Fred Vargas
Fred Vargas (pseudonimo di Frédérique Audouin-Rouzeau; e Vargas si pronuncia Vargàs) è nata a Parigi nel 1957 da madre chimica e da padre surrealista (ed è già un buon inizio...). "Adamsberg era capace di riflettere solo camminando. Se lo si poteva definire riflettere. Già da tempo aveva ammesso che per lui pensare non aveva niente a che fare con l'abituale definizione di questa attività. Formare, articolare idee e giudizi. Non che non avesse provato, standosene seduto su una bella sedia, appoggiando i gomiti su un tavolo sgombro, prendendo carta e penna, stringendosi la fronte con le dita, tutti tentativi che gli avevano semplicemente disconnesso i circuiti logici. La sua mente destrutturata gli ricordava una carta muta, un magma in cui nulla riusciva a isolarsi, a identificarsi come Idea. Tutto sembrava sempre raccordabile con tutto, per viottoli obliqui dove si intrecciavano rumori, parole, odori, frammenti, ricordi, immagini, echi, granelli di polvere. Ed era così, solo cosi, che lui, Adamsberg, doveva dirigere ventisette agenti dell'Anticrimine." Adrien Danglard, il suo vice, tenta invano di mettere un po' d'ordine nel kàos geniale di Adamsberg, ricorrendo finemente all'ortodossia investigativa e ad una cultura mostruosa, ma poi si adatta, anche perché, piantato dalla moglie, deve badare a molti figli - due coppie di gemelli e uno non suo - e a troppe bottiglie; lavora sempre con "l'aria di un accademico nauseato che si sarebbe fatto volentieri coraggio con un bicchierino."
Al cinema: Pars vite et reviens tard, di Régis Wargnier (2007).
Mi è capitato di vedere persone, giovani e meno giovani, in Francia e in Italia, beatamente immersi nei libri di Fred Vargas. Io stesso, dopo il primo che ho letto, non ho potuto fare a meno di cercarli tutti (e sono tanti). L’ultimo - Sotto i venti di Nettuno - un anno fa lo divorai letteralmente mettendo a repentaglio la consegna di un libro che dovevo finire io. Il fatto è che i romanzi di Fred Vargas danno felicità, quel dono di una vita parallela e in qualche modo preferibile che la buona letteratura offre. Alla presunta evasione del genere poliziesco - che lei, controcorrente, riconduce alla formula del giallo a enigma, amplificato a mito - unisce bravura narrativa e dialoghi che incantano per verità e humour. Ma, insiste Fred Vargas, «Cesare Battisti - pochi lo dicono - si proclama innocente di delitti commessi quasi trent’anni fa, e i suoi sostenitori francesi invocano la legislazione del loro paese che impedisce l’estradizione per i condannati in contumacia.» A questa vicenda Fred Vargas ha dedicato un pamphlet, a cui rimandiamo i lettori. «Un quasi scoop legale - mi dice Fred Vargas - sarebbe la dimostrazione che alcune presunte lettere del 1981 e 1982 a firma di Cesare Battisti, e che dimostrerebbero la conoscenza dei processi a suo carico - unico argomento contro la contumacia - si sarebbero rivelate false e apocrife.» Lei è tra coloro che hanno depositato una memoria difensiva sul caso Battisti presso la Corte europea, e ha speso le sue competenze e la sua passione di scrittrice, studiosa, archeologa ed esperta grafologa, per mostrare, quanto meno, l’illegalità di un’estradizione. E questo non possiamo ignorarlo anche parlando dei suoi libri. «Non ce l’ho con l’Italia - dice - ma con la Francia, che nega la propria civiltà giuridica. Lotto perché le leggi francesi siano rispettate, perché non si arresti un innocente, e quanto meno si ascolti chi si dice innocente, e non lo si condanni in contumacia.» [Nota redazionale: senza entrare nel merito, non avendo elementi di giudizio: però che palle 'sti francesi! Che la difesa della legalità sia una priorità assoluta, d'accordo, ma, appunto, i brigatisti condannati in Italia sono forse dei poveri perseguitati politici, o degli assassini che hanno sconvolto l'Italia per oltre un decennio uccidendo quasi cinquecento persone?! (E Battisti è stato riconosciuto colpevole, in via definitiva, di ben tre omicidi!) E 'sti garantisti parigini, invece di pontificare sulla realtà italiana, che evidentemente conoscono assai poco, non farebbero meglio ad occuparsi di far conoscere meglio ai propri connazionali di quando la géndarmérie nei primi anni '60 risolse varie manifestazioni di africani semplicemente annegandoli nella Senna?] Torniamo al romanzo poliziesco, che sembra oscillare tra i pregiudizi della letteratura «noiosa», come dici tu, e la retorica editoriale del romanzo noir. Qual è la tua idea? «Penso che la letteratura gialla, o poliziesca, sia un genere che non deve essere negletto né dimenticato. La mia idea è che si tratti di un genere arcaico, che tocca la letteratura epica dell’antichità e cose come il concetto greco di “catarsi”, e l’angoscia vitale della mitologia - il Minotauro, il labirinto, ma anche il Drago, la quiete medievale dei cavalieri senza paura, tutto un universo di storie in cui conta la scoperta, la risoluzione finale, dove si uccide mostro e si salva la fanciulla, oppure si trova il tesoro, cioè la conoscenza. Conoscenza che è soprattutto scoperta e cognizione del pericolo, ciò che permette di continuare a vivere, vivere in modo nuovo, rinnovato. Anche la storia della pittura funziona così, in un attraversamento dell’angoscia verso forme di vita nuova. Oggi si dice che il giallo - o il, noir, appunto - è il nuovo romanzo sociale, testimonianza o riflesso della società. Il pregiudizio oggi è questo. Ma se la letteratura è da sempre testimonianza della società - insieme agli archivi, ai documenti, ai giornali, ecc. - essa è soprattutto simbolica, cioè è molto più complessa. Così come non si può riassumere la complessità di Orfeo ed Euridice nel suo riassunto, non si può ridurre la complessità simbolica del romanzo poliziesco e dei suoi archetipi. Io scrivo dei romanzi a enigma, nei quali non è possibile imbrogliare, e questo è importante.» Eppure il fascino dei tuoi romanzi è anche nei personaggi, come i tre giovani storici disoccupati che, inventandosi la vita in epoca di lavoro precario, diventano anche detective. C’è nelle tue storie una verità in presa diretta dei nuovi soggetti marginali che pochi autori sanno offrire. «Sì, anche se il romanzo poliziesco è una mitologia, io devo raccontare il contemporaneo. Anche l’Odissea era contemporanea per i suoi lettori. Quindi, anche se simbolica, riflette la nostra società. I miei personaggi sono gli umili, io li chiamo i trasparenti, alle prese con i nostri stessi problemi, col desiderio di giustizia, con i nostri idealismi contemporanei. Sono dei marginali, ma non dei perdenti, sanno cavarsela e districarsi. Nei miei libri non si vede che sono politicizzata, preferisco mostrare l’umanità e la disumanizzazione che incombe, questa è la mia prima preoccupazione. Credo in un’umanità singolare, senza semplificare, dove ognuno, anche un clochard, ha una grande ricchezza di estrinsecazioni.» Poe, che ha inaugurato in epoca contemporanea un tipo di racconto dove l’eroe è qualcuno costretto a interpretare, sia che finisca male, come nel Gatto nero, o bene, come nello Scarabeo d’oro… «Il giallo partecipa di un sistema narrativo mitico, nel cui schema c’è la quête (ricerca) e l’enigma, cioè l’identificazione del pericolo. L’enigma è necessario, anche senza fare un giallo classico: enigma su qualcuno o su qualcosa, per esempio l’identificazione del movente (se sappiamo già chi è l’assassino), in tutti i casi per costruire una ricerca di conoscenza. Dove magari si tratta di scoprire la tirannia o l’ingiustizia, svelare gli eccessi del potere, eccetera. In questa ricerca, o avventura, ci possono essere varie tappe, come nella storia di Ulisse, oppure un solo dramma. Le forme possono essere diverse, come nella varietà di leggende, miti, religioni. Anche in Cappuccetto rosso c’è l’identiticazione del pericolo, e come ricordavi tu a proposito di Poe, la quête della conoscenza esiste sia che la soluzione sia buona o cattiva. Può anche non essere rassicurante, come in certi noir. Ma pensa a Edipo! In genere il personaggio lascia la situazione ordinaria per un certo tempo, lascia la propria dimora, e come nelle favole della ragazza cui alla fine escono dei gioielli dalla bocca, trova le pietre preziose, cioè la saggezza. Trova insomma un sapere superiore. Ecco quindi che anche se finisse male - e nei miei romanzi non è mai l’apoteosi, non finisce mai davvero bene in senso banale - al lettore rimane comunque questo, l’iniziazione a un sapere superiore, come nei miti greci. Anche un finale triste può dare un insegnamento. Ecco cos’hanno in comune un romanzo noir e un mito greco: la catarsi. Anche se fare storie tragiche è più facile, per me è molto importante riportare il lettore a casa sano e salvo. Nonostante vi sia sempre alla fine della storia un po’ di tristezza e di insoddisfazione.» Conoscenza e consolazione… «La vita è già molto dura, e il dolore è tanto. E poi si sa, è più difficile scrivere “ti amo” che “non ti amo”, per lo scrittore è un inferno. Il negativo risulta sempre più facile del positivo, per questo mi ci accanisco. Tenendo ferme le regole del gioco della leggenda.» Parlami ancora di Adamsberg, lo «spalatore di nuvole.» Davvero non sapevi che negli antichi testi cinesi è une definizione dell’illuminato? «È un espressione del Quebec, in Canada (dove è ambientato Sotto i venti di Nettuno, ndr), dove il francese continua a vivere. Dice qualcosa di inutile come lo scrivere, perché le nuvole sono i sogni. È naturalmente una critica del funzionalismo, della tecnocrazia, in nome dell’inconscio. In nome soprattutto di quella sintesi delle due parti del cervello di cui gli eroi, a partire da quelli greci, fanno uso. Razionalità e intuizione insieme, ovvero la circonscience, qualcosa di più ampio della sola coscienza. È il proprio dell’eroe classico e mitologico, se ci pensi, il cui carattere semidivino si accompagnava ad un’imperfezione fisica, oltre alla solitudine (anche sessuale) e alcune ossessioni: segni di una condizione a metà tra l’umano e la nuvola. La circonscience è necessaria per risolvere a buon fine una quête. È complicato il romanzo poliziesco! E chissà se anche Agatha Christie, che ha chiamato Ercole (Hercules) il suo Poirot, e in un romanzo ne presenta il fratello, che si chiama Achille, fosse consapevole del rapporto del giallo con i miti, o si fosse solo divertita inconsciamente…» da l'Unità, 21 settembre 2005 [ci si domanda come mai Vargas continui a ritenere innocente Cesare Battisti anche dopo che nel 2019 ha confessato ai magistrati i suoi quattro delitti]
Sto parlando di gialli con Fred Vargas, continuazione di un dialogo avviato anni fa. Come ogni scrittrice che si rispetti, passa la maggior parte del tempo in cucina, ed è lì che siamo seduti, tra fogli, libri, computer, tazzine e caffettiera. Tradotta e amata in tutto il mondo, i lettori già sanno che il suo nome è uno pseudonimo, di professione è archeozoologa, e la sua sorella gemella straordinaria pittrice. È imminente in Francia l'uscita di un libro dal titolo // mistero Fred Vargas (che, dice, lei non leggerà). Ciò che colpisce è la sua modestia. Riluttante a dirsi scrittrice - forse perché, con un padre surrealista amico di Breton, gli scrittori erano in casa qualcosa di troppo alto - confessa che anche il suo rifuggire le interviste è un timore di inadeguatezza. «Se un giornalista mi si rivolge dicendo: "Lungo la sua opera, Fred Vargas, ci si accorge che... , io vorrei esclamare: chi? quale opera? Non mi sono mai data questo come scopo, mi occupo d'altro e la nozione di opera è troppo astratta. Non mi definisco in un essere, ma in un fare. Fabbrico storie. So di avere successo, ma in nessun momento mi riconosco nell'immagine che gli altri hanno di me. Non è cambiato nulla nella mia testa e nel mio modo di vivere, e provo Io stesso piacere nel giocare con le storie. Forse scrivo quello che vorrei leggere, senza presunzione, come chi si cucina un piatto perché ha voglia di mangiarlo.» La cinquantenne Fred Vargas ha esordito nel 1986. Ha sempre avuto la passione della ricostruzione della verità, prima come archeologa, poi come studiosa dell'epidemiologia della peste, e di recente di quella dell'influenza aviaria, per cui ha progettato una protezione, e continua ad aggiornarsi sulle mutazioni del virus. Con lo stesso spirito analitico (alla Danglard, dice, il vice del commissario Adamsberg) si è impegnata nell'analisi delle carte processuali di Cesare Battisti, prendendone le difese. Una vita di ricerca di soluzioni, come i detective dei gialli. E il conto torna, anche nel suo ultimo romanzo. Al centro, anche qui, la propagazione di un contagio, quello dei vampiri, e la violenza contro il capro espiatorio. Bestseller assoluto in Francia, parla di tombe e di vampiri. È anche per questo che andando a casa di Fred Vargas, in questi giorni, ho visitato preventivamente il cimitero monumentale di Montparnasse, cercando celebri tombe senza trovarle, per quanto indicate nei cartelli. Non sarà che si spostano, come i non-morti del suo romanzo? Un luogo incerto si ispira a una storia vera e documentata, quella di un vampiro del 1725 su cui disquisirono intellettuali e regnanti, da Voltaire a Luigi XV. «Fu un fatto molto noto, che rilanciò in Europa il gusto e la problematica del vampirismo, fino a Bram Stoker, che l'ambientò in Romania. Ho fatto molte ricerche storiche» mi dice Fred Vargas «senza però arrivare a una localizzazione. Avevo praticamente già scritto il libro quando ho scoperto che non solo il villaggio, Kisilievo (in austriaco Kisilova), ma anche la tomba del vampiro Petros Plogojowitz sono in Serbia, e ci sono andata. Ho però mantenuto la mia descrizione: se non invento non mi diverto.» E l'idea del vampiro? «Mio padre mi fece leggere Dracula quando avevo 13 anni, oltre a tutta la letteratura gotica. Esistono tantissime variazioni letterarie. La mia non è una storia di vampiri normale, ma dal punto di vista di chi ha l'ossessione di ucciderli. Il fatto è che ho sempre avuto difficoltà a dire perché si uccide, a capire e rendere credibile la pulsione e il movente di un assassino, anche se è d'obbligo. È la parte più lontana da me dei miei gialli. Coi vampiri ho giocato con la paura che se ne ha da bambini. Per scriverlo sono andata via da Parigi quindici giorni, in testa avevo solo la scena iniziale, il cadavere del vecchio fatto a pezzi, e l'idea di fare una storia basata sulla figura di Plogojowitz. Non sapevo nulla di quello che ci sarebbe stato in mezzo. Ho studiato tutto sui vampiri, compreso l'elenco delle maniere per neutralizzarli, come tagliare o legare i piedi dei loro cadaveri per impedirne la deambulazione. La storia era così complicata che temevo di non venirne fuori. A volte conto troppo sulla spontaneità.» A noi lettori piace dei suoi romanzi soprattutto la descrizione della vita quotidiana e l'humour che la pervade, È come una magia buona, una magia bianca, contro la magia nera dell'irruzione del male... «Consola la nostra naturale anormalità. In L'uomo dei cerchi azzurri anche il cattivo non è così cattivo, e mi sono spesso detta: Fred, devi imparare a scrivere un personaggio davvero cattivo e credibile! Ci ho provato col giudice di Sotto i venti di Nettuno. Persino il cattivissimo colpevole di Un luogo incerto, mentre lo costruivo, diventava simpatico. Come autore devi sapere subito chi è l'assassino, ma siccome lo devi presentare dall'inizio e costruirlo via via, alla fine è difficile abbandonarlo al suo destino di malvagio. Ho scoperto poi che i miei libri sono considerati degli antidepressivi. Ricevo lettere da chi si dichiara consolato dalle mie storie, e c'è perfino una psichiatra che dice di averli prescritti ai suoi pazienti. Beh, allora funziona quella vecchia catarsi dei nostri maestri grec!!» Le chiedo se si identifica in qualcuno dei suoi personaggi. «Ci sono due categorie di scrittori, quelli che inventano personaggi in cui si identificano e quelli, come me, che sono piuttosto degli scrittori-lettori, e non trovano se stessi nel libro. Certo, sono presente nei dialoghi, nei modi di giocare e di guardare la vita, ma rispetto ai miei personaggi sono come un lettore che prova simpatia per l'uno o per l'altro. Sento il fascino di Adamsberg, mi piace, ma mi è molto lontano, e mi annoierei a cena con lui, è silenzioso, non ride, non fa battute. A volte i personaggi vivono di vita propria e ne sono stupita.» I suoi libri sono stati anche i primi ad avere come personaggi dei precari, persone che inventano la propria vita, come i pazzi guariti di Robert Walser... «Sono quelli che vengono presi in giro, i poveri, gli anziani, quelli in cerca di giustizia o, come Émil di Un luogo incerto, delinquentello da quattro soldi col suo cagnolino puzzolente, E cui mi sono affezionata molto. Marginali ma non perdenti, rimandano alle figure primitive delle favole, i beati, gli idioti, i vagabondi, che dicono apparentemente delle banalità che invece assumono poi un senso che tutti comprendono. Ci sono marginali proletari come Émil, o il marinaio bretone, o i normanni di Nei boschi eterni, e gli intellettuali, come gli storici o l'archeologo, fino agli abitanti delle panchine che formano una rete investigativa in Un po' più in là sulla destra. So che lei ama le panchine, io non smetterei di parlarne.» Lei che è una scienziata non scrive gialli positivisti né realisti, ma quasi dei romanzi di cappa e spada contemporanei. «Non amo il realismo, ma il reale. Né faccio storie che si svolgono in altre epoche, ho bisogno di una storia che cominci mercoledì e finisca sabato. Ma i dialoghi veri che accadono nella vita, nella scrittura sono noiosissimi. Per me è importante il suono delle parole, e i miei personaggi sono reali senza essere realisti. Riguardo allo stile, il primo insegnamento venne da mio padre, che mi fece leggere Nerval troppo presto. Gli dissi che lo avevo trovato scritto molto bene. Mi rispose: se un libro è scritto bene non diresti mai che è scritto bene; se dici che è scritto bene vuoi dire che non è scritto bene. A 14 anni quella frase era un enigma, col tempo mi è divenuta evidente. Così è per la vita, che deve sembrare tale anche se è completamente ricreata nella scrittura. Il giallo è spesso, dietro la patina realista, profondamente onirico. Amo molto Hammett, Chandler, amo Camilleri. Non amo i romanzi tristi, di vite deprimenti e noiose. La noia è per me il demonio supremo.» I suoi romanzi sono il contrario di tristi, questo è un fatto. «Ma questo aspetto non è valorizzato, non è considerato intelligente. Guardi Alexandre Dumas, emarginato anche dai programmi scolastici. Il Conte di Montecristo ha una potenza incredibile. Edmond Dantès, che si sottrae a una giustizia ingiusta ed esce dall'inferno, è l'eroe che mi ha più sedotto. Lui e Athos, il più etico dei Tre moschettieri.» da Venerdì di Repubblica, 13 marzo 2009
PARIGI - A tre anni dal grande successo di Un luogo incerto, Fred Vargas torna nelle librerie con una nuova affascinante avventura del celebre commissario Adamsberg, La cavalcata dei morti (traduzione di Margherita Botto, Einaudi Stile libero). In Francia, dove è da un mese al primo posto delle classifiche, il romanzo ha ottenuto ottime recensioni e l'accoglienza entusiastica dei lettori. Ancora una volta, infatti, la scrittrice francese - che ultimamente ha deciso di non rilasciare più dichiarazioni sul caso Battisti - ha saputo sfruttare alla perfezione il suo stile inconfondibile per costruire un intrigo appassionante che, tra Parigi e la Normandia, ruota attorno a una doppia inchiesta. Da un lato, la morte di un potente industriale trovato carbonizzato nella sua macchina, dall'altro, una sequenza d'omicidi che sembrano nascere sulla scia di un'antica leggenda. «Durante le mie ricerche sul Medioevo», spiega Fred Vargas, che ha concesso a Repubblica la sua unica intervista italiana, «mi sono imbattuta nella leggenda della "schiera furiosa", un gruppo di cavalieri spettrali che di tanto in tanto tornava in terra per punire con la morte i responsabili di delitti mai scoperti e quindi impuniti. Questi mostri che combattono a modo loro l'ingiustizia mi sono sembrati subito un ottimo punto di partenza per un romanzo noir. Oltretutto, l'irrazionalità delle leggende medievali si adatta perfettamente alla diffusa superstizione contemporanea». Ma non viviamo in un mondo dominato dalla razionalità della scienza? Come nel mondo delle favole che lei accosta spesso al noir? Il commissario Adamsberg ha un modo tutto suo di combattere il male, molto lontano dagli stereotipi dominanti della letteratura poliziesca... È una critica indiretta al nostro mondo dominato dal culto dell'azione? Riproporre lo stesso personaggio di libro in libro è un vantaggio o un ostacolo? Almeno per il momento, non mi sembra che sia il suo caso... Il suo è un universo prevalente maschile. Come mai? Nel nuovo romanzo si legge che un buon testo è fatto di "grazia e sobrietà". È il suo ideale di letteratura? Vista la sua particolare attenzione per lo stile, non è tentata da una letteratura non noir? da Repubblica, 7 luglio 2011
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