre 1956
[104] France-Soir, 15 novembre 1956
[105] L’Humanité, 10 dicembre 1956
[106] Franc-Tireur, 16 novembre 1956
[107] Ibidem
[108] Ibidem
[109] Riferimento allo stabilimento Renault di Billancourt, storico bastione della classe operaia francese [NdT]. Per importanza nella storia del movimento operaio si potrebbe paragonare allo stabilimento Fiat di Mirafiori
[110] Daily Telegraph, 11 novembre 1956
[111] Tribune de Genève, 16 novembre 1956
[112] Ibidem
[113] New York Times, Mc Cormac, 17 novembre 1956
[114] Ibidem, 19 novembre 1956
[115] Franc-Tireur, 20 novembre 1956
[116] L’Humanité, 21 novembre 1956
[117] Tribune de Genève, 22 novembre 1956
[118] Franc-Tireur, 22 novembre 1956
[119] Ibidem, 23 novembre 1956
[120] Le Figaro, 23 novembre 1956
[121] Franc-Tireur, 24 novembre 1956
[122] Ibidem
[123] L’Humanité, 23 novembre 1956
[124] New York Times, 25 novembre 1956
[125] L’Humanité, 27 novembre 1956
[126] L’Humanité, 27 novembre 1956
[127] Franc-Tireur, 28 novembre 1956
[128] Le Monde, 29 novembre 1956
[129] France-Soir, 1 dicembre 1956
[130] New York Times, 1 dicembre 1956
[131] Combat, 1 dicembre 1956
[132] The Daily Worker, 28 novembre 1956
[133] Ibidem, 27 novembre 1956
[134] Pologne-Hongrie, op. cit., p. 286
[135] Ibidem, p. 260.
[136] Le Monde, 28 novembre 1956
[137] L’Humanité, 28 novembre 1956
[138] The Daily Worker, 24 novembre 1956
[139] Pologne-Hongrie 1956, op. cit., pp. 261-262
[140] Ibidem, p. 262.
[141] Ibidem
[142] Le Figaro, 1 dicembre 1956
[143] Combat, 1 dicembre 1956
[144] Le Figaro, 1 dicembre 1956
[145] AFP, 4 dicembre 1956
[146] New York Times, 5 dicembre 1956
[147] Ibidem
[148] Tribune de Genève, 8 dicembre 1956
[149] Daily Telegraph, 8 dicembre 1956
[150] Le Figaro, 8 dicembre 1956
[151] Le Monde, 8 dicembre 1956
[152] Daily Telegraph, 10 dicembre 1956
[153] Daily Mail, 10 dicembre 1956
[154] L’Humanité, 10 dicembre 1956
[155] Le Monde, 11 dicembre 1956
[156] L’Humanité, 10 dicembre 1956
[157] Tribune de Genève, 12 dicembre 1956
[158] The Daily Worker, 12 dicembre 1956
[159] Ibidem
[160] L’Humanité, 10 dicembre 1956
[161] Il Giorno, 14 dicembre 1956
[162] Tribune de Genève, 13 dicembre 1956
[163] New York Times, 11 dicembre 1956
[164] The Daily Worker, 12 dicembre 1956
[165] Ibidem
[166] Tribune de Genève, 13 dicembre 1956
[167] France-Soir, 15 dicembre 1956
[168] Daily Telegraph, 14 dicembre 1956
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