Scott Turow Sono passati molti anni da quando (1986) uno sconosciuto Scott Turow, con Presunto innocente, ha reinventato il legal thriller: In realtà sarà soprattutto Grisham a riformare compiutamente il genere, in particolare rispetto alla figura dell'avvocato, ma Turow ha avuto il merito di dare uno sguardo nuovo, ed estremamente realistico, al mondo giudiziario (protagonista del suo primo libro è un magistrato). Niente di polveroso e soporifero, intendiamoci: Presunto innocente è un giallo coi fiocchi, un brillante congegno narrativo, con un coup de théatre finale davvero inaspettato. Turow, comunque, non rimane ancorato al cliché e in altri libri affronta scenari completamente diversi. Del 1990 il bel film di Alan Pakula Presunto innocente con Harrison Ford.
Questa è un'intervista a un uomo molto intelligente e preparato che è giunto alle conclusioni di chi è convinto, profondamente convinto, che la pena di morte non debba esistere, ma, per arrivare a questa conclusione, ha preso una strada lunga e accidentata. Chi parla dall'Ohio, dove si trova per un giro di conferenze, è Scott Turow, dal 1987 celebre romanziere di celebri legal thrillers come Presunto innocente, L'onere della prova e, più recentemente, e proprio su questo tema, di un formidabile successo come Errori irreversibili, pubblicato due anni fa. Gli "errori irreversibili" sono quelli che alcuni dei protagonisti del libro hanno commesso nella loro vita - errori personali, sentimentali, cose che lasciano il segno. Ma, nel libro, sono soprattutto gli errori che i giudici e le giurie americane commettono nel mandare a morire, spesso, troppo, spesso, degli innocenti. Mentre scriveva quel libro Scott Turow, che è stato in giovinezza viceprocuratore, poi avvocato penalista, e che ha continuato a svolgere questa professione con una serie di patrocinii gratuiti anche dopo essere diventato un grande scrittore di successo, è stato chiamato assieme ad altri dodici esperti nella commissione voluta dall'allora Governatore dell'Illinois, George Ryan: che nel 2000, dopo aver scoperto che tredici persone giustiziate erano innocenti, sospese con una moratoria l'esecuzione di 164 condannati a morte nel suo stato e convocò, appunto, una commissione per studiare la situazione della giustizia in relazione alla pena di morte. Due anni dopo arrivarono, con uno choc, i risultati e le proposte di cambiamento. Non abbastanza per Ryan, ora diventato un fiero abolizionista, che, in un discorso tenuto quando il 19 settembre ha aderito a "Nessuno tocchi Caino", con il pathos di un convertito alla giusta causa ha spiegato che, "ho dovuto arrivare alla più alta carica dello Stato dell'Illinois per scoprire che se sei povero e appartieni a una minoranza, il sistema è contro di te". E ha continuato elencando le cifre della mostruosa ingiustizia: "33 detenuti del braccio della morte sono stati rappresentati al processo da avvocati che sono poi stati allontani dall'esercizio della professione legale... Dei più di 160 condannati a morte, 35 erano afroamericani che erano stati giudicati da giurie composte solo di bianchi... più di due terzi dei condannati a morte erano afroamericani... 46 erano stati condannati sulla base di testimonianze fornite da informatori della prigione". Insomma, il sistema era "arbitrario, capriccioso, ingiusto, razzista". Da riformare, quanto meno. Ora, secondo Ryan, da rifiutare. Sono i temi e il percorso che Scott Turow racconta e dibatte ora in Punizione suprema. Una riflessione sulla pena di morte (Mondadori, pagg. 206, euro 12), un avvincente, pacato pamphlet che esce in contemporanea all'uscita americana presso Farrar, Strass & Giroud e che percorre, da un'ottica "razionalistica" più che "etica", il dibattito sulla pena di morte negli Stati Uniti. Arrivando alla sua personale conclusione, che è un "no" irrevocabile: ma per le diverse strade che può prendere il ragionamento di un grande avvocato appartenente a una cultura in cui la lezione di Beccaria non ha lasciato una traccia importante. "Beccaria non era favorevole alla pena capitale solo perché pensava che tenere qualcuno in una forma di schiavitù perenne sarebbe stato molto più duro. E forse aveva ragione. Ma in compenso, accettando il concetto lockiano di contratto sociale, è stato il primo a dire che la punizione deve essere basata non sulla legge divina e che nessun individuo deve cedere allo Stato il suo diritto alla vita". E perché secondo lei questo messaggio, come tanti altri elementi della più avanzata cultura europea di quegli anni, non è stato recepito dalla cultura americana? George Ryan, dopo aver dichiarato la moratoria, è diventato abolizionista. Lei, almeno in questo libro, ha preso una posizione "razionale", contro la pena di morte, non una posizione "etica". Perché? Pensa forse che così il suo "no" conclusivo sia più facile da far arrivare agli americani, e dunque, in questo senso, più efficace? Lei pensa dunque che negli Stati Uniti sia meno efficace parlare della pena di morte in termini etici e sia più utile discutere delle motivazioni e della modalità più giuste per comminarla? Lei racconta, nel libro, il caso di Henry Brisbon, una sorta di Hannibal Lecter, condannato da mille a tremila anni di reclusione, che è riuscito a uccidere anche in carcere. Quanto pesa, nella valutazione a favore della pena di morte, la paura per i difetti del sistema penitenziario, la paura che i criminali possano fuggire? Quanto pesa il fattore razziale nelle condanne? Tutti questi dati non determinano un movimento di opinione abbastanza forte in favore dell'abolizionismo? Tutto questo l'ha portata a considerare iniquo un sistema che condanna in maniera non oggettiva. E questo a lei sembra ora più che sufficiente per prendere posizione contro la pena di morte. Non è sufficiente pensare che lo stato non può uccidere i suoi cittadini per punirli di un delitto, diventando un assassino come loro? grazie a: Repubblica, 4 ottobre 2003 |