inizio rosso e giallo


 

Alberto Abruzzese

La grande scimmia. Mostri, vampiri, automi, mutanti


È utile partire dalla conclusione del racconto: «[L'Urang Utang] venne successivamente catturato dal proprietario, che ne ricavò una somma ragguardevole dal Jardin des Plantes. Le Bon fu subito rimesso in libertà...» Si tratta di un evidente scambio in una società che esibisce spettacolarmente come suo fulcro simbolico la necessità della segregazione: l'Urang Utang viene messo dietro le sbarre al posto della vittima ingiustamente imprigionata dalla polizia...

Le sbarre impediscono la comunicazione tra due entità spaziali cariche di valori simbolici. Due aree contrapposte, tuttavia, rispetto alle quali è difficile collocarsi, dovendo trovare il punto di riferimento, la prospettiva da cui guardare per capire quale è il dentro e quale il fuori; chi è l'aggressore e chi è l'aggredito; se la curva all'infinito della barriera cinge d'assedio l'una o l'altra delle due dimensioni. La verifica del valore da assegnare a uno dei due mondi può effettuarsi solo con la trasgressione della linea di confine, per potere, così, avere esperienza dell'altro, viverlo, come si suole dire, dall'interno.
Ma la fenomenologia della conoscenza non esce mai soddisfatta dalla residenza nell'una o nell'altra delle due regioni; chiaramente il dentro e il fuori risultano uno stato d'assedio reciproco. Quindi le forme di conoscenza legate alla fuga, alla trasgressione, al viaggio, qualsiasi possa essere la direzione, trovano la loro rappresentazione più significativa lungo la linea di demarcazione, nei punti in cui questa viene spezzata violente mente oppure nei punti in cui si disintegra lasciando che tutto
si confonda...

Possiamo parlare con sicurezza di questo pubblico, perché Poe lo ha descritto meticolosamente, quasi sociologicamente, nel suo stesso racconto poliziesco. È costituito dal composito gruppo di testimoni della incomprensibile tragedia di cui la legge cerca il colpevole: ciascuno dei componenti di questa piccola campionatura della folla parigina ha avuto modo di raccogliere dell'evento misterioso un dato isolato, un segnale ambiguo, un'informazione parziale. Notizie dall'ambiente urbano in cui il delitto è stato commesso portano ad accusare, seppure con scarsa convinzione, certo Adolphe Le Bon, impiegato di banca, dal momento che il senso comune suggerisce, come movente del crimine, il denaro. La stampa, la polizia, dunque, fanno da cassa di risonanza dell'incapacità di conoscenza di un gruppo sociale; il gruppo è nell'impossibilità oggettiva di conoscere, perché dati, segnali e informazioni non vengono elaborati secondo metodi analitici rigorosi e unitari, sono affidati alla suggestione fantastica ma disomogenea, frantumata, disgregata...

La situazione di fronte alla quale ci troviamo, dunque, riguarda le modalità di soluzione dell'enigma da parte degli strumenti di conoscenza, di informazione e di repressione del sistema sociale massificato, da un lato, e le modalità di soluzione da parte di Dupin dall'altro. Dupin non per questo si sottrae alla sua appartenenza di diritto agli stessi rapporti economici e sociali di quelle istituzioni che contesta sul piano dell'effìcienza e a livello concorrenziale. Del resto la regola del detective, per molti decenni a partire da Poe e da Conan Doyle, non potrà non essere un punto di vista particolarmente interno al sistema: la scoperta dell'assassino, sino a quando ruota intorno al cadavere della scrittura, svela sempre una rivendicazione al dominio individuale, al massimo l'offerta di una sostituzione, mai l'ingresso di un nuovo ordine. Ma è vero anche, almeno nel caso di Poe, che l'autore di polizieschi consente l'approfondimento dei significati reconditi dell'autore di letteratura fantastica: si tratta di capire se qui, alla loro origine, i due generi si contrappongono, sovrappongono o intrecciano...

Mentre la ricerca del senso comune perviene a una soluzione errata, per quanto nell'ordine naturale delle cose, la ricerca intellettuale di Dupin perviene alla soluzione giusta, per quanto nell'ordine innaturale delle cose; mentre un uso male indirizzato della fantasia ottiene un assassino squallido e banale al punto di essere un falso assassino, un rigoroso e ben diretto procedimento analitico ottiene un assassino tanto fuori dalla norma da essere l'unico possibile, quello autentico; infine, mentre la costruzione di prove per un fatto credibile porta a mistificare le prime e inventare il secondo, la costruzione di prove per l'incredibile porta al rispetto delle prime e alla scoperta della realtà del secondo...

Sin dal momento in cui Dupin inizia la sua gara con i modi di produzione di conoscenza forniti dalla stampa e dalla polizia, ci si accorge che Poe intende costruire sull'intreccio poliziesco una macchina estremamente complessa e raffinata, in cui lo scambio di alcuni elementi può ribaltare alcuni effetti, ma non il contenuto dell'operazione intellettuale, il valore in quanto tale che questa macchina consente. Il racconto poliziesco rappresenta l'uso di questa macchina secondo un vettore che dalla realtà porta al fantastico; porta all'immaginazione di quanto, altrimenti, sarebbe inimmaginabile. Il racconto fantastico tende piuttosto a seguire il vettore opposto e dal fantastico penetrare nella realtà o meglio ricostituirla con lo stesso rigore del procedimento analitico. Vale a dire che il gioco si esprime, nell'uno e nell'altro genere, in un potenziamento dell'intelligenza, in un'affermazione del potere individuale sulla ambiguità tra il reale e l'immaginano quali si esprimono nelle forme collettive della produttività sociale. Un vecchio adagio apre la millesimaseconda notte di Sherazade: la realtà è più strana di ogni immaginazione. Poe inverte la meccanica di questa massima popolare: immaginare fatti strani per conoscere la realtà...

Si può tentare di comprendere che senso abbia collocare un Urang Utang nell'area del delitto, farne il soggetto del mistero, contrapporlo al criminale civilizzato. Il delitto puro, astratto, esemplare viene rappresentato dalla stanza ermeticamente chiusa (può essere anche il ventre materno, forzatamente suggerito dalla Bonaparte, ma il significato fondamentale della stanza rimane la rigorosa delimitazione di uno spazio simbolico in cui è possibile sperimentare il valore dell'immaginazione). Scomponendo e ricomponendo i dati forniti da una ragione sociale che si confonde con gli aspetti più deteriori di una fantasia priva di capacità analitiche, il detective perviene alla scoperta dell'assassino: questi è nella realtà un animale; una forza allo stesso tempo sovrumana e subumana; forza che è la somma di più uomini, ma anche l'espressione di ciò che è più primitivo dell'uomo, di ciò che è prima dell'uomo cosciente. L'immaginazione ha identificato il colpevole non nell'individuo civile e storico, che le risorse sociali del territorio avrebbero voluto designare come assassino, ma nell'animale; un animale primordiale che si trova a essere autore di un delitto al posto dell'intelligenza, della memoria, della volontà. Queste ultime, invece, sono le qualità del detective, della sua macchina conoscitiva...

La presenza del detective in Poe - cioè alle origini teoriche del poliziesco - annulla l'interesse per l'assassino in quanto tale; ciò che conta è il significato del cadavere e il lavoro intellettuale necessario a comprendere questo significato. Anzi l'intervento del detective è una attività riordinatrice e razionalizzante, anche nella sua sostanza fantastica: dunque l'indagine è tanto più ardua quanto più le si oppone un'attività caotica, irrazionale, imprevedibile. Mentre nel genere fantastico i fantasmi sono gli ibridi più adatti a funzionare come forma di accesso, violenta e produttiva dell'immaginazione sulla realtà (e dunque le forme dell'assassinio e della catastrofe appaiono come energie che l'eroe patisce); nel genere poliziesco, al contrario, un ibrido uomo-bestia come la grande scimmia risulta la forma di accesso ideale della realtà sull'immaginazione (e dunque le forme del delitto vengono questa volta dominate dall'eroe-detective che in larga misura si appropria della positività dell'assassino, scoprendolo nell'atto stesso in cui lo concepisce; ricostruendo, cioè, attraverso il cadavere un rito cannibalico, altrimenti occulto; compiendo il delitto una seconda volta ma in modo intelligibile). Dupin, scoprendo la scimmia, ne eredita l'energia; esibendola, ne assume i significati...

Il consumatore si pone nel confronti dell'ordigno intellettuale predisposto da Poe come si pone nei confronti di qualsiasi altro prodotto sociale, di qualsiasi altro artefatto: cioè se ha avuto «un ambiente mediamente prevedibile» e «una madre ordinariamente devota», individuerà il linguaggio del testo grazie al principio di realtà, ma sarà costretto immediatamente a reagire anche sul piano del principio di piacere, dell'attività primaria, della simbolizzazione più inconscia e profonda. L'animale antropomorfo (cosi come, negli stessi anni, l'automa che è antropomorfizzazione della macchina) compie il suo ingresso nel racconto fantastico con una precisa funzione di investimento pulsionale dell'inconscio collettivo...

A. Abruzzese, La grande scimmia (Mostri, vampiri, automi, mutanti. L'immaginario collettivo dalla letteratura, al cinema e all'informazione), Napoleone, 1979

Alberto Abruzzese

Poe o dell’immaginazione (tra creatività e consumo)

Pubblico qui il mio intervento di ieri [23 nov. 2015] al Convegno Internazionale su Edgar Allan Poe organizzato dall’Università di Salerno. Il titolo lo devo a Alfonso Amendola, che ha supplito alle mie resistenze a trovarne uno, tanto da aprire la mia lettura senza dare un titolo al testo (a proposito di lettura, io sono un pessimo lettore dei miei testi e quindi spero che leggendolo, ora, possa funzionare meglio).

Tra i vari titoli che mi sono venuti in mente per dare un nome a ciò che vi leggerò ne ho due che prediligo. Uno si riferisce direttamente al Poe filosofo anzi sociologo dell’immaginario, oggi diremmo mediologo, ed è la frase “es lasst sich nicht lesen” che apre e chiude L’uomo della folla. L’altro titolo si riferisce al Poe del grottesco, all’uso che fece della caricatura come eccedenza del pensiero simbolico sulle figure del tempo presente, del tempo contemporaneo: Sovrani della Peste e anime “in fricassea”. Mi pare che dica bene la situazione di decomposizione della sovranità e dei corpi in cui si trova il genere umano. La decomposizione della pancia pantagruelica del Leviatano.

1. Come cercherò di dire tra poco, iniziando davvero la mia relazione - dedicata non tanto a ricordare Poe ma a domandarsi come sia stato possibile ridurre a istituzione letteraria autori come Edgar Allan Poe - è bene ricordare lo scenario in cui si colloca l’autore della “Filosofia della composizione” e a cui si riferisce la vostra scelta di celebrarlo qui e ora. Qui: una sede universitaria. Ed ora: all’alba - in verità un’alba già dalla lunga durata - di una crisi estrema della civiltà che abitiamo e di cui viviamo la rivelazione ultima. L’apocalisse.

Ripercorro dunque in sintesi il passaggio d’epoca in cui si colloca il nostro autore. Lo faccio sulla scorta delle prime splendide pagine di uno splendido libro scritto più di mezzo secolo fa da Leslie Fiedler: Amore e Morte nel romanzo americano. La traccia da tenere in mente è questa. L’industria culturale di massa ha bisogno di una lettura sempre più vasta, dunque di un pubblico che faccia massa delle differenze sociali di ceto, genere, cultura, intelligenza, memoria. Una spinta inesausta verso la potenza di una sorta di minimo comun denominatore dell’immaginazione collettiva (minimo comun denominatore: alba dell’algoritmo su cui si basa la comunicazione digitale? Mi piace crederlo). Una discesa, il termine è appropriato per i suoi tanti rimandi allegorici. Comunque, ricordate quella nei vortici del Maelstrom e il commento che ne ha fatto McLuhan? Una discesa che rovescia i parametri valoriali con cui la società misura l’alto e il basso: non vale - non produce valore - il movimento dal basso verso l’alto ma quello dall’alto sempre più verso il basso. Non verso ciò che sovrasta il mondo ma verso ciò che gli soggiace. Su ciò che è al di sotto della sua superficie. Non il linguaggio del suolo, del territorio edificato alla luce del giorno, ma i regimi notturni del sottosuolo.

Detto in altro modo: la logica di sviluppo del consumo di massa della letteratura preme verso una progressiva interiorizzazione della lettura, ad una progressiva penetrazione del testo dentro le emozioni della persona. Lo scrittore di mercato ha bisogno di toccare gli archetipi della persona, gli archetipi antropologico-culturali custoditi dalla persona: ne ha bisogno per sopravvivere materialmente nella vita comune, per sopravvivere alla “caduta” storica del suo status sociale. A questo proposito, vedi quanto nella sua travagliatissima corrispondenza Poe, autore colto ma diseredato, esprimesse di continuo l’idea che la sua stessa necessità di sopravvivenza fosse legata a divenire autore di successo.
Lo scrittore di consumo si incarica dunque di rappresentare il mondo, de-scriverlo, alla persona, ri-leggerlo e ri-scriverlo per la persona: quanto più vuole penetrare in profondità dentro alla persona, tanto più deve trovare la materia oscura che lega insieme soggetti sociali diversi. È qui che inizia e si definisce lo scarto tra immaginario della fiction e immaginario sociale (saperi delle istituzioni, informazione, opinione pubblica). A differenza della fiction, la strumentalità dell’immaginario sociale, socialmente “trasparente”, deve invece tenere conto delle differenze tra gruppi e individui di diversa cultura per poterne governare i conflitti di interesse. Si tratta di due mondi distinti, separati per quanto complici tra loro. Il mondo del consumo sceneggia la soddisfazione e sempre di nuovo insoddisfazione del desiderio, del desiderio in quanto volontà di potenza spinta al di là dei bisogni e delle loro ragioni. Desiderio: eccesso, sconfinamento, delirio, quindi incommensurabilità dell’infinito, dimensione siderale ficcata nella carne della persona: della persona individuata e assoggettata dalla ratio del sistema in cui è ospitata e in-scritta.

Qui, nella destrutturazione delle strutture narrative della società, destrutturazione necessaria a toccare la materia sensibile della persona, si compie il progressivo rovesciamento di quell’intreccio opportunista tra “sermone” e “divertimento” che Fiedler ha saputo vedere nel romanzo realista scaturito dall’etica protestante della prima operosa borghesia anti-aristocratica. Nell’orientarsi in direzione diversa dal realismo al fine di raggiungere la persona in quanto pubblico potenzialmente sempre più vasto, si avvia un rapido mutamento del rapporto tra “sermone” e “divertimento”, regola e eccezione. Bene e Male. Un mutamento che, lasciando il “divertimento” alla commedia umana della socializzazione, obbliga il “sermone” a farsi materia di una netta diversione dal mondo sociale, un divergere in altro piano simbolico, un piano inclinato verso un’anima tanto profonda da mescolarsi con gli istinti libidici della carne. Sembrano ancora “sermoni” ma si tratta di “fantasmagorie” in cui la morte e la paura giocano un ruolo in tutto diverso e si fanno piacere (conosciamo questo passaggio nella storia dell’immagine). È la rivelazione di ciò che si nasconde dietro la maschera della tragedia greca, il mito. La persona che parla attraverso l’apparente uniformità della sua maschera.

Ho amato molto Poe per Filosofia della composizione e per L’uomo della folla (in qualche modo ogni suo testo è l’applicazione delle loro indicazioni teoriche: a leggere tutto Poe si trovano infinite variazioni sul tema). Sono due testi che mi hanno offerto suggerimenti di impareggiabile chiarezza per leggere il rapporto tra società moderna e scrittura come tecnica e non come ispirazione. Semmai tecnica dell’ispirazione. Mi hanno aiutato a leggere la differenza che la modernità interpone tra la sociologia (significato sociale di tutte le forme di rappresentazione ivi comprese quelle mediatiche) e l’immaginario (inteso come forma di eccitazione e insieme resistenza a quelle stesse forme di rappresentazione, alla loro costruzione, ai loro fini; la tecnica sovrasta scandalosamente i fini, è il meccanismo del sublime tecnologico). Da un lato, l’immaginario depositato e attivato in un testo che predispone al suo interno il proprio contesto sociale ma alterandone la percezione e i valori: dall’altro lato, la sociologia, una cultura e scrittura del contesto che tuttavia perde la possibilità di spiegare e quindi imprigionare il senso dei testi che eccedono il senso comune sociologico.


Poe ci è servito per trovare il nucleo genetico dei generi: fantastico, poliziesco, fantascientifico (in senso generale mi pare che tutti questi generi in Poe si siano esercitati nel rifiutare ogni impedimento di natura sapienziale alla necessità di trovare “paradigmi indiziari” in grado di esprimere le ragioni della morte e del suo silenzio). Hanno scritto in molti su questo. Lo ha fatto anche una piccola scuola napoletana che mi è vicina e cara. Di sorprendente per noi c’è stata la facilità con cui L’uomo della folla segnalava l’imprescrutabilità e l’illeggibilità del soggetto. Dei corpi assoggettati dalla società. Dico sorprendente perché questo allineamento della vista e della scrittura in una stessa egemonia dell’occhio, era esattamente il punto più innovativo di McLuhan: la sua distinzione tra i linguaggi del sentire, da un lato, e i linguaggi del vedere dall’altro lato, quello appunto della scrittura e dell’immagine. Poe guida l’interpretazione di McLuhan: là dove c’è perfetta coniugazione tra alfabeto e immagine (che sarà proprio il dispositivo fondante dell’industria culturale di massa, delle sue sceneggiature), e là dove, invece del realismo sociale, si manifesta la sua farneticazione. La trasparenza del mondo esterno viene meno e dà luogo al mito, alle forme indistinte, inclusive proprio perché segrete, del sacro.

2. La mia “vera” relazione comincia soltanto qui. Ed è destinata a deludervi se vi aspettate variazioni sul tema a proposito di un autore di cui ho scritto e di cui sono tanto debitore. Il pensiero che Poe mi ha trasmesso faceva parte di un progetto critico di natura politica: mostrare le armi dell’immaginario industriale seriale (produzione e consumo) di cui il pensiero politico delle sinistre storiche capiva poco e male. Lo sviluppo dell’immaginario collettivo è andato molto avanti rispetto agli anni dei miei studi mediologici, non altrettanto avanti la sociologia ma molto più avanti le piattaforme espressive della società moderna. Il suo transitare nella società delle reti sconvolge e disaggrega rappresentazioni sociali e rappresentazioni simboliche. Allora scrivevo per dire quanto il sapere ordinario delle nostre istituzioni, il loro sapere strumentale, fosse indietro rispetto all’immaginazione della fiction; ora, continuare a farlo significherebbe restare impigliati in una battaglia di retroguardia. Ma sarebbe di retroguardia di certo non perché la fiction - così vincolata alle forme desideranti del consumo - non si sia sviluppata in forme sempre più sofisticate e sempre più potenti rispetto agli strumenti di interpretazione, di critica e di governo della società. Sempre più dissipative dei valori moderni, spinte sempre più all’eccesso.
Il fatto è che s’è rarefatto il sistema per il quale aveva un senso - seppure illusorio - il tentativo di diventarne una avanguardia e così potere contrattare sui suoi contenuti. Questo che sto dicendo ha a che vedere con la seconda ragione della mia dismissione dal lavoro critico di allora. Questa ragione sta nel fatto che il luogo in cui mi era dato assolvere a questo ruolo, e in cui aveva un senso svolgerlo, l’università, è ormai profondamente mutato. Ora la battaglia per capire e fare capire l’industria culturale dentro i recinti della formazione professionale è inutile farla al suo stesso interno: il sapere strumentale ha vinto interamente a scapito della tradizione intellettuale in cui la formazione era pur sempre ancora inserita. La cultura del saggio è sostanzialmente espurgata dal sistema accademico. L’immaginario dei consumi resta imprigionato nella persona, mentre le professioni non trattano più della persona e quindi della sua vocazione. Il capitale simbolico delle forme dell’immaginario che oggettivamente più evadono dal sociale non può più riuscire a interessare le professioni. Esse operano nel sociale senza avere più nessuna vocazione a interpretarne il senso. Esse pensano soltanto a garantirne le funzioni.

Dunque se vi aspettate l’Abruzzese di allora, non posso che deludervi. Al degrado della formazione intellettuale corrisponde il degrado del sapere che ne costituisce la tradizione: a fronte del “che fare” che la crisi della globalizzazione impone, le teorie del sapere continuano a girare intorno a se stesse. Esse, assolta ormai in un lontano passato la loro funzione di fondamento della società moderna, continuano a intrattenersi sui saperi ritenuti necessari a inquadrare il soggetto moderno e a discutere sulla sua identità. Lo fanno proprio ora che il punto di massima crisi dei regimi formativi è divenuto la persona. Ora che l’obiettivo urgente da conseguire dovrebbe riguardare come innestare di nuovo un processo formativo fondato sulla vocazione. Tentativo che non può riuscire se non attingendo alla profondità della persona. I criteri di eccellenza imposti agli studi umanistici hanno totalmente perso proprio la capacità di ragionare sulla vocazione. Un umanesimo stremato nel suo fallimento fa da risibile copertura delle scienze, tecnicalità e leggi dell’economia. Nessuno coglie il fatto che le scienze umane sono trasversali ad ogni ruolo. Ogni tecnico o politico o amministratore della società, quando deve decidere sul suo “che fare” ricorre ad una cultura umanistica ereditata dalla tradizione. Questa eredità è la ragione del suo attuale fallimento. Dell’equivalenza di ogni parte in conflitto. Della perdita di reputazione che ne consegue.

A volere assumere questo mio punto di vista, credo che ogni discorso sulla storia delle letterature e dei suoi autori debba deviare dal suo corso abituale: non è alla loro ricostruzione critica che si può ancora lavorare secondo gli stili monografici d’uso a tutt’oggi. Trattare di queste opere entrate nel canone dei moderni è stato e rischia di continuare ad essere una forma di culto che gli apparati della cultura - i suoi sacerdoti e amministratori - rivolgono a se stessi. Un lusso che ci permettiamo. La gemmazione di metodi che nulla hanno a che vedere con il “che fare”. È un tempo, quello delle lettere, fermo sulle sue passate promesse invece che bloccato di fronte allo spazio della sua catastrofe. Un modo di ridire parole che ormai sono ridotte al loro implicito silenzio. E dopo le catastrofi del novecento abbiamo sempre continuato a dire invece di fare silenzio.
Dunque parlerò assai più non di come ridefinire l’autore, in questo caso Poe, ma di come il suo puro e semplice nome ci possa sollecitare - sollecitare, appunto assai più che servire - ad affrontare, occuparci, delle emergenze del presente. Lasciarci, anche, interamente occupare da esse. Non è necessario - è di una necessità ineludibile, che parlo - stabilire come dobbiamo ripensare il passato di Poe alla luce di se stesso, rispettandone il suo contenuto e la sua contestualizzazione storica e sociale, ma stabilire come affrontare direttamente il nostro momento di ultima fine d’epoca. Non riandando ai testi di allora ma al contesto di oggi. Un contesto che frana. Semmai, facendoci sensibili a un rovesciamento di questo genere, ci può aiutare chiederci come sia potuto accadere che il pensiero di Poe - insieme a tanti altri del suo “ceppo” epocale - abbia potuto restare lettera morta (lettera “nascosta” per quanto così presente ai nostri occhi) nelle istituzioni etiche, estetiche e politiche della nostra società. Le eredità vanno fatte fruttare e non conservate, ricordandoci che una eredità è comunque il lascito di un morto.

3. Poe parla di noi. Noi dobbiamo parlare delle cose ultime che fu capace di suggerire attraverso le cose ultime che abitiamo e sempre più ci stanno abitando. Parlare del castello che crolla mentre tra le sue pareti in rovina i morti non si rassegnano a morire e il desiderio è tanto potente da essere disposto a farsi esso stesso rovina e polvere. A dismettere ogni apparenza per fare coincidere in sé massima astrazione e massimo dominio (sono i temi che fanno della digitalizzazione del mondo l’ultimo capitolo della potenza universale del denaro). In tanto spreco o tanta speculazione di memorie neo-rinascimentali e di retoriche sulla bellezza e sulla creatività, parlare invece della Bellezza che non salva e non si salva: l’estinzione di un’epoca, anzi più epoche, arrivate già tra Ottocento e Novecento alla loro ultima formula di scongiuro e speranza in un mondo a venire. Quel “non più e non ancora” che oggi è spezzato nel solo “non più” sussurrato contro tutte le promesse, terrene e divine, di felicità e pacificazione. Dovremmo parlare dei regimi della paura come forme di conoscenza. Della fibrillazione di sensi che sempre più segnalano la rilevanza che la carne, penetrando ed essendo penetrata in ogni dove del vivente, assume sui corpi del mondo: la progressiva riduzione della integrità umana in virtù di una connessione tra mondi organici e inorganici in grado di premere verso una nuova ecologia post-umana e non più antropocentrica. Parlare di sovrani e giullari di fronte alla prova del fuoco della loro potenza e della loro impotenza. Dovremmo dire del disgusto della democrazia per se stessa, colta ora al suo tramonto invece che alla sua nascita nel cuore della “vera unità europea”, l’America.


Infine, parlare del Niente che appare all’orizzonte di ogni viaggio umano per mezzo di vascelli - barconi, anche - alla ricerca di una meta o dell’inganno tragicamente possibile di sopravvivere dentro e fuori bare da morto. Qui vorrei fermarmi e, per fare il mio dovere di relatore sul significato e sui significanti di Edgar Allan Poe, invece di parlare del Nulla in cui precipita la fine del capitalismo storico in virtù del suo salto teologico-politico nel mondo algoritmico della finanza, vorrei concludere ripartendo dal Niente che infine appare all’orizzonte di Gordon Pym. Non una nube purpurea ma polvere bianca. E infine una sorta di sua “balena bianca”. Qui, di questo romanzo - un romanzo che è una vera e propria orgia di inarrestabili avventure a catena - parlo in modo alterato, come se si trattasse di un mio sogno personale. L’eroe di questo romanzo dall’incerto e enigmatico finale, è assai più comico che tragico (tragico è qui il viaggio e non più il viaggiatore, fantasma è il mondo e non più il vascello). La narrazione non si conclude, è un manoscritto interrotto: tenta di portare a compimento se stessa, sin dall’inizio senza scopo se non quello della sua stessa sopravvivenza, sopravvivenza di uno scopo cui infine viene a mancare il mondo da costruire. Dal nero della natura selvaggia e primitiva si giunge al bianco di un animale sconosciuto. Di una bestia al di là dell’umano e del vivente. Due dimensioni del sacro che la civilizzazione ha sviluppato nei toni bianco e nero del cinema e nelle sfumature di grigio delle alterne sorti della dialettica moderna. Fini dunque che vengono a mancare di mezzi e mezzi che vengono a mancare di fini. Forse è questa la scoperta di Gordom Pym alias Edgar Allan Poe: l’impossibilità umana e sociale di un’etica, di una estetica e di una politica.
La conclusione a Poe stesso:

La sostanza bianca e cinerea ci pioveva addosso copiosa. A sud, la cortina di vapore si era come per incanto levata sull’orizzonte e cominciava ad assumere una forma più distinta. Non saprei a che cosa paragonarla se non a una cataratta senza fine che silenziosamente precipiti in mare da un immenso e lontano monte del cielo. A sud questo sipario gigantesco chiudeva l’orizzonte in tutta la sua estensione, ma da esso non proveniva alcun suono”.

grazie a: http://www.albertoabruzzese.net/