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Massimo Bonfantini
Il giallo e il noir |
Parte seconda. L’ironica Agatha e la verità come critica storica
1. Agatha l’enigmista inverosimile
Conan Doyle voleva essere preso molto sul serio. Pensava che i suoi racconti fossero pedagogicamente realistici: servissero per aiutare la polizia.
La mia idea è che la “ironica Agatha” si guardi bene da ogni pretesa di realismo. Che il suo scopo sia essenzialmente un altro: di inventare storie anche assolutamente inverosimili e soluzioni ingegnose ma irreali, da gioco enigmistico.
Questo giudizio all’incirca ho esposto nel mio libro di semiotica e filosofia del 1987, ne La semiosi e l’abduzione:
Ci sono autori di gialli che vogliono piacerci per le sorprese e gli imprevisti. Nei romanzi più riusciti, come in molti di Agatha Christie, i singoli momenti di piacere della lettura si compongono in una sorta di compiacimento estetico finale: quando il lettore riconosce ammirato la complessa perfezione del congegno narrativo proprio nella sua implausibile coerenza e nella sua programmatica, artificiosa inverosimiglianza. L’ironica Agatha gioca la sua inventiva tutta dalla parte della fabula e dell’assassino. Nel ricercarne il massimo di imprevedibilità invade sistematicamente le parti, i ruoli codificati di un genere apparentemente molto chiuso: l’assassino è il narratore, l’assassino è il poliziotto, assassini sono tutti i sospettandi, assassini e vittime si identificano ecc. In questo gioco la detection è rigorosa e priva di sbavature ma strumentale rispetto alla storia. L’eroe è l’assassino che deve restare fino all’ultimo nascosto.
Ma ci sono altri autori di gialli, che ci interessano più profondamente, perché possiamo interrogarli e dialogarci, invece che solo ammirarli e/o imitarli, che fanno il gioco opposto. Qui l’eroe è sino in fondo il detective. La storia interessa in funzione della detection. Spesso il colpevole è immediatamente individuabile. Il lettore lo indovina subito. E anche la storia del delitto può rivelarsi comune, qualunque, simile a un fattaccio di cronaca nera. L’avventura su cui lo scrittore richiama ossessivamente l’attenzione è tutta del detective. E al di là dell’ingegnosità delle singole mosse dell’indagine, quello che ci prende, quello con cui siamo chiamati a confrontarci, è il metodo, l’abito, il carattere, l’atteggiamento costante del detective.
Gli appassionati e tifosi della divina Agatha mi hanno rimproverato. A esempio, Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, nella loro, peraltro assai meritoria, Guida alla lettura di Agatha Christie (Oscar Mondadori, 1990). Perché non avrei riconosciuto, come a Dupin, Holmes, Maigret, le grandi capacità abduttive di Poirot e Miss Marple.
Il senso del mio brano appena citato è diverso. Comunque, già nel Caso del nastro mancante, l’entretien giallo la cui prima recita è del 1987, e la prima edizione del 1988, riconoscevamo, dico noi autori, Carlo Oliva e io, l’originale contributo di Agatha al metodo della detection:
Poirot è il maestro dell’interrogatorio incrociato. Non gli sfugge una contraddizione tra due dichiarazioni dello stesso personaggio, né tra quelle di due o più personaggi diversi. È un cacciatore infallibile di divergenze. E il suo problema è quello di chiedersi sempre il perché di ogni divergenza. In un certo senso adotta la tecnica di uno storiografo alle prese con le sue fonti…
Ma è l’artificio, l’elemento propriamente enigmistico, l’indovinello-scommessa sull’assassino, la grande novità della neoclassica o manieristica Agatha, rispetto alla serietà lineare dei classici: che sono Poe e il suo positivistico seguace Conan Doyle.
Poirot, al principio, a Styles Court, che esce nel 1920, sembra solo un più ragionieresco Holmes. E Agatha si confessa molto “holmesiana”, nei primi anni di attività, nella sua autobiografia, scritta fra il 1950 e il 1965: La mia vita, Mondadori, 1978.
"A quell’epoca mi sentivo molto legata alla tradizione holmesiana e la figura dell’investigatore mi sembrava fondamentale. Non dovevo rifare un altro Sherlock, però, bisognava che mi inventassi un personaggio originale, al quale anch’io avrei fornito una specie di spalla. Ma questo non costituiva un problema.
E perché non un investigatore belga? Dopo tutto gli espatriati erano persone di vario genere, tra cui avrebbe potuto benissimo esserci anche un ufficiale di polizia, un ufficiale in pensione, non troppo giovane. E qui feci un grosso errore perché, stando ai calcoli, il mio investigatore dovrebbe essere ormai più che centenario.
Comunque l’idea mi piacque e lasciai quindi che il personaggio si configurasse in me con sempre maggior chiarezza. Doveva essere un ispettore per avere una buona conoscenza del crimine. Doveva essere anche meticoloso e molto ordinato. Un omino preciso, con la mania dell’ordine, della simmetria, e una netta propensione per le forme quadrate piuttosto che per quelle tonde. E poi molto intelligente, con il cervello pieno di piccole cellule di materia grigia… ah, che bella frase, non dovevo dimenticarmela. Bisognava anche che avesse un nome importante, un nome che non sarebbe sfigurato nella famiglia Holmes. Già, perché loro quanto a nomi… Come si chiamava il fratello di Sherlock? Mycroft, nientemeno.
E se l’avessi chiamato Hercules? Hercules mi parve un ottimo nome per un omino così."
2. L’attenzione all’assassino e all’alibi
Mentre medita nelle pause del suo lavoro in tempo di guerra, nel dispensario dell’infermeria, ben decisa a scrivere un romanzo poliziesco, ha subito le idee chiare sull’assassino: che “doveva essere un personaggio sufficientemente ovvio, il quale, però, a quanto pareva, non aveva avuto la possibilità materiale di commettere il delitto, mentre poi si scopriva che era stato proprio lui”.
Questa dichiarazione di poetica, cotestuale al precedente brano nella Mia vita (p. 262), tecnicamente voleva dire spostare l’attenzione, rispetto alla tradizione classica, dai meri indizi materiali a considerazioni intorno a opportunità, mezzi, movente.
L’impossibilità apparente di commettere il delitto in ultima analisi doveva consistere in un alibi: appariscente e costruito e poi smontato. La centralità dell’alibi e della situazione spazio-temporale è propria della costruzione dei congegni di Agatha Christie. Inoltre: data la posizione semi-ufficiale di ex-poliziotto di stato, Poirot è più autorevole di Holmes, e può quindi permettersi di condurre lunghi interrogatori, di testimoni che sono parzialmente o totalmente inaffidabili. Non solo perché colpevoli o complici del delitto (come nel Caso della Casta Susanna); e non solo perché per ignoranza danno false interpretazioni e fraintendono i fatti (come i testi poco versati nelle lingue del racconto di Poe Gli omicidi della Rue Morgue); ma soprattutto perché vogliosi di nascondere antiche o recenti magagne, che pure non c’entrano con il fattaccio principale.
Così Agatha si fa le ossa nei primi romanzi, sino alla svolta del suo capolavoro. Il suo capolavoro, come tutti sanno, o almeno il suo capolavoro giovanile, è del 1926. Nella sua autobiografia, a pagina 354 dell’edizione già citata, Agatha ne parla così: Mi avevano trovato un nuovo editore, William Collins, che è quello per cui scrivo tuttora.
Il primo libro che scrissi per loro, L’assassinio di Roger Ackroyd (Dalle nove alle dieci), ottenne un successo assai superiore a quello dei miei lavori precedenti, tanto che viene ricordato e citato ancora adesso. Si basava su una buona formula, di cui sono in parte debitrice a mio cognato James il quale, qualche anno prima, deponendo un romanzo poliziesco, aveva commentato un po’ astiosamente: «Oggi il criminale lo fanno fare a chiunque, persino all’investigatore. Personalmente vorrei vedere un tipo come Watson nei panni dell’assassino». Era un’idea originale, su cui rimuginai a lungo. Capitò poi che la stessa idea mi venisse suggerita da Lord Louis Mountbatten, il quale mi scrisse proponendomi di far narrare la vicenda in prima persona da un personaggio, che poi risultava essere l’assassino. Quando la lettera mi arrivò, ero gravemente malata, tanto che non sono neanche sicura di avergli risposto.
Ma il suggerimento era buono e anche su questo riflettei per parecchio tempo. La mia mente era riluttante di fronte all’eventualità che Hastings potesse uccidere qualcuno, senza contare che non sarebbe stato facile conservare l’elemento della sorpresa senza ricorrere a trucchi. Per la verità un sacco di gente ritiene che nell’Assassinio di Roger Ackroyd io abbia imbrogliato le carte, ma se rileggesse il libro attentamente capirebbe di aver sbagliato. Alcune piccole differenze di tempo sono celate in una frase ambigua che il dottor Sheppard scrisse con indubbia soddisfazione, conscio di affermare la verità, anche se non tutta la verità.
3. Chi imbroglia le carte?
In realtà, si tratta di due frasi ambigue del dottor Sheppard. O meglio, si tratta di due frasi ambiguamente re ticenti. Le seguenti.
La prima viene ripresentata alla fine del libro così:
"Sono piuttosto soddisfatto delle mie doti di scrittore. A esempio, che cosa potrebbe essere più preciso e più accurato dei seguenti periodi?"
“La lettera era stata consegnata alle nove meno venti. Erano esattamente le nove meno dieci quando lo lasciai senza che lui l’avesse letta. Esitai con la mano sulla maniglia della porta, e mi voltai domandandomi se avevo fatto tutto”.
Tutto quanto vero. Ma supponiamo che, dopo la prima frase, io avessi messo una fila di puntini… non sarebbe sorta spontanea la domanda: che cosa è accaduto in quei fatali dieci minuti?
Sull’altra asserzione il narratore Sheppard insiste a varie riprese, dopo l’iniziale occorrenza, che si presenta quindici righe dopo la prima:
“Suonavano esattamente le nove dal campanile di King’s Abbot, quando varcai i cancelli della portineria della villa” (a pagina 38 dell’edizione del 1979 degli Oscar Mondadori).
Quattro pagine dopo abbiamo la terza dichiarazione reticente, a posteriori ricca di humour noir molto english:
“Feci quel poco che andava fatto, badando soprattutto a non smuovere il cadavere dalla posizione in cui si trovava e a non toccare il pugnale”.
L’ironica Agatha finge di meravigliarsi di essere stata accusata di “imbrogliare le carte”.
Ma in realtà non è l’assassino-narratore, poverino, ad avere imbrogliato molto le carte. Che anzi, a consegnare a un drago come Poirot il suo manoscritto, il suo resoconto, sembra davvero un temerario masochista, che regala al detective la corda per la propria impiccagione. E che, d’altronde, a essere un po’ reticente è nel suo buon diritto.
No. È Agatha Christie che imbroglia magistralmente le carte, costruendo il virtuosistico congegno in cui il narratore è l’assassino. I lettori del grosso pubblico, fanatico del giallo-enigma o addirittura enigmistico, subiscono; e restano sempre più avvinti alla loro impari e masochistica lotta con la grande regina. Il pubblico signorile o di garbo, come lo chiamava Voltaire, o mondanamente colto, come direbbe oggi un sociologo, applaude l’originalità. I colleghi scrittori, i conoscitori, i critici semiotici apprezzano il virtuosismo dell’invenzione e la costruzione dell’intreccio.
4. Le ‘slealtà’ di Poirot con il lettore
Ma questi ultimi possono notare che questa mossa straordinaria di rompere ogni precedente, facendo del personaggio raccontatore l’assassino, spiazza enormemente il lettore, e con ciò maschera anche le slealtà del detective, di Poirot nei riguardi del lettore, che si trova ampiamente defraudato di informazioni.
Vogliamo dire che il lettore non solo riceve informazioni, limitate e lievemente distorte, dal punto di vista del narratore Sheppard. Ma non viene a sapere alcune fondamentali azioni e scoperte di Poirot se non alla fine. Perché Poirot, giustificatamente, da quando comincia a sospettare, non le comunica più all’assassino-narratore che non le comunica a noi lettori.
Fra detective e lettore, nel giallo-enigma, che ha in Ellery Queen il praticante reo-confesso, e in Agatha Christie la subdola ipnotica inventora, si stabilisce una gara.
Ora, già in condizioni normali, cioè quando al detective sia sempre appiccicato il personaggio raccontatore o testimone o narratore, il detective non gli dice sempre quello che pensa, inferisce, ipotizza. Perché altrimenti suspense addio! Come onestamente confessava Holmes a giustificare le reticenze del suo papà Conan Doyle.
Ma naturalmente lo svantaggio del lettore cresce, quando il detective cela fino all’ultimo quello che fa e l’informazione che riceve.
E qui, nell’Assassinio di Roger Ackroyd, Poirot cela al narratore-assassino, e quindi anche a noi mentre leggiamo la prima volta la storia, le sue indagini e le risultanze in merito alla telefonata che indusse Sheppard a ritornare sul luogo del delitto.
È solo a cose fatte, a scioglimento avvenuto, alle pagine 227-228 della nostra edizione, che Poirot si confessa all’assassino e a noi. «Devo confessare che mi sono trovato in grande imbarazzo quando ho scoperto che realmente era arrivata una telefonata dalla stazione di King’s Abbot. In un primo tempo ero convinto che si trattasse di una sua invenzione. È stato un particolare veramente magistrale. Lei doveva pure avere qualche scusa per arrivare a Fernly, per scoprire il cadavere, per avere la possibilità di portar via il dittafono su cui poggiava il suo alibi. Avevo appena una vaga intuizione sul mistero di quella telefonata, quando sono andato la prima volta a far visita a sua sorella e l’ho interrogata sui pazienti che erano stati da lei, venerdì mattina. Trovai quanto cercavo. Tra i pazienti, quel giorno, c’era anche il cameriere di un transtlantico americano. Chi meglio di lui aveva occasione di prendere il treno per Liverpool, quella sera? Poi, in seguito, sarebbe stato in alto mare, ben lontano da qui. Notai intanto che sabato era partito da Liverpool l’Orion, e non appena saputo il nome del cameriere gli ho mandato un telegramma facendogli una certa domanda. Ecco la risposta che, come ha visto, ho ricevuto un momento fa».
Mi porse il foglio. C’era scritto:
“Esatto. Il dottor Sheppard mi ha pregato di lasciare un biglietto in casa di un ammalato. Dalla stazione dovevo telefonargli comunicandogli la risposta. La quale era: ‘Nessuna risposta’.”
«L’idea era geniale» riprese Poirot. «La telefonata c’è stata veramente; sua sorella era presente mentre lei parlava al telefono. Ma quanto al tenore della comunicazione, non c’era che la parola di un uomo… la sua».
Ma questa slealtà del detective nei riguardi del lettore ha un precedente illustre, come noi sappiamo dal capitolo scorso, nel telegramma spedito a Cleveland da Sherlock Holmes, di cui sino all’ultimo il lettore non conosce contenuto e risposta. Ma almeno conosce l’invio.
Slealtà notevolissima nei riguardi del lettore e vero e proprio blocco delle sue possibilità di formulare ipotesi di soluzione è invece un’altra.
Questa seconda, più grave, slealtà consiste in ciò. Il detective rivela all’ultimo un dato di fatto, che è il contrario di ciò che è stato precedentemente assodato e che per tutto il libro resta assolutamente pacifico. È un vero e proprio trucco nei riguardi del lettore con cui si cambiano le carte in tavola. Mi riferisco al nodo cruciale dell’impiego o no del dittafono (o magnetofono o registratore).
A pagina 75 possiamo infatti leggere il seguente esito di un interrogatorio di Poirot: «Mi premeva domandarle questo, signor Raymond: nella scorsa settimana è venuto qualche sconosciuto a trovare il signor Ackroyd?».
Il segretario rifletté per un minuto o due corrugando la fronte; in quel momento comparve il maggiordomo.
«No» rispose finalmente il giovane. «O almeno, non ricordo. E lei Parker?».
«Scusi, signor Raymond, di che cosa si tratta?».
«In settimana è venuto qualche sconosciuto a trovare il signor Ackroyd?».
«Mercoledì è venuto un giovanotto» rispose il maggiordomo dopo un minuto di silenzio «mandato dalla ditta Curtis & Troute».
«Ah sì, ora ricordo, ma non è quello che stiamo cercando». Si rivolse a Poirot: «Il signor Ackroyd aveva una mezza intenzione di acquistare il dittafono, una di quelle macchine per dettare la corrispondenza» spiegò. «La ditta in parola mandò un suo incaricato, ma non se ne fece nulla. Il signor Ackroyd non si decise a comprarlo».
Ma ecco che 150 pagine dopo, alla fine quasi del libro, come un misterioso oggetto magico, prima mero mito liquidato, il dittafono salta fuori sul tavolo delle operazioni del delitto e di Poirot-Aghata. Parola di Poirot: «Il signor Ackroyd» disse Poirot « aveva in mente di acquistare un dittafono, se ricordate. Io ho fatto indagini presso la società in parola. La risposta è stata che lui aveva effettivamente acquistato un dittafono dal suo rappresentante. Perché abbia taciuto la cosa, proprio non lo so».
«Forse intendeva farmi una sorpresa» mormorò il segretario. «Si divertiva molto a sorprendere la gente».
Questa scoperta, per la verità molto banale, e a noi rivelata così tardivamente, apre naturalmente alla soluzione finale, proclamata dieci pagine dopo (222-223): «Sappiamo che è stato consegnato un dittafono al signor Ackroyd. Ma tra le sue cose, il dittafono non è stato trovato. Perciò, se da quel tavolo venne tolto qualcosa… perché non poteva essere il dittafono? Certo, non è semplice farlo sparire. Vediamo, a ogni modo. L’attenzione di ognuno era concentrata naturalmente sull’assassinato. Credo quindi che chiunque avrebbe potuto avvicinarsi al tavolo senza farsi notare dagli altri che si trovavano nella stanza. Ma un dittafono non è un oggetto tanto minuscolo… non lo si può mettere in tasca. Bisognava quindi avere a disposizione una valigetta, un contenitore qualsiasi».
«Sì, voglio dire questo. Alle nove e trenta il signor Ackroyd era già morto. Chi parlava era il dittafono, non lui».
5. Agatha come il Cavalier Marino
Ma Agatha, proprio come il povero signor Ackroyd, era una che “si divertiva molto a sorprendere la gente”. Agatha, come il Cavalier Marino, pensa che del poeta o dell’autore “è il fin la meraviglia”. Le importa di lasciare sempre di stucco il povero lettore. Sorprenderlo. “Tu mi stupisci”, “Tu mi tradisci, Agatha”, diceva la canzone di Leo Ferré. [L'Autore fa confusione: Ferré non avrebbe mai scritto quella roba: si tratta di Nino Ferrer]
Così Poirot fa uno sberleffo alle impronte digitali in questo romanzo.
Leggiamo infatti alle pagine 114-115:
«Lei ha preso le impronte digitali di tutti quelli che si trovavano nella villa» spiegò il belga. «È proprio la verità, questa, ispettore?».
«Ma certo».
«Non ha dimenticato nessuno?».
«Non ho dimenticato nessuno».
«Né vivo, né morto?».
Per un momento Raglan rimase perplesso, non sapendo come interpretare la domanda. Poi lentamente reagì.
«Vuol dire…»
«Il morto, caro Raglan».
Passò qualche minuto prima che l’ispettore capisse.
«Facevo semplicemente un’ipotesi» continuò Poirot con calma. «Può darsi che le impronte sul pugnale siano quelle del signor Ackroyd. Del resto è facile controllare. Il cadavere non è ancora stato sepolto».
«Non capisco perché. Sta per caso pensando a un suicidio?».
«No. La mia convinzione è che l’assassino portasse guanti oppure si fosse avvolto la mano in un pezzo di stoffa. Dopo aver vibrato il colpo, ha preso la mano della vittima e l’ha chiusa intorno all’impugnatura dell’arma».
«Ma perché?».
«Semplicemente per rendere più complicato un caso già tanto complicato».
«Bene» rispose il funzionario. «Verificherò. Ma come le è venuta quest’idea?».
«È stato quando lei mi ha mostrato il pugnale e ha richiamato la mia attenzione sulle impronte digitali. Conosco ben poco di curve e spirali, e confesso la mia ignoranza in questa materia. Ma mi è parso che la posizione delle impronte fosse un po’ strana. Cioè non avrebbe dovuto essere così, se io avessi impugnato un pugnale per colpire».
Puntuale, a distanza di cinquanta pagine, il povero funzionario di polizia Raglan riconoscerà:
«A proposito delle impronte digitali. Erano proprio del signor Ackroyd. Anch’io avevo su per giù la stessa idea, ma poi l’ho abbandonata perché non mi sembrava verosimile».
Ma, appunto, interessa forse sul serio ad Agatha il verosimile?
Nell’Assassinio sull’Orient Express, che è del 1933, si dice di certe “lettere minatorie” che esse “si direbbero tolte di peso da un romanzo poliziesco americano” (a pagina 173 dell’edizione Oscar Gialli del 1986), per dire che sono goffe e incongrue e suonano false.
Epperò, quando si comincia a delineare la singolarità quasi provocatoria dei dodici colpevoli, il Dottor Constantine sembra fare da portavoce dell’autore confessando allegramente, a p. 197:
“Questo è il più strabiliante di qualsiasi romanzo poliziesco”.
La verosimiglianza è l’ultima delle preoccupazioni della terribile Agatha in quegli anni. Le interessa la cristallina coerenza del congegno. Ma se per gioco si mettono in 14, i componenti del detection club nel 1931, per scrivere L’ammiraglio alla deriva (Giallo Mondadori, numero speciale, n. 1781, 20/3/1983), puoi stare sicuro che la ironica Agatha, autrice del “Capitolo quarto”, spariglia le carte con le sue Divagazioni, prevedendo una rivoluzione provocatoria della trama già predisposta dai colleghi:
“La vera Elma Fitzgerald è morta e il fratello Walter, non potendo reclamare personalmente l’eredità che gli spetta perché è ricercato dalla polizia, si traveste e si spaccia per la sorella” (p. 199).
Più inverosimile e irrealistico di così!
6. Agatha Christie e la verità come critica storica
E la verità come critica storica indicata nel nostro titolo del capitolo? Comincia a emergere come analisi critica delle fonti, delle storie delle testimonianze, un poco anche nel nostro testo, dico nell’Assassinio di Roger Ackroyd.
C’è una dichiarazione iniziale di attenzione alla psicologia, a pagina 78, che suona un po’ solenne e pretensiosa da parte di Poirot, e che suona ironica e auto-ironica da parte di Agatha Christie.
Battute fra Poirot e il funzionario di polizia Raglan. Dice Poirot: «Inoltre c’è la psicologia di un delitto: è questa che bisogna studiare».
«Ah!» rispose il funzionario «vedo che anche lei si è lasciato influenzare da tutte quelle teorie psico-analitiche! Invece io sono un uomo semplice».
Più impegnativa, quasi quanto una filosofia del delitto, più che del diritto, una tirata di Poirot: «Prendiamo un uomo, ad esempio, un uomo comune. Un uomo che non ha alcuna idea delittuosa nel cuore. Ma in lui, nelle profondità del suo animo, c’è un punto debole, una tara morale. Questa tara non è mai affiorata e forse non affiorerà mai… in tal caso vivrà rispettato e godrà della stima di tutti. Ma supponiamo che gli succeda qualcosa, che si trovi in imbarazzo, in difficoltà. O neppure questo; che venga per caso a conoscenza di un segreto: un segreto che riguarda la vita o la morte di qualcuno. Il suo primo impulso sarà di parlar chiaro, di fare il suo dovere di cittadino. Ma ecco che il suo punto debole si risveglia. Ecco una buona occasione per far quattrini a palate. Ha bisogno di denaro, lo desidera, e se lo vede a portata di mano. Non deve fare altro che stare zitto. E così comincia. L’avidità del denaro cresce, ingigantisce. Ancora, ne vuole ancora, e sempre più. È come inebriato, abbagliato dalla miniera d’oro che si è aperta davanti a lui. Diventa insaziabile, e nella sua avidità sopravvaluta le proprie forze. Un uomo lo si può spremere fin che si vuole, ma con una donna si deve andar cauti. Non bisogna esagerare, perché la donna ha sempre un gran desiderio di dire la verità. Quanti mariti hanno ingannato la moglie, e hanno portato il loro segreto nella tomba! Quante mogli invece hanno tradito il marito, e hanno rovinato la loro vita sbattendo in faccia al marito la verità! È perché sono state spinte sino all’estremo limite della disperazione. In un momento di abbandono, di cui più tardi si pentiranno amaramente, bien entendu, dimenticano qualsiasi prudenza, e gridano forte quella verità che sull’istante dà loro grande sollievo, una grande soddisfazione. E questo mi sembra il caso nostro. La tensione era troppo forte. E così avvenne che morì la gallina dalle uova d’oro. Ma questa non è la fine. Il pericolo dello scandalo minacciava ormai l’individuo di cui stiamo parlando. E non è più l’uomo di prima, di un anno fa, poniamo. La sua fibra morale è indebolita. È disperato; combatte una battaglia perduta, ed è pronto a ricorrere a qualsiasi mezzo, perché sa che lo scandalo significa per lui la rovina. Ed ecco… il pugnale… il pugnale… che colpisce a morte».
Ma è quindici anni dopo, ne Il ritratto di Elsa Greer, che l’attenzione alla psicologia dei personaggi e alle testimonianze e al loro confronto si tende in un’indagine testarda, tenace e non spettacolare, a ricostruire la verità di una morte per avvelenamento lontana, sedici anni prima. Un omaggio forse al secondo marito archeologo. E forse un segreto omaggio o una segreta sfida di Poirot a Maigret.
O che non sembra di Maigret, ovvero di Simenon, il grande rivale emergente e belga come Poirot, questo principio che campeggia alla pagina 62 del Ritratto di Elsa Greer (Oscar Mondadori, ristampa del 1990):
“Ha mai pensato” disse Poirot “che il movente di un delitto va spesso ricercato studiando il carattere della persona uccisa?”.
Nell’Assassinio di Roger Ackroyd, invece, Poirot si applica a mettere in chiaro piccole storie parallele al delitto, che confondono, e non c’entrano con la principale storia di ricatto e di morte. Mette in chiaro, così, la storia del matrimonio segreto del figliastro del morto; la storia dei furterelli della nipote allo zio taccagno; la storia del figlio illegittimo e drogato della governante, ecc..
Poirot usa vari trucchi per fare cantare i testimoni reticenti o mendaci o per illuminare dei particolari. Fra questi trucchi c’è quello di una ricostruzione che coinvolge due attori, il Maggiordomo Parker e la nipote Flora.
Presentata, come spesso avviene in questo romanzo, a pagina 144, in modo molto scherzoso e ironico, la scena comincia così. Dice Poirot:
«Tutto deve procedere con ordine. Proprio come è avvenuto. È un mio metodo particolare».
«È un metodo che usano all’estero! Si chiama ricostruzione del delitto, vero?», disse Parker, imperturbabile.
«Ah, il buon Parker sa le cose!» esclamò Poirot. «Evidentemente legge».
7. Perry Mason e la ricostruzione con la trappola
Siccome anche Erle Stanley Gardner era uno che leggeva, se ne sarà certo ricordato, dico di questa ricostruzione con finalità coperta, nello straordinario caso di Perry Mason e l’ereditiera bizzarra.
In Perry Mason e l’ereditiera bizzarra (I ed. it. I Libri Gialli, n. 180, febbraio 1938, II ed. Il Supergiallo, n. 22, marzo 1954, naturalmente Mondadori) Perry Mason impone a una procura riluttante, mediante una campagna stampa, condotta soprattutto dall’amico giornalista Harry Nevers, di ripetere un’esperienza circostanziale del delitto. L’assassinato nel suo studio in una villa è il ricco Norton. Nel dibattimento in corso il segretario Graves ha testimoniato di aver visto, dal finestrino dell’auto, condotta dal giudice Purley, che si allontanava dalla villa, la nipote Franca Celane e suo marito, Robert Gleason, che, alla presenza della moglie, colpiva nello spazio del di lui studio con un bastone lo zio Norton.
Data la distanza di un centinaio di metri, sembra difficile che il teste abbia potuto riconoscere da un’auto in corsa gli imputati.
Secondo gli accordi, il giornalista Nevers sceglie la coppia di attori fra tre donne e due uomini abbigliati diversamente.
Apparentemente l’esito della prova segna la sconfitta di Perry Mason, perché il segretario Graves riconosce immediatamente “l’uomo dal vestito turchino e dai capelli neri, e la donna in rosa”.
Ma questa prova di riconoscimento era stata pensata da Perry Mason come una messa in scena, un paravento, di un altro riconoscimento, che Mason voleva insinuare nella memoria repressa del giudice Purley.
E qui dobbiamo fare un passo indietro. Andare a leggere del primo testimone chiamato alla sbarra dal sostituto procuratore Drumm. Questo testimone era proprio questo giudice municipale Purley.
Quando il degno magistrato si avanzò col portamento maestoso di un uomo conscio della dignità della propria persona e dell’importanza del momento, tutti tesero il collo.
Corpulento, bianco di capelli, largo di spalle, egli alzò la mano per prestare giuramento, poi sedette sul banco dei testimoni. Il suo atteggiamento rivelava un profondo rispetto del tribunale e della giustizia, una cortesia di buona lega verso i magistrati e il giurì, un calmo disprezzo degli spettatori.
- Il vostro nome è B.C. Purley? – chiese Drumm.
- Sì, signore.
- Voi coprite le funzioni di giudice municipale al tribunale di questa città e siete stato debitamente eletto e qualificato.
- Lo sono.
- E la notte del ventitré ottobre di quest’anno avete avuto occasione d’essere nelle vicinanze della residenza di Edoardo Norton?
- Sì.
- A che ora, giudice Purley, siete arrivato alla casa di Edoardo Norton?
- Alle 11,6’ esattamente.
- E a che ora ne siete ripartito?
- Alle 11, 20’, esattamente.
- Chi era con voi nel corso di quella visita? - chiese il Procuratore.
- Il signor Arturo Crinston, il socio di Norton, all’andata, il signor Graves quando lasciammo la casa.
- E che cosa accadde mentre vi trovavate sui luoghi?
- Arrestai la macchina onde permettere al signor Crinston di scendere, poi voltai, spensi il motore e aspettai.
- E che faceste durante quell’attesa?
- Nulla. Fumai per una decina di minuti, un quarto d’ora forse, consultando spesso l’orologio con impazienza, durante gli ultimi minuti - disse Purley.
- E allora che avvenne? - chiese Claudio Drumm.
- Allora il signor Crinston uscì dalla casa per raggiungermi, ed io accesi il motore. In quel momento una finestra sull’angolo sud-est della casa si aperse e il signor Norton sporse il capo dal suo studio.
I brani citati sono ripresi, con qualche taglio, dalle pagine 163 e 164 del Supergiallo citato. La deposizione del giudice Purley prosegue:
- Egli chiamò il signor Crinston e, per quel che posso ricordare, disse: «Arturo, puoi condurre Graves con te nella tua macchina e consegnargli i documenti? Manderò poi io a prenderlo in auto».
- E poi?
- Il signor Crinston rispose: «La macchina non è mia, ma di un amico. Gli chiederò se vuol condurre anche Graves».
- Io risposi positivamente, - proseguì Purley - il signor Crinston ritornò sotto la finestra dello studio e disse al signor Norton: «Sta bene, Norton, egli può venire con noi». Quasi nello stesso istante la porta del pianterreno si aprì, il signor Graves discese rapidamente i gradini dell’ingresso e ci raggiunse dicendo: «Sono pronto», o qualcosa di simile.
Il signor Graves, il segretario, che era seduto sul sedile posteriore della macchina del giudice Purley, grida di aver visto dal finestrino una scena drammatica. Purley gira la macchina. I tre tornano indietro. E nello studio trovano il morto. Norton morto.
Morto che, a domanda di Mason, Purley ribadisce continuamente, lui Purley non aveva prima mai visto né conosciuto, e con cui, si badi, non aveva mai parlato, neppure per telefono.
Quella sera stessa, come risulta dalla deposizione che abbiamo riportato, l’aveva visto per un attimo controluce, e aveva sentito poche parole dalla finestra.
Perry Mason sospetta che l’uomo che aveva parlato dalla finestra non fosse Norton. Che Norton fosse già morto ammazzato. E che sia stato Graves a parlare dalla finestra e a prendere così la sua parte.
La sera della ricostruzione Perry Mason aveva istruito il suo amico e ammiratore, il giornalista Nevers, perché trattenesse Graves il più possibile nello studio. E l’esperimento di conseguenza era cominciato con questa sequenza di inquadrature e di battute:
Il giudice Purley premette il clacson. Aspettarono alcuni minuti e Perry suonò, a sua volta. Nessun cenno da parte di Graves. Allora Purley appoggiò imperativamente tutto il palmo della mano sul bottone del clacson guardando la finestra del primo piano.
Graves venne alla finestra e disse ad alta voce:
- Uno dei giornalisti vorrebbe mutare le condizioni dell’esperimento.
Claudio Drumm ebbe un gesto d’impazienza, aprì la portiera della macchina, e, discesone, andò a gridare sotto la finestra:
- Le condizioni dell’esperimento erano chiaramente fissate quando noi siamo scesi. Non discutete con i giornalisti e scendete subito, signor Graves.
- Bene, signore - rispose Graves allontanandosi dalla finestra.
Ma questo era quanto interessava a Perry Mason. Che il giudice Purley risentisse quella voce da quella stessa posizione. Graves supera brillantemente la prova superficiale della vista, ma cade nella trappola nascosta dell’udito, del riconoscimento della sua voce.
Nella stretta finale del dibattimento, prima di richiamare il testimone decisivo, il giudice Purley, Perry, interrogando il socio del morto Crinston, aveva illustrato come costui e il segretario Graves potessero essere i colpevoli. Sulla base di questa pressione psicologica, Mason (p. 188 dell’ed. cit.) “richiama il giudice Purley per un nuovo contraddittorio”.
- Quando procedemmo al nostro esperimento – gli chiese Perry Mason col tono di qualcuno che pronunci un giudizio decisivo – voi eravate seduto nella vostra macchina sotto la finestra dell’ufficio di Edoardo Norton al posto esatto che occupavate la sera del delitto, nevvero?
- Esattamente.
- E da quel posto, tendendo il collo, voi potevate vedere le finestre dell’ufficio di Edoardo Norton.
- Sì.
- Mentre eravate seduto nella vostra macchina al posto esatto che occupavate la sera del delitto, Graves si affacciò alla finestra chiamando voi, o il signor Drumm, che pure si trovava in macchina, non è vero?
- Si, è vero.
- E non è forse vero - fece Mason ad altissima voce, tendendo l’indice verso Purley - non è forse vero, ora che la vostra attenzione è stata richiamata su questo particolare, che voi vi rendeste conto come la voce che vi chiamò dalla finestra dell’ufficio sia stata la stessa che vi chiamò la sera del delitto?
La domanda è dunque se era o no Graves che faceva la sera del delitto la parte di Norton ormai morto.
Un drammatico silenzio pesava sull’assemblea.
Le mani del giudice Purley stringevano la sbarra, il suo volto era tormentato.
- Mio Dio - disse. - Non lo so! Da dieci minuti mi sto rivolgendo questa domanda e non riesco a trovare una risposta che soddisfaccia la mia coscienza. Tutto quello che so, è che può darsi sia stata la stessa.
Perry Mason si rivolse al giurì. I suoi occhi fermi e scrutatori fissarono in viso ciascuno dei nove uomini e delle tre donne.
- È tutto - disse con tono definitivo.
Per qualche istante l’aula mantenne un profondo silenzio, poi ci fu un fremito, dei mormori, e una donna uscì in una risata nervosa.
Claudio Drumm si morse le labbra, indeciso. Doveva riprendere l’interrogatorio o aspettar di parlare in privato al giudice Purley?
Quel momento di indecisione, durante il quale gli occhi di tutti erano fissi su di lui, Claudio Drumm lo protrasse un secondo di troppo.
L’attenzione del pubblico si spostò.
Perry Mason che, dalla sua poltrona, studiava quella folla di volti, vide l’interesse spostarsi. Il giudice Markham, nella sua esperienza di veterano di centinaia di processi, seguì e comprese egualmente il fenomeno.
D’un sol movimento, come obbedendo a un ordine intimo, silenzioso, gli occhi dei giurati, gli occhi degli spettatori abbandonarono Claudio Drumm per volgersi al volto torturato di Arturo Crinston.
Era il tacito verdetto del tribunale, verdetto che assolveva i due imputati, e attribuiva la colpa dell’uccisione di Edoardo Norton a Crinston e a Graves.
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