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Jiri Pelikan
Il mio lungo viaggio attraverso il comunismo |
Quello che segue è il testo dell'intervento pronunciato da Jiri Pelikan l'11 giugno 1998, in occasione di un convegno organizzato a Roma dal mensile Reset e dall'Accademia d'Ungheria per discutere sui vari tentativi di riforma del "socialismo reale" compiuti nell'Est europeo. Esso contiene interessanti riflessioni dell’autore sulla sua esperienza personale. Pelikan divenne un militante comunista negli anni '30 e fu poi uno dei maggiori sostenitori di Dubcek, dirigendo la televisione cecoslovacca.
Parlando di vicende come la Rivoluzione ungherese e la Primavera di Praga, è molto importante cercare di andare alla radice di questi movimenti. A proposito del nuovo corso cecoslovacco, per esempio, è sbagliato considerare solo il periodo dal gennaio 1968, quando Alexander Dubcek venne eletto primo segretario del Partito comunista, fino al 20-21 agosto, data dell'invasione sovietica. In realtà la Primavera di Praga non riguarda solo questi otto mesi: si tratta di un processo cominciato già all'inizio degli anni '60, forse anche prima. Le stesse tradizioni della prima Repubblica cecoslovacca, durata dal 1918 al 1938, ebbero un peso rilevante nel determinare il rinnovamento della società dopo gli anni bui dello stalinismo.
Giancarlo Bosetti, direttore di Reset, ci ha posto il problema della riformabilità del sistema sovietico. Oggi a Praga è di moda dire che i comunisti innovatori del 1968 volevano riformare qualcosa di irriformabile, per rendere accettabile un regime totalitario. L'ex primo ministro ceco Vaclav Klaus, uomo di destra, ha sempre detto che "la terza via porta verso il Terzo Mondo", perchè a suo parere non solo il comunismo, ma anche il socialismo è irriformabile.
Io non condivido questo slogan. Secondo me la società cecoslovacca nel 1968, per il suo passato democratico e per il suo grado di maturazione civile e culturale, era riformabile. Lo stesso fatto che Brezhnev abbia dovuto mandare mezzo milione di soldati e migliaia di carri armati per soffocare la Primavera di Praga prova che l'opinione pubblica sosteneva il tentativo di Dubcek. Non erano solo riforme parziali, era l'inizio di un cambiamento che sarebbe andato molto più in là, sia pure tenendo conto del contesto geopolitico che vedeva la Cecoslovacchia inserita nella sfera d'influenza sovietica.
Del resto quest'anno è l'anniversario anche del 1948, cioè della presa del potere a Praga da parte dei comunisti. In realtà la svolta decisiva era avvenuta nel 1947. In quell'anno il ministro degli Esteri cecoslovacco Jan Masaryk era andato negli Stati Uniti a chiedere al governo di Washington un prestito di 40 milioni di dollari per sostenere il prestigio del presidente Eduard Benes. Ma gli americani respinsero la richiesta, affermando che ormai Praga, dopo aver rifiutato di partecipare al piano Marshall, si era collocata nella zona d'influenza dell'Urss. Infatti il governo cecoslovacco in un primo tempo aveva aderito al programma di aiuti statunitense, ma poi Stalin aveva convocato a Mosca Masaryk e il primo ministro comunista Klement Gottwald, imponendo loro un brusco voltafaccia. Inoltre nel 1947 c'era stata in Polonia la conferenza di fondazione del Cominform, in cui Andrej Zhdanov, su mandato di Stalin, aveva detto che il mondo era diviso in due blocchi, quello della pace guidato dall'Urss e quello dell'imperialismo guidato dagli Usa.
Tornando al 1968, è chiaro che in una situazione del genere ogni cambiamento del sistema era possibile solo attraverso riforme graduali. Se qualcuno avesse chiesto un Parlamento di tipo occidentale, un'economia di mercato e magari le privatizzazioni, nessuno l'avrebbe preso sul serio. Invece il programma d'azione del Partito comunista cecoslovacco delineava una via, per la riforma della società burocratizzata e stalinista, che poteva funzionare. Purtroppo l'intervento dei carri armati sovietici stroncò quella prospettiva. Così tramontarono le speranze di noi comunisti riformisti.
Bosetti ci ha chiesto qual è stato per ciascuno di noi il momento della fine delle illusioni. Per me è stato senza dubbio la notte del 20 agosto, il trauma dell'invasione, anche se avevo già prima dei dubbi sul modello sovietico. Nel 1961, insieme a una sessantina di amici, ero stato accusato di aver creato un gruppo filo-jugoslavo, perchè all'epoca cercavamo qualche risposta nell'esperimento autogestionario di Tito. Eravamo insoddisfatti della situazione a Praga, ma pensavamo che le cose potessero cambiare. Dal discorso di Nikita Khrusciov al XX Congresso del Pcus e dalla stagione del disgelo in Urss, iniziata nel 1956, era sorta una speranza, magari contraddittoria, che i regimi del "socialismo reale" fossero in grado di fare autocritica e introdurre dei miglioramenti.
Qui emerge una netta differenza tra comunismo e nazismo. Non è nemmeno immaginabile che Hitler potesse mai ammettere gli errori e i crimini compiuti dal suo regime, mentre Khrusciov aveva avuto il coraggio di formulare un'analisi critica, anche se piuttosto superficiale, sullo stalinismo.
Nel 1956 non ci furono solo la Rivoluzione ungherese e un forte movimento innovatore in Polonia. Anche in Cecoslovacchia si sviluppò un grande dibattito, con manifestazioni studentesche e un congresso degli scrittori molto vivace. Seguivamo con estremo interesse gli eventi ungheresi, ma il precipitare della situazione, con l'insurrezione armata, suscitò nell'intellighenzia di Praga una certa preoccupazione, mentre i conservatori ne approfittarono per soffocare i tentativi di rinnovamento.
Si stava preparando infatti la riabilitazione delle vittime dei processi staliniani, ma il segretario del partito, Antonin Novotny, bloccò tutto. "Vedete dove ha portato la revisione del processo Rajk? Prima si fa un funerale postumo e poi si comincia a sparare", disse dopo la tragedia di Budapest. Allo stesso modo, durante la Primavera di Praga, Brezhnev e gli altri leader dell'Est, negli incontri con Dubcek, sostenevano che la Cecoslovacchia stava imboccando la via del 1956 ungherese, che per loro voleva dire controrivoluzione.
Bisogna infine chiedersi perchè non siamo usciti dal comunismo al momento dei primi dubbi, che per me risalgono all'inizio degli anni '50, l'epoca dei processi politici staliniani in Cecoslovacchia. Devo innanzitutto ammettere sinceramente che, come comunisti, siamo rimasti scossi dalla repressione solo quando essa è caduta sui dirigenti del nostro partito. Finché sul banco degli accusati erano finiti trotskisti, socialdemocratici, cattolici e altri non comunisti, non ce ne siamo preoccupati. Poi sono stati arrestati uomini che conoscevamo personalmente, come Rudolf Slansky, Arthur London [sulla cui vicenda il regista Costa Gavras nel 1970 diresse il bellissimo film La Confessione] e altri compagni, spesso valorosi partigiani. Solo allora ci siamo chiesti come fosse possibile che persone del genere si autoaccusassero di essere agenti dell'imperialismo.
Che cosa si poteva fare? Si poteva forse seguire un moto d'indignazione morale e andarsene dal partito. Ma quale sarebbe stato il risultato di un atteggiamento del genere? Avremmo placato la nostra coscienza, ma ci saremmo relegati nell'isolamento, avremmo perso qualsiasi possibilità di influire sullo sviluppo del nostro Paese. E poichè all'epoca il Partito comunista era in sostanza l'unico strumento per cambiare la società, abbiamo pensato che sarebbe stato più onesto rimanere al suo interno e tentare di riformarlo, per fare in modo che ingiustizie e crimini non potessero più ripetersi. Volevamo non solo un'autocritica verbale, ma fatti concreti in direzione del cambiamento.
Per questo gli eventi del 1968 ci hanno diviso dai comunisti occidentali, compresi quelli italiani. Per noi l'invasione segnò la fine delle illusioni non solo sul modello sovietico, ma anche sul ruolo dell'Urss. Il PCI, il PCF, il PC spagnolo e altri condannarono l'intervento militare a Praga, e questo fu un grande passo avanti rispetto alla posizione di appoggio a Mosca assunta nel 1956, ma nel loro atteggiamento, anche successivo, rimase sempre una certa ambiguità. Da una parte criticavano Brezhnev per l'invasione, ma dall'altra riaffermavano la loro solidarietà con l'Urss e il rifiuto del cosiddetto "antisovietismo". Tutto ciò per noi non era accettabile. Lo dissi una volta a Giancarlo Pajetta: non si può essere solidali nello stesso tempo con la vittima e con il suo assassino.
Io capisco perchè i comunisti occidentali non potevano vedere le cose come noi, esuli dall'Est, e non potevano accordarci lo stesso trattamento che veniva riservato ai profughi politici greci o cileni. Ma bisogna dire la verità: c'è stato un comportamento ambiguo che è durato fino al 1989.
Mi pongo spesso una domanda. Come mai non abbiamo compreso la verità sui processi di Mosca degli anni '30? Perchè non abbiamo letto e capito i libri di Arthur Koestler e di George Orwell?
Il fatto è che nel 1938, giovanissimi, ci siamo trovati di fronte all'alternativa: o con Stalin o con Hitler. Noi che abbiamo partecipato alla Resistenza siamo stati educati durante la guerra a una visione manichea. La nostra fede sconfinava nel fanatismo: chi non era d'accordo con noi era un nemico. E questa mentalità, normale in tempo di guerra, ci ha accompagnato anche dopo la Liberazione. Siamo diventati persone intolleranti, incapaci di ascoltare l'opinione degli altri e di considerarli interlocutori piuttosto che nemici.
Per questo non ha molto senso chiederci conto dei processi di Mosca. Anche se ci avessero detto che cosa era accaduto veramente nel periodo 1936-38, forse non saremmo stati abbastanza maturi per crederci. Eravamo convinti che per combattere il fascismo fosse necessario stare dalla parte dell'Unione Sovietica, anche a costo di chiudere gli occhi di fronte agli orrori dello stalinismo.
Devo aggiungere che la rottura con il passato comunista per me personalmente non vuol dire che considero di aver sprecato la mia vita inseguendo delle illusioni. Io non penso neppure adesso che il mercato possa risolvere tutti i problemi economici e che la cosiddetta società capitalistica sia l'ultima parola della storia. È chiaro che non esiste più l'utopia comunista alla quale abbiamo creduto un tempo. E siamo tutti convinti che la democrazia parlamentare è irrinunciabile. Ma rimangono anche ideali di solidarietà e giustizia sociale per i quali impegnarsi.
Del resto oggi, a quasi dieci anni dalla caduta del blocco sovietico, in tredici paesi sui quindici dell'Unione Europea ci sono al potere partiti socialdemocratici o socialisti e i due maggiori partiti comunisti del mondo occidentale, italiano (mi riferisco agli eredi del PCI) e francese, sono al governo. È un dato interessante su cui riflettere: dopo tutto quello che è avvenuto, attualmente in Europa la sinistra è al potere in modo assai più massiccio di quanto non fosse prima del 1968 e anche del 1989.
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