|
Pietro Benetazzo
Praga non muore |
Faceva un caldo torrido a Praga quel 20 agosto di tanti anni fa: l'afa dilatava i colori sempre soffusi e discreti, straniva le armonie silenziose di una città che sembra voler vivere solo nella nostalgia. Un imponente massa di turisti, nel loro chiasso trasandato, aggiungeva una nota stridula alla riservata compostezza di sempre, ma in fondo era l'inevitabile contorno, quasi un omaggio un po sguaiato al coraggio di un popolo e di una città che recuperavano il loro orgoglio e la loro identità. Le emozioni di tanti mesi avevano lasciato il posto ad una spossatezza tranquilla ed un po' trionfante: molti avevano realizzato il sogno di un viaggio in Occidente, i rimasti si aggiravano tra i turisti ostentando orgoglio ed un insolito riserbo, in un distacco curioso per gente così incline al lamento e sempre pronta a sentirsi vittima della storia.
Ma allora, in quel lontano agosto, Praga viveva finalmente da protagonista, quasi a riscattare la miriade di frustrazioni e di sconfitte che punteggiano la sua storia e tormentano il carattere della sua gente. Persino lo speaking corner, sulla via Na Prikopi era semideserto, in mano a pochi esibizionisti ed a qualche provocatore. Qui, per mesi, i perseguitati da una ideologia paralizzante avevano raccontato le loro esperienze, le loro sofferenze o più semplicemente le loro umiliazioni quotidiane: c'erano comunisti, socialisti, cattolici, antifascisti della guerra di Spagna (tutta gente passata per le prigioni del paese), ma anche cittadini stravolti nei loro rapporti più immediati dal gelo di una lunga dittatura. Ho sentito un giorno un signore elegante e nervoso rompere un silenzio di decenni per scusarsi con i vicini, chiarire uno sgarbo, un lungo sospetto che aveva irrigidito convivenza e rapporti umani. Un tratto freudiano forse inevitabile in quel dialogo improvviso ed appassionato con cui la gente ritrovava se stessa, la sua memoria storica e la sua identità culturale ma, con esse, anche una perduta dignità personale.
C'era in realtà poco spazio per il pessimismo e lo scetticismo di sempre in quella Praga che usciva di prepotenza dal lungo e freddo tunnel del conformismo. Quel giorno fra i miei amici (io ero appena arrivato da Mosca) l'ipotesi di un intervento militare sovietico suscitava qualche preoccupazione, che si stemperava però subito nell incredulità, per diventare battuta di spirito, ilarità.
La violenza della storia dà oggi a questa fiducia nella legittimità del socialismo dal volto umano i tratti dell ingenuità, ma fu proprio essa, in realtà, che diede grandezza alla primavera, ne fece il tentativo più coerente di riforma del socialismo, condannò al fallimento politico l intervento sovietico. Quell immenso ponte aereo che, nelle prime ore della notte, riversò sul paese una massa incredibile di uomini (500 mila soldati) e mezzi fu accolta prima con attonita incredulità, quindi come uno shock, una grande ferita collettiva. Nelle strade, subito piene di gente, molti ancora in pigiama o in camicia da notte, si piangeva, si gridava di rabbia, tutti urlavano il paragone con l'occupazione nazista del '38.
Quei momenti di intensa disperazione furono in realtà l unico sbandamento emotivo della popolazione cecoslovacca: già verso le quattro di mattina la radio trasmetteva la risoluzione che il Presidium del CC era riuscito a varare: una dura condanna dell occupazione, l'immediata convocazione degli organi di Stato e di partito.
Bastò: il paese si ricompose, si strinse attorno a quelle istituzioni, spesso invise, che nessuno aveva mai eletto, ma che ora venivano investite di una nuova legittimità dalla difesa del processo di democratizzazione. E quelle istituzioni uscirono improvvisamente da venti anni di paralisi per mobilitarsi in modo autonomo e perfettamente sincronizzato. Il governo si riunì in seduta permanente, il CC indiceva il congresso straordinario del partito, dal ministero degli Esteri partivano note formali di protesta contro i cinque paesi occupanti, già nel pomeriggio il Parlamento aveva raggiunto il numero legale.
La parola d'ordine era evitare la paralisi, presidiare le istituzioni, contrapporre la legalità di un paese unito e funzionante alla sopraffazione dell intervento militare. In un'atmosfera davvero surreale, fra carri armati e mitra spianati, nel rombo assordante degli aerei, prese il via una finzione di normalità che impedì agli occupanti di proclamare almeno lo stato di emergenza: si fecero partire i treni, comparvero i primi autobus, riaprirono i negozi, la gente riempì le fabbriche e gli uffici.
Ed alle dodici del giorno dopo i sindacati potevano proclamare il primo sciopero generale nella storia dei paesi socialisti: un'ora di silenzio rotto dal suono dell'inno nazionale, dai clacson delle macchine e dalle sirene delle fabbriche.
Fu questa reazione compatta e senza smagliature della società civile e politica cecoslovacca a smascherare l'ipocrisia di quel governo rivoluzionario di operai e contadini (la forma alla ungherese) in nome del quale un maggiore sovietico aveva arrestato all'alba Dubcek, il presidente del Parlamento Smrkovsky, il premier Cernik, il presidente del Fronte popolare Kriegel.
A distanza di vent'anni i nomi dei membri di quel governo che non si riuscì mai a installare e le firme di coloro che chiesero quell'aiuto fraterno sono rimasti un mistero, un segreto ben custodito, quasi avvolto nell imbarazzo. Il taccuino dei ricordi è pieno delle testimonianze di una società decisa e unita nel respingere le occupazioni, e quindi dell'incertezza, del senso di impotenza di un intervento militare rimasto sempre monco, un atto di violenza incapace di trovare un minimo di legittimazione formale.
Ricordo i pesanti carri T-34 che, nelle eleganti stradine di Praga, stringevano d assedio le sedi delle istituzioni cecoslovacche, dove ministri, parlamentari e funzionari vissero accampati per giorni, continuando imperterriti a legiferare, emettere decreti, varare proclami e risoluzioni (tutti contro l'occupazione), senza che i soldati sovietici osassero entrare a imporre la loro legge.
Ricordo l'affanno con cui essi ogni notte cercavano di ripulire i muri delle città che, di giorno, si riempivano di slogan, vignette satiriche, ma anche dei testi delle risoluzioni che venivano dal governo e dalle fabbriche e di lunghi elenchi di persone sospette, dei numeri delle targhe delle macchine delle frange più dogmatiche della polizia segreta.
Lenin svegliati... Breznev è impazzito, ripeteva ogni giorno uno di quei graffiti.
Poi su disposizione del governo sparirono improvvisamente tutti i cartelli segnaletici, furono rimossi i nomi di tutte le strade e di tutte le piazze e l 'intero paese divenne una specie di labirinto cieco che rendeva ancora più impacciato e goffo quello sproporzionato spiegamento militare.
Sul taccuino dei ricordi c'è anche il XIV Congresso, il più straordinario nella storia del movimento comunista: nella grande fabbrica Ckd di Praga già vanto dell ortodossia, riuscirono ad arrivare, il giorno 22, ben 1192 dei 1543 delegati già eletti: protetti dalla milizia operaia discussero due giorni, condannarono l'occupazione, rielessero Dubcek senza che i sovietici riuscissero ad individuarli. Dibattito e interventi furono trasmessi da radio e televisione, pubblicati da tutta la stampa. Non ci fu mai infatti un black out dell'informazione e nessun giornale scomparve dalla circolazione: un'infinita rete di tipografie e di studi radiofonici clandestini rendeva inutili le intercettazioni dei sovietici. Non appena veniva occupata una redazione, il lavoro continuava in una sede di riserva.
L'organo del PC, Rude Pravo, nella cui tipografia mi rifugiai una di quelle notti tirava e distribuiva giornalmente 600 mila copie che attraversavano tutto il paese. Ma nella memoria c è anche Volodia, un ragazzino gentile e sorridente: era il corrispondente da Praga delle Izvestia, ma quando andai a trovarlo un paio di giorni dopo l'occupazione sedeva cupo e silenzioso su un grande divano, il corpo ingrassato improvvisamente a dismisura. Si era rifiutato di scrivere ed ora, nella stanza accanto, qualcuno stava preparandogli le valigie.
Poi quando gli arrestati tornarono con l'accordo-diktat, e Smrkovsky, piangendo, si rivolse alla popolazione, un senso di paralisi scese su tutta quella frenetica attività. Poi di rabbia e di ribellione: si parlava di tradimento, dalle fabbriche giungevano centinaia di risoluzioni di protesta. Ma la radio non le trasmetteva più: la primavera prendeva la via della clandestinità, delle fabbriche e dei consigli operai in una strenua e drammatica difesa che sarebbe durata ancora molti mesi.
grazie a: Repubblica, 20.08.1988 |